DOCUMENTAZIONE

 

 

28/09/2021

PRIMI CLASSIFICATI PER SEZIONE E PREMI SPECIALI DEL 20° CONCORSO

 

Scaletta 2021 – 20°Concorso

Cerimonia di Premiazione della 20° Edizione del Concorso Nazionale di poesia e narrativa "Vittorio Alfieri"
organizzato dall' Organizzazione di Volontariato ONLUS:
"La poesia salva la vita"

Hanno partecipato al concorso 250 autori provenienti da molte regioni d'Italia ed anche dall’Estero.
Diamo il benvenuto alle autorità presenti in sala ringraziandole di aver accolto il nostro invito. Sindaco Dott. Maurizio Rasero
Dott. Gianfranco Imerito Assessore alla Cultura del Comune di Asti
Dott. Giovanni Boccia
Walter Valente Presidente del Lions Club “Vittorio Alfieri” di Asti con la segretaria Sig. Marta Ferrero
Grazie al C.S.V. per il Prezioso sostegno ricevuto.
Ed a tutti voi, per aver partecipato al concorso e per la presenza qui oggi.

La giuria formata da docenti ed esperti qualificati.
Si è riunita per deliberare in merito alle valutazioni scaturite dall'esame dei testi partecipanti, martedi – 07 Settembre 2021 ore 10. E dopo attento esame e valutazione dei tantissimi testi pervenuti. ha deliberato in maniera concorde premiando autori ed opere degne di merito e menzione. La giuria formata da:
Presidente Prof. Davide Ghezzo docente di materie letterarie e latino nei licei, e di scrittura giornalistica per l'università. Ha pubblicato una ventina di volumi tra narrativa, saggistica, poesia e antologie e manuali scolastici, attinenti la modalità fantastica della letteratura, conseguendo numerosi premi e riconoscimenti. Tiene incontri e conferenze sulle tematiche dell'insolito e della spiritualità.
Prof. Claudio Calzone da sempre appassionato di poesia, storia, musica e letteratura fantastica, Ha pubblicato vari libri di poesie: romanzi e racconti, ha partecipato con un lungo racconto. Tiene conferenze su temi letterari, storici ed esoterici.
Andrea Laiolo laureato a Torino in Storia del teatro esordisce come poeta con una silloge che vince il premio “Mario Pannunzio” nel 2005. Da allora ha pubblicato varie raccolte poetiche ed opere drammaturgiche. Ha collaborato ad una incisione di musica antica, inoltre si occupa dal 2008 di eventi teatrali e letture poetiche.
Prof. Michele Bonavero esperto conoscitore della cultura piemontese, attento alla cura della grafia, docente alla Università delle tre età di Torino.
Prof. Sergio Donna laureato in economia e commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura. Cultore della lingua piemontese è autore di racconti, saggi e poesie. Ha pubblicato parecchi libri.
Sig. Gregorio Crudo pensionato appassionato di letture e scrittore.

Vi annuncio che
Asti è ufficialmente candidata a capitale europea del volontariato per l’anno 2023

Ed ecco i selezionati
La sez. poesia in lingua italiana
(per la lettura dei commenti il Prof. Davide Ghezzo)
4° tutti PARI MERITO :
4° - classificato – “se t’incontrerò” di Giuseppe Bianco da Casoria (Na)
4° - classificato – “oltre la terra scura, al di qua del mare” di Egidio Belotti da Fossano (Cn)
4° - classificato – “nata papavero” di Cristina Riello da Milano
4° - classificato – “alla ricerca di Maria” di M. Grazia Bergantino da Benevento
4° - classificato – “silente malinconia” di M Luisa Cantore da Trecate (No)
4° - classificato – “spaccata si è la luna” di Angela Janigro da Roma
4° - classificato – “la ballata ai tempi della fame” di Lucia Dabarno da Roma

3° classificato – “L’8 dormiente” di Marco Pezzini da S. Giuliano Milanese (Mi)
L'8 dormiente

E' giunto il tempo di indugiare al pianto,
le mie fatiche siedono qua pigre
ai bordi del giaciglio dei ricordi.

Novembre smunto reclamava spazio
scrollando il mare con il maestrale
prendendo a schiaffi e sputi lividi scogli
urlando prepotente al litorale.
Nel cimitero delle spiagge spente
dentro le mani tue calzavo il viso
mordendo la tua gonna sbandierante
faro perenne, forte, saldo e deciso.
Quante altre volte, madre, ormai da donna
nella tua rada ho spinto le mie vele;
l'anima sfatta da viaggi tempestosi
la chiglia del mio corpo messa male.
Bastava l'occhio tuo, non le parole,
una carezza, l'odore del tuo petto
per ammansire e spegnere i marosi
serena abbandonarmi nel tuo letto.
Ora tu sei in un punto indefinito
oltre quel mare ed aldilà del cielo
dove il tramonto e l'alba sono un velo
foggiati di forza e di dolcezza
che hai sciolto nel tepore di una brezza
tracciando finalmente l'infinito.
Motivazione: Una confessione corposa e sentita, scritta in versi molto misurati. L'idea della perdita, attraverso una scansione di memorie personali che si accumulano senza perdere ognuna la propria identità, scorre dal passato verso la meta dell'infinito, che la comprende in sé, chiudendosi nel segno dell'8, numero che lo simboleggia.

2° classificato - “All’ombra dei mandorli in fiore” di Grazia Dottore da Messina
All’ombra dei mandorli in fiore

La mente modella armonie
all’ombra dei mandorli in fiore,
tesse merletti con fili di ricordi,
respira l’essere senza far rumore.
Aleggia in misteriosa atmosfera
il sordo incessante risuonare
dell’acqua del limpido ruscello
che rievoca il profumo di te.
Inseguo così le mie tracce,
guardo tra le pieghe dell’anima.
Il vento silenzioso scivola incerto,
solleva polvere nelle strette vie
e spazza gli sconfinati deserti,
si insinua cupo nelle fessure
dove cantavano al sole le cicale.
L’erba intorno s’intristisce
e inghiotte il mio pensiero.
Anni di abisso e di travaglio
hanno consumato illusioni
e distrutto deboli speranze.
L’occhio si posa sulle mie mani
raggrinzite e indurite dal gelo.
All’ombra dei mandorli in fiore
il sole volge al tramonto,
la vita si dilegua scandita dai ricordi,
svanisce il tempo come schiuma di mare.

Motivazione: Delicato componimento sulla memoria e l'introspezione. L'animo è scandagliato con tocco delicato in un'aura crepuscolare e rassegnata. Il senso dello svanire è reso da una versificazione pacata, semplice e piena, condotta su una sequenza di immagini unite dall'idea del distacco.
1° classificato – “Variazioni in tono minore” di Elisabetta Liberatore da Pratola Benigna (Aq)
Variazioni in tono minore

Strugge il fiato d'autunno
lungo le vie del borgo deserto,
sulle erte ripide
dove il tempo scorre lento
e il vecchio rimane più indietro
a sostare nell'ombra
sommerso di folti pensieri
lenti come quel battito
stanco nel petto.
Fumigando si offusca il viola del cielo
sfaldando il fumo s'ottenebra,
non osa turbare l'aspro silenzio la luna,
un chiarore tenero accende la notte
filtrando le imposte serrate,
la fiamma nei caminetti
scalda memorie sopite.
S'appaga d'istanti fragili
la ragazza dai freschi colori,
sosta nelle ore immobili
sul finire del giorno
non grida, guarda la fiamma
con gli occhi che sembrano d'ambra.
Altre voci vegliano,
pregano,
il vento scuote le foglie che restano.
Trame snudate invocano l'alba.

Motivazione: Le immagini, di forte impatto visivo, si traducono in una trama verbale densa e coerente. Il dettato scorrevole e incisivo sbalza i sentimenti malinconici e robusti e li raffigura in un quadro mobile, dove la presenza umana si connette allo spazio e agli elementi, col concorso efficace di un lessico preciso e non convenzionale.
Sez. narrativa in lingua italiana
commenti dei Prof. Davide Ghezzo e Andrea Laiolo

4° “Il canto della Balena” - Enrico Ciccotti di Manfredonia (Fg)
4° “Il viaggio” - Gabriella M. Mariani di Campobasso
4° “Il pescatore” – Salvatore Petrucci di Verona
4° “La quadratura del cerchio” - Gabriele Andreani di Pesaro
4° “Ricordi che volevo dimenticare” - Teresina Testa di Asti
4° “America” – Piko Cordis - Ascoli Piceno
4° “L’ultimo padiglione” – Francesco Gozzo - Binasco (Mi)

3° Exquo - “Un napoletano a Casalpusterlengo” - Alfredo Guarino Di Napoli
Un napoletano a Casalpusterlengo ai tempi del coronavirus
Quella scaletta dell’aereo lo metteva di buon umore. Volo Alitalia atterrato da Napoli a Borgo Panigale, Aeroporto Marconi, alle 14:57, con due soli minuti di ritardo. La discesa a passo felice, saltellando brevemente, sino al saltino degli ultimi due gradini. Era giunto in suolo emiliano.
Si recò a guidare la Fiat 500 con modanatura bianca, cappotta amaranto, con cromatura rossa, che avrebbe dovuto riconsegnare alle 15:30 precise di martedì 25 febbraio 2020. Alla reception dell’Europcar aveva fatto depositare dall’amico Lazzaro una busta preziosa: conteneva due “pinze”, quella con uvetta e quella con mostarda di frutta. Sarebbe giunto in un paio d’ore a Casalpusterlengo imboccando l’autostrada A1/E35 sino alla statale 145. Il tempo per una sosta nei pressi di Reggio Emilia, per un caffè e una confezione di invecchiato parmigiano reggiano di vacche rosse. Si avviava canticchiando allegramente, canticchiando e battendo le dita sul volante, fra motivi di canzoni napoletane e cercando di cantare anche “Romagna mia / Romagna in fiore / tu sei la stella / tu sei l’amore” ma poi si arenò non rammentando più le parole. E sbirciò su Google per calcolare la distanza da Casalpusterlengo. All’indomani, 24 febbraio, si sarebbe incontrato con gli imprenditori agroalimentari di Cremona, che, con la sua esperienza, volevano installare una produzione di mozzarelle e caseari di bufala, ricotta, caciotta, burratina, stracciatella, scamorza, stracchino e provolone. Già allevatori di carne mantova, carne suina (specialmente maialini da latte) e di pollame, che consigliavano per il pollo alla gonzaghesca volevano sperimentare la loro capacità nel settore caseario. Giunto al B&B La Borraccia, parcheggiò la 500 e si avviò all’ingresso, dove l’attendeva l’Alcisa. In quel momento trillò il portatile “Sei arrivato?” “Si, sto raggiungendo l’albergo, ho preso due dolci per te” “Perché non un gioiellino, un anello, una collana, un bijoux?” “Dopo Natale, Capodanno, l’onomastico e il compleanno, un altro bijoux?” un po’ spazientito “E’ il segno dell’amore!” “Se un bijoux è un segno, quelli che ho regalato riempiono l’alfabeto dei segni!” “Ma non sono mai troppi!” “Fammi chiudere prima con quelli di Cremona” “Telefonami, le Cremonesi…” “Sono a Casalpusterlengo” “Peggio, sono Casalese” “Si – con tono ironico – una terribile associazione per l’accaparramento dei maschi¬¬, ciao” “Ciao”.
La struttura aveva dinanzi e d’intorno un bel prato fiorito e alberato, ben curato, e la stanza, con travi di legno a vista nel soffitto, era ampia e confortevole, con la nota stonata di un copriletto rosso. Un bel camino, vicino ai divani, nella sala d’ingresso, con l’elegante scala che conduceva al piano superiore. Ma, soprattutto, al livello del terrazzo, davanti al prato, vari tavoli e sedie di legno riparati da candidi ombrelloni.
Quell’atmosfera di pace e serenità agreste gli infondeva una sensazione di raccolta gioia ed intima distensione. Alla signora Alcisa chiese, poi, se per favore potesse conservare in frigo la confezione di parmigiano di vacche rosse e la busta con le “pinze”, prima di voltarsi e domandare a bruciapelo “Stasera conosce dove potrei mangiare qualche specialità cremonese?” L’Alcisa stava per rispondere, aprendo le labbra, quando da dietro Borromeo, sorridente e perentorio, con inflessione che non ammetteva repliche, sentenziò “Alla ca’ de Mazzoli”. Al ristorante notò che la sala era quasi vuota. Un cameriere, gentile ma che gli apparve impacciato, gli recò il menù. Fece un cenno di rifiuto con le mani “Mi dica qualche specialità cremonese” “il piatto degli affettati…” “Lasci stare, qualche primo” “Pappardelle al vino rosso, salsiccia e raspadura di grana … i marubini” “Cosa sono questi?” “Ravioli al brasato, salame, grana e noce moscata” “Ecco, si può avere un piatto misto dei due che ha indicato?” “Sì e poi?” “Avete dolci?” “La torta Bertolina” “Come è fatta?” “Con uva americana” “Perfetto. e due bicchieri di Gutturnio, per favore” “A seguire?” “Certo, e una piccola minerale gassata”.
Stava notando che nel ristorante, forse una vecchia cascina ristrutturata, vi era una sola persona, quando trillò il cellulare “Sai, a Casalpusterlengo, hanno detto alla radio, oggi è morta una donna anziana per il Coronavirus” “Ma dai, sarà morta per le sue malattie” “Stai attento … lascia stare le Casalesi” “Ma ti pare … devo pensare a chiudere con quelli di Cremona!” “Chiudi e torna subito” “Ok”, congedandosi.
La cena fu buona, i piatti gustosi e succulenti, un po' pesanti ma ne valeva la pena. Soddisfatto, si alzò, pagò il conto, saluto e rientrò in albergo.
Salì soddisfatto in camera, si guardò allo specchio, sorrise sornione, si spogliò e satollo prese sonno, assaporando una immaginaria torta Bertolina, con uva americana.
-15
Aveva messo la sveglia alle 7:30. Aveva calcolato che alle 9:30 doveva essere pronto per incontrare i “Cremonesi” e concludere l'affare. Pregustando il piatto dell’accordo commerciale, dopo quello dell'accordo sulle note gastronomiche, discese per avviarsi alla colazione. Notò un’aria mesta, smarrita, sul volto dell’Alcisa. “Buongiorno”, disse con tono allegro e lei rispose sottovoce “buongiorno…” “Dov’è la colazione?” pausa di silenzio, poi “Vada pure…” e un singhiozzo annunciò una lacrima “Di là, di là”. Prese posto ad un tavolo preparato e, quando si avvicinò un giovane, silenzioso e spaurito “Posso avere un cappuccino ed un succo d’arancia?” “Sì sì, ma non abbiamo la spremuta” “Fa niente, fa niente… e una fetta calda di pane tostato con marmellata d’arancia?” “Il tostapane ancora funziona… anche un cornetto?” “Se è confezionato, no… ma perché “ancora” funziona?” “Ci hanno lasciato la corrente” “Che significa? volevano togliervi la corrente?” “Per ora no…ci hanno tolto le correnti d’aria…” “Ma che succede?” “Siamo… siamo ZONA ROSSA… non possiamo più allontanarci e nessuno può raggiungerci”. Gli cadde il tovagliolo di mano e rimase a bocca aperta. E l’incontro con i Cremonesi? E l’affare che avrebbe migliorato la sua vita? E la sua azienda a Napoli?
Squillò il cellulare ed una voce squillante “Micheluzzo, cattivone, ancora non mi hai chiamato, come va?” “Sono in zona rossa, non posso muovermi” “Come, perché?” “E che diavolo ne so! Lasciami ora, mi informo e poi ti chiamo, maledizione!”
Apprese che Codogno, Casalpusterlengo e un’altra decina di comuni, in ragione della diffusione del Covid-19, erano stati dichiarati zona rossa; carabinieri ed esercito su tutte le vie di uscita ed entrata ad impedire il transito. Telefonò ai Cremonesi, che risposerò “Sì lo sappiamo, per il nostro accordo vediamo se riparlarne poi”. Chiamò l'agenzia di noleggio dell'auto all’aeroporto di Bologna “Mi costringono a stare qui 15 giorni” “Va bene prolunghiamo il noleggio di 15 giorni, moltiplicando per 17 il costo” “Sì proprio 17…ma che colpa ho io? perché devo pagare per 17?” “17 sono i giorni” “ma non potete venire a prendere la 500?” “No, ci spiace, deve riportarla in aeroporto le raccomando il serbatoio pieno” “Grazie, molto gentile”.
Nervosamente si diede a passeggiare, su e giù, nel giardino, senza mai fermarsi. Gli passò l'appetito, quando il cellulare suono: “Micheluzzo, ancora non mi hai chiamato! tutto risolto, vero? ci vediamo domani?” “Risolto un corno! sono agli arresti perimetrali per due settimane” “La solita scusa… hai trovato qualche Casalese” “Si… e sette giorni da sopra e sette giorni da sotto” “Ne sei capace” “Ah sì! … però poi vado a rilassarmi altri 14 giorni a Salsomaggiore” “Sei brutto, cattivo e antipatico”. Bestialmente nervoso “dovresti capirlo, ciao”
-14
Era da poco sceso per la colazione, che a quel punto poteva andare comunque bene. Aveva realizzato che non vi erano altri ospiti. Suonò il telefono “Amò non mi hai chiamato?” “Stavo per farlo” “Dimmi che mi ami” “Lo sai” “Ma fa bene sentirlo, dai fammi vedere” “Ogni mattina recito il mio Padre Nostro: Padre Nostro che sei nei cieli, dammi oggi il pane quotidiano, e non dimenticarti di ricordarmi che la amo. Ora e sempre. Va bene?” “Sei il solito, scorbutico, e anaffettivo” “Supera gli Appennini il mio affetto, resiste ad ogni colpetto” “Quale colpetto?” “Ciao, stammi bene, ci sentiamo dopo”.
Stava per chiedere cosa ci fosse per colazione quando avvertì che alcune auto giunsero dinanzi all’albergo. Erano i carabinieri e i vigili urbani, tutti in mascherina ed in compagnia di tre camici bianchi con guanti. Suonò di nuovo il telefono. Rispose alzando gli occhi al cielo “Dottore, dottore, sono Carmine, come sta?” “Benissimo! che c'è?” “Dottore, qui c'è il dottor Wen Li, con la segretaria e l'interprete – quello di Xi’an che vuole a Xi’an più bufale che guerrieri di terracotta – che insiste per incontrarla, riferendomi che è disposto a raggiungerla perché deve rientrare in Cina” “Carmine, qui non si entra e non si esce” “Mi ha detto che non può attendere” “E digli che sono dispiaciuto, rammaricato, afflitto ma non posso muovermi, convinca le autorità competenti” “Sorride e dice già provveduto” “Ciao eh, salutamelo”.
-13
Dopo la doccia e dopo avere ascoltato la televisione ed essersi nuovamente vestito, era sceso al tavolo del giorno precedente, sperando nel cappuccino, nel succo d'arancia e nella fetta di pane tostato, quando vide avvicinarsi un’auto della polizia urbana e una dei carabinieri. Discesero tutti con guanti e mascherine, notandosi tre in camice bianco con contenitori di plastica. Il graduato, entrando nella sala d'ingresso “soggiorna qui il signor Michele Scaròla?” Si alzò “Scàrola, prego, sono io, che c’è?” con tono da investigazione “Lei è di Napoli?” “Si, perché, che c’è di male?” “Ha già febbre, tosse, faringite, difficoltà respiratorie?” “No, grazie a Dio, ma perché queste domande?” “Socio del dottor Wen Li?” “Socio, socio no… abbiamo un progetto di costituzione di una società … cinese a partecipazione italiana.” “Sì, capito … socio di fatto e di diritto” “E qual è il problema?” “il dottor Wen Li e due collaboratori asseriscono di aver stretto rapporti con lei e hanno chiesto al sindaco l'autorizzazione a poter incontrarla” “Ah…bene…e quindi quando possiamo incontrarci?” “Il sindaco ha emanato un’ordinanza che, per la sicurezza pubblica, dispone la sua quarantena. Le presento i dottori Luciano e Cettina che, con l'infermiere Balduccio, faranno ora il necessario prelievo. Si sieda, non tocchi nulla, e stia fermo”.
Si avvicinarono i tre in camice bianco, indossando una tuta impermeabile, con occhiali, mascherine e cuffie “chini il capo” ingiunse la dottoressa, mentre estraeva dal contenitore di plastica due tamponi “ora le porrò un tampone, prima in una narice e poi nell'altra, e poi un altro tampone in bocca e avremo finito”.
Trillò il cellulare “Amò, hai visto che bella giornata, come stai?” “Non è il momento, poi ti chiamo” “Neanche una parolina dolce, che diamine, che so “zuccariella mia”, è chiedere troppo?” “Non posso. NON POS-SO!, chiaro?” “Brutto scorbutico, è alla Casalese che pensi!” “va', va a prenderti un bel caffè e poi ci sentiamo”.
La dottoressa estrasse il tampone e lui avvertì una strana sensazione, in quegli occhi che riusciva a scorgere a malapena, una specie di brivido (di febbre o di altro?), occhi che aprono libri – si disse fra sé – ma i suoi occhi ancora non ne vedevano i capitoli.
“Ora – ingiunse il graduato – deve stare in camera sua e non uscirne, sin quando, fra un giorno o due, non si saprà il risultato”. Cettina gli lasciò una mascherina e due paia di guanti di plastica.
-12
Furono i giorni più angoscianti della sua vita “Sono positivo o no?” si chiedeva, serrato in camera. Alcisa e Borromeo furono molto attenti e gentili, quasi affettuosi, gli lasciavano i pasti fuori l'uscio e dotarono la stanza di cuscini, lenzuola ed asciugamani supplementari, anche se evitavano ogni contatto diretto. “Ne uscirò vivo?” si chiedeva, quando non vedeva la televisione - che lo deprimeva ancor di più - o leggeva qualche passo di due libri di Cronin, gentilmente forniti da Borromeo “La valigetta del dottore” e “le stelle stanno a guardare”. Avrebbe rivisto Teresinella, spesso rompiscatole ed inopportuna, alla quale però voleva bene? E Carmine, “il buono”, che organizzava in azienda il lavoro? E la sua amata azienda agroalimentare e casearia, con tutte quelle belle bufale al pascolo? E gli amici e i familiari, specialmente zia Titina - e sul viso affiorò un sorriso - che usciva di casa trionfante col cappellino a fiori, ogni volta che dal forno usciva fumante e trionfante la sua famosa parmigiana di melanzane al cioccolato (con frutta candita, amaretti sbriciolati e mandorle tagliate), la leccornia che riuniva tutti in famiglia?
Una vena di dolente tristezza e anche di raggelante paura gli riaffiorava appena si distaccava dalla televisione o dai libri. E quella mascherina, che gli aveva dato Cettina, gli ricordava qualcosa, qualcosa che aveva visto, sì sì, gli oggetti che Lotte aveva consegnato al giovane Werther nel romanzo di Goethe, il romanzo censurato, che a scuola aveva ricordato il professore. No, no, quella era una storia finita male, non poteva continuare così, doveva pensare positivo. Ma non ci riusciva.
-12
Era intento a leggere Cronin, quando sentì avvicinarsi due auto, quella dei carabinieri e un’ambulanza. Si affacciò alla finestra, vide scendere tre camici bianchi, bardati come palombari imbracati e i carabinieri con mascherina e guanti. Una cappa di piombo cadde sulla testa e il sangue si gelò, quasi raggrumato nelle vene “Ecco sono venuti a prendermi” si disse.
“Signor Scàrola, Signor Scàrola, venga subito giù, la cercano”, al telefono Borromeo.
Tolse lentamente le pantofole, indossò le scarpe, vi passò della carta igienica per pulirle - forse l'ultima volta – fece un respiro profondo e discese. Si avvicinò la dottoressa, aprì una borsa e prese un foglio “Abbiamo le analisi: lei, al momento … è totalmente negativo”.
Una vampata di calore di gioia lo pervase, dietro quel camice si accorse che vi erano seni e gambe, che immaginò i più graziosi al mondo, e quegli occhi gli apparvero sorridenti e suppose che dietro quella mascherina vi fosse una sorridente bocca carnosa. L'entusiasmo era alle stelle.
Fissò quegli occhi e non seppe trattenere il ricordo della poesia di Nazim Hikmet, pronunciando incantato “I tuoi occhi, i tuoi occhi i tuoi occhi / che tu venga in ospedale o in prigione / Nei tuoi occhi porti sempre il sole” quegli occhi sembravano sorridere di più. Una pausa e intervenne il graduato “Anche se negativo, lei deve restare in quarantena”. Cettina aggiunse “Fra una settimana ritorneremo per un tampone di controllo”.
-11 -5
Nei giorni seguenti la vita fu differente. Con la restrizione di non doversi allontanare dall’albergo e di dover rispettare le distanze, ma senza l'angoscia assillante di prima e con qualche possibilità di uscire un poco dalla stanza. Gli avevano consentito di recarsi in giardino, un'ora al giorno, per curare alcune piante di anemoni, primule e calendule.
Con le calendule gli prepararono un buon risotto con aglio e cipolla, tirato con un bianco Quistello.
Quell'ora d'aria gli era particolarmente gradita anche se, molto spesso, l'aria quieta fresca e limpida era come strappata dall’urlo delle sirene delle ambulanze, che recavano i contagiati all'ospedale di Lodi. L’Alcisa gli preparò anche una torta mantovana e un Bussolano per colazione, e per cena una torta Elvezia (con mandorle e zabaione) e una “torta di tagliatelle” (che strano, anche nell'entroterra napoletano, nel giuglianese, si preparava una delizia simile, la “pastiera di tagliatelle”) mentre il Borromeo, oltre a dargli a prima mattina una copia de “Il cittadino di Lodi”, gli aveva procurato alcuni CD di Peppino di Capri, Lina Sastri, Massimo Ranieri e Pino Daniele.
E alla signora Alcisa spiegò alcuni primi piatti della cucina povera napoletana: “‘o scammaro” (frittata di pasta mista con olive, pinoli ed uvetta), gli spaghetti alla “chiummenzana”, la specialità Caprese, con pomodorini, aglio, peperoncino, origano e basilico.
Non se la passava male. Anche le telefonate di Teresinella, le canoniche 5 dei lustri del giorno, erano divenute più lievi, agrodolci, con sentore di aspro e a volte frizzantino.
Restava la preoccupazione del successivo tampone e forte il desiderio di varcare il cancello che lo confinava, almeno per vedere la torre Pusteria e il Convento dei Cappuccini, che gli erano stati lodati dal giovane della colazione, che scoprì chiamarsi Gaspare.
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Venne il giorno del secondo tampone, quando giunsero i tre in camice bianco, stavolta senza i carabinieri. Cettina, con quegli occhi neri sorridenti dietro la mascherina “Su, un'ultima prova e sarà poi rassicurato definitivamente” “sì ma ad una condizione: che venga lei a comunicarmi il risultato, sento che mi porta fortuna”
Rise compiaciuta e prelevò i campioni. “Non vi fermate per un caffè? … non è quello di Napoli ma la miscela non è da gettare … se invece di colorare l’acqua col caffè si pensasse di ingentilire il caffè con l’acqua…” “No, grazie, dobbiamo correre… siamo in piena emergenza, a domani”.
Micheluzzo ancora temeva ma si sentiva fiducioso, Cettina gli avrebbe recato fortuna. Quel giorno finì di leggere l'ultimo libro di Cronin, percorse più volte il giardino e si fermò a guardare gli anemoni viola, rossi, bianchi e rosa sino ad ammirarne uno a cerchi colorati concentrici bianchi, rossi e gialli che colse per donarlo ad Alcisa, quando, senza mascherina, giunse Cettina. “Ecco lo avevo colto per lei!” “Ma come sapeva che le avrei dato una buona notizia…è negativo!” “Grazie, grazie a Dio e a lei. In questi giorni ho molto sofferto e riflettuto. Ho riacquistato il piacere delle piccole cose, dei passi del quotidiano, dei gesti dell’incontro, dello sguardo su persone che troppo spesso abbiamo incrociato di sfuggita e che avrebbero meritato di più, molto di più di un fuggevole attimo. Possiamo prenderci almeno un caffè…il più ristretto possibile.” “E vada per il caffè, 5 minuti soltanto”.
Quando si sedettero, “Lei mi ha concesso solo 5 minuti ma i suoi occhi fermano attimi di eterno”. Arrossì e sorrise, lui la guardò a lungo, negli occhi, senza parlare mentre sorseggiava il caffè. Lei arrossì di nuovo, su quel bel viso già roseo, vezzeggiato da una ciocca di capelli biondo miele.
Poco dopo i 5 minuti, Cettina si alzò e anche Micheluzzo si alzò, lei tese la mano e strinse quella di lui a lungo mentre un brivido lo scuoteva e riscaldava le sue vene. Quando lasciò il cancello, gli venne in mente “dicitincello vuje…” “è na passione / cchiu forte ‘e na catena / cu st’uocchie doce / vuje solo mme guardate / levammece ‘sta maschera / dicimmo ‘a verità”.
-2 -0
Ormai era prossimo alla fine della quarantena. L’ultimo giorno salutò, con simpatia e gratitudine, Alcisa e Borromeo e si avviò a prendere la 500 bianca con modanatura e cappotta amaranto per riprendere a Borgo Panigale l’aereo che lo avrebbe riportato a Napoli, senza più le “pinze” ma con il parmigiano reggiano di vacche rosse. Avrebbe riallacciato i rapporti con i Cinesi e i Mantovani? Avrebbe potuto proseguire con Teresinella, irrefrenabile con le telefonate? Avrebbe mai più rivisto Cettina? E a Napoli il Covid-19 sarebbe arrivato?
In una busta Cettina ritrovò una collana di corallo di Torre del Greco con gemme rotonde di perle nere, nere come i suoi occhi, con una dicitura e una firma “I sogni possono avverarsi. Micheluzzo”.
3°Exquo - “Si alza la marea” Emanuele Rizzi di Frabosa Sottana (Cn)+
Si alza la marea

Mi chiamo Lisa e ho diciassette anni.
Si dice che il mare accenda emozioni diverse nei cuori delle persone, ma ancora non ho capito quale sia la mia. È difficile che qualcuno ignori l’immensità dell’oceano, soprattutto nei villaggi di pescatori come quello in cui sono nata. C’è chi lo ama e passerebbe la vita intera sopra una barca – ne è un esempio mio padre – ma anche chi ne è terrorizzato e non vuole saperne di navigare.
Un caso più unico che raro, invece, è quello del signor Bellini.
Io non gli ho mai rivolto la parola, né lui s’è mai preso la briga di rivolgerla a nessuno. Girano alcune voci secondo le quali vivesse di quanto pescava suo figlio, che ogni mattina si alzava di gran lena per partire dalle morbide sponde. La vita del signor Bellini, quando era in compagnia del suo pargolo, è sempre stata silenziosa, serena e lontana dalla spiaggia.
Questo, almeno, fino al giorno in cui il mare glielo portò via.
Da allora trascorre le giornate seduto sulla battigia a fissare l’orizzonte, senza muoversi fino all’imbrunire. Quando arriva il vespro, senza pronunciare alcunché, si alza e se ne torna a casa.
Noi cerchiamo di non parlare della sua storia, o almeno non per le strade del paese dove persino i gabbiani hanno orecchie acute. Soltanto i fili delle donne che tessono, insieme forse alle vele dei pescherecci, sono testimoni del racconto rimasto appeso alla legge del silenzio.

Oggi c’è bel tempo. Quando la pioggia risparmia le tegole dei tetti, i bambini giocano per le strade o aiutano i padri con la pece per gli scafi, mentre le donne si affaccendano per cucinare, lavare e stirare.
Alcune fanno persone fatica a passare inosservate, come la signora Mezzagamba. Quella vecchina si è guadagnata il soprannome zoppicando per le strade come un merluzzo sulla sabbia, ma il suo vero nome non lo ricorda nessuno. Poi, da sei mesi a questa parte, non l’abbiamo più vista.
Qualcuno dice che sia spirata, ma il vecchio Lamborgia, il più anziano del paese, la sera lascia sempre davanti alla sua porta un cestino di uova, latte e pane; all’alba gli alimenti non ci sono più.
La casetta della signora Mezzagamba è lontana dal villaggio, annidata accanto alla scogliera che si lascia abbracciare dal mare. In questo periodo dell’anno, quando si alza la marea, l’acqua arriva alle finestre e lei deve trasferirsi per qualche giorno.
Mentre cammino verso la spiaggia, passando per la via del paese, mi domando che cosa farà quest’anno. Forse, se le sue gambe glielo consentiranno, riusciremo a rivederla ancora.

Il garrito dei gabbiani accompagna le barche nel loro quieto scivolare. Papà sta rientrando insieme agli altri pescatori, ma ripartiranno subito. Si fermano giusto il tempo per mettere qualcosa sotto ai denti; siccome ci sarà l’alta marea per almeno un mese, devono darsi un gran da fare per riempire i magazzini.
Come sempre, noi ragazze corriamo ad accoglierli sulla battigia. Il sole ci bagna la pelle e la sabbia si arrampica sui capelli. Ci aspettiamo di trovare acciughe, canocchie, calamari e lucci da pulire, ma i volti stanchi degli uomini che sbarcano non lasciano spazio ai dubbi.
«Nulla. Non abbiamo preso nulla» bofonchiano. Hanno musi scuri come gli scafi impermeabili delle imbarcazioni, ora in balìa del dondolìo della spuma biancastra.
Ce ne stiamo in silenzio, nessuno ha il coraggio di ammettere che non possiamo sopravvivere senza il pescato. A quanto pare il numero di pesci è diminuito, complici le industrie che con le loro gigantesche navi ne tirano su tonnellate e tonnellate. A noi resta ben poco da pescare, ma non abbiamo mai avuto il desiderio di svuotare l’oceano.
Vogliamo solo mangiare.

L’espressione sul volto di mio padre è una spennellata di umiliazione. Quando siamo seduti a tavola, mamma cerca di distrarlo un po’. Ancor prima che rientrassimo, lei sapeva già tutto. Aveva parlato con la vicina, la signora Norbetti; non c’è notizia, grande o piccola che sia, che non attraversi la porta di casa sua.
«Marcello, pensavo di preparare lo stufato» dice mia madre.
«Sì, come ti pare» risponde papà, a monosillabi. Soltanto una rete strabordante di pesce potrebbe risollevarlo.
Fisso la salopette umida appesa al muro; è come se fosse stata tirata a lucido, spazzolata più dei baffi di mio padre. Non c’è traccia dell’odore del mare, né tantomeno dei segni di lotta di cui i pescatori vanno così fieri. Nessun branzino sembra essersi dimenato, oggi.
Ingurgita controvoglia un paio di forchettate, indossa il cappello e la salopette, per poi avviarsi verso l’uscita. Non so se sia per orgoglio o per dare una mano, ma dalle mie labbra sfugge una manciata di parole.
«Vengo con te, papà» dico, prima di irrigidirmi.
«Che cosa stai dicendo? Temo di non capire, Lisa».
Stringo i pugni. I muscoli sono in trepidazione. «Voglio darti una mano. Insegnami a pescare».
L’imbarazzo striscia sui muri della stanza. Mia madre è talmente sconvolta che non sa cosa dire; solo un intangibile spasmo della mano, forse nel tentativo di fermarmi, è l’unico segno che ancora è viva. Mio padre invece, dopo un istante di esitazione, crepa il silenzio con una grassa risata.
«Tu? Una donna per mare? Non farmi ridere!» tossisce.
«Io voglio venire con te». Sento il sangue ribollire nelle vene, l’emozione prende il possesso del mio corpo. Adesso il viso dell’uomo si fa serioso.
«Devi essere impazzita. Porta sfortuna far salire una donna su una nave. E poi, è troppo pericoloso. Dio mi fulmini se permetterò a mia figlia di andare per mare!».
Per quanto io sia spaventata e senta le articolazioni scricchiolare, gli occhi non mi tradiscono. Mamma, che è rimasta in silenzio fino ad ora, apre bocca.
«Marcello» pronuncia, prima di fare una breve pausa. «Penso che un paio di braccia in più potrebbero farti comodo. Se non prenderete qualcosa nelle reti, Dio può anche fulminarti perché moriresti comunque di fame». Per quanto mi sforzi di ricordare, credo sia la prima volta in cui trova il coraggio di schierarsi contro di lui.
Papà oppone ancora un po’ di resistenza ma, stanco dalla disastrosa giornata, si arrende sbuffando.
«D’accordo, ma solo per oggi. Partiremo per ultimi, così nessuno ti vedrà. E mettiti il cappello, non voglio che la sfortuna si accorga che sei una donna».

Prima di salire sulla barca, poso lo sguardo sul signor Bellini. È ancora lì, immobile come uno stoccafisso, perso in un punto lontano dell’orizzonte. Non dice nulla, continua semplicemente con il suo rito di contemplazione. Che rapporto c’è tra lui e il mare? La sua espressione non sembra carica di tristezza e disperazione, a differenza dei nuvoloni che hanno rapidamente coperto il sole.
«Lisa, dobbiamo sbrigarci. Tra non molto arriverà una tempesta». Papà, che dopo aver caricato le reti spinge il piccolo peschereccio in acqua, mi convince a distogliere lo sguardo dall’uomo seduto sulla sabbia. È in questo momento che sento per la prima ed unica volta la voce del signor Bellini.
Non somiglia a un lamento, né tantomeno a un monito; è come un flutto stanco che si spezza contro la scogliera.
«Si alza la marea».

Ho sempre sognato di solcare il mare e imparare a pescare. Penso di essere la prima ragazza che ne ha l’occasione, ma non ne sono certa; io di storia non ne so un granché.
Papà mi ha spiegato come utilizzare la canna da pesca, dal mulinello fino all’amo. Sono in attesa da circa venti minuti. Lui invece sta controllando le reti che abbiamo gettato sul fondale.
Siamo partiti che il filo azzurro era praticamente immobile, ma ora le onde iniziano a ingrossarsi; non abbiamo molto tempo prima che ci costringano a tornare a riva.
Improvvisamente ricevo uno strattone deciso e per poco non finisco in acqua. Cado sulle ginocchia, tengo la manovella come mi è stato spiegato e tiro con forza nella direzione opposta.
«Papà! Ha abboccato!» urlo.
Ecco che mio padre, pescatore esperto, si precipita dall’altro capo della barca e mi aiuta a tirare, dando un po’ di lenza e bloccando il mulinello a tratti.
«È bello grosso» esclama. «Dai che è nostro! Forza Lisa!».
Con tutte le energie che ho in corpo, sforzando ogni singolo muscolo come se da quella battaglia dipendesse la mia stessa vita, grazie a un colpo di reni vedo guizzare fuori dall’acqua un’enorme cernia che finisce ai miei piedi. Combatte e si divincola, ma ormai è presa.
Papà sorride soddisfatto, mentre le gocce di sudore gli scavano la fronte.
«Mi venga un colpo se mia figlia non è una pescatrice nata! Peserà almeno quaranta chili!» sghignazza.
Sono stremata. Dovremmo riuscire a tornare in fretta, ma papà è ancora teso. Il mare si sta ingrossando ancora.
«Questo non basterà, ma è già qualcosa. Speriamo che le grandi navi da pesca ne abbiano lasciato qualcuno in più» dice, spostando lo sguardo verso l’orizzonte. «Tuttavia, temo che per ora dovremo accontentarci. Arriva la tempesta».

Non so come sia successo, ma in pochi minuti la situazione è degenerata. Non ho mai visto onde così grosse e il violento scrosciare della pioggia non è d’aiuto.
«I remi, dobbiamo usare i remi!» urla papà. Le sue parole sono spezzate dal gorgogliare del mare che si abbatte sull’imbarcazione.
Io inizio a ramare, ma la paura è tanta. Mi tremano le mani, non posso esitare o finiremo inghiottiti dai flutti. La spiaggia non è lontana, vedo le luci del villaggio, eppure la corrente ci porta verso la scogliera. Mi sento annegare dentro.
Lottiamo come branzini che vogliono sfuggire alla cattura, con la rete dell’oceano che non lascia scampo. Dopo pochi attimi lo scafo si scontra con gli scogli ed entrambi siamo a faccia in giù sul ponte di legno, ormai fradici. Ci alziamo lesti, combattiamo con la corrente e con le onde. In qualche modo riusciamo a entrare nella baia, ma la spuma biancastra ha ormai ricoperto tutto: ha già superato le finestre della casa della signora Mezzagamba.
Raggiungiamo la spiaggia, saltiamo giù e l’acqua ci arriva al petto. Gli abitanti si stanno dirigendo verso il pendio; ci sono tutti, ad eccezione del signor Bellini. Se ne sta ancora immobile, lasciando che i flutti lo colpiscano prima di ritirarsi. Forse non vuole andarsene? Vorrei chiamarlo, ma papà mi trascina via. Dopo qualche minuto di risalita, ci sdraiamo sulla cima del crinale con il fiato spezzato.
Mia madre e la signora Norbetti, seguite dalle altre novanta anime del paese, sono lì, pietrificate in espressioni straziate e disperate. Anche la Mezzagamba pare essersi tratta in salvo, aiutata dal vecchio Lamborgia.
Mentre osservo lo spettacolo di devastazione, vorrei domandarmi cosa ne sarà di noi, ma i miei pensieri sono rivolti altrove; su ciò che resta della spiaggia non c’è più nessuno.
Possibile che mi sia immaginata il signor Bellini? Un riflesso del mare, un guizzo indeciso o forse la spuma mi hanno tratto in inganno? Vorrei controllare, ma non c’è nessun corpo.
Ormai non c’è più nessun villaggio.

Motivazione: Una scena consueta della vita dura di chi vive il mare per necessità, ma anche l’amore per quell’elemento che esige rispetto. Una bella storia di affetti e di voglia di farcela-

2° “Gli invisibili” Maria Teresa Montanaro di Canelli (At)
GLI INVISIBILI (Là, dietro la curva…)
La strada si snoda a tratti più stretta, a tratti più ampia, salendo verso le colline che abbracciano da sempre Torino.
Il caos del traffico scema, la gente che si incontra cammina più lentamente, ai grovigli di strade si sostituiscono gli alberi.
Sembra che il tempo, qui fuori dal centro, si dilati per lasciare alle persone la possibilità di riflettere, di pensare.
Una grande curva che piega a destra; il panorama è molto bello, si vede tutta la città. Parcheggio ed osservo l’edificio.
Chi transita velocemente non può capire di che cosa si tratta, l’indicazione è troppo piccola…
L’entrata, costituita da un cancello scorrevole, potrebbe essere quella di un asilo come quella di un’autorimessa.
Entrando, un ampio cortile quadrato. E appena ci si trova lì, il mondo che abbiamo lasciato fuori diventa lontano, sfuocato, irreale. Qui in questo cortile capisco paradossalmente che solo ora
faccio parte della realtà.
Una porta, un breve corridoio; l’ascensore.
I “dimenticati” sono qui sopra di me: al primo piano, gli autosufficienti; al secondo, parzialmente autosufficienti; al terzo piano gli altri. Vado all’ultimo piano.
L’odore di medicinale mi assale ricordandomi che questo mondo è un pianeta a parte, con un'aria tutta sua, e non sempre piacevole da respirare.
Non c’è tempo di perdersi nei pensieri: davanti a me, la prima camera.
Due letti: in uno Giovanni, nell’altro più nessuno.
Già, mi dimenticavo; lui, quello dell’altro letto, era qui perché un tumore stava pian piano
invadendo tutto il suo corpo.
Nel giro di una settimana ha smesso prima di mangiare, poi di camminare, poi di scherzare con il compagno di stanza, poi di sorridermi quando venivo, poi di parlarmi, poi di guardare nella mia direzione. Oggi non occupa più quel letto rifatto.
Giovanni mi vede e subito i suoi occhi si fanno lucenti. Qualche volta mi racconta di sua figlia,
qualche volta di quella mattina in cui metà del suo corpo ha smesso di vivere.
In fondo al corridoio bianco c’è il salone. I letti percorrono tutto il suo perimetro. Ora si capisce meglio di essere in un istituto per anziani. Guardo negli occhi l’altra faccia dell’anzianità. Una umanità debole e marginale. Un mondo che scorre parallelamente al nostro, ma che spesso non intersechiamo perchè i vecchi non li vuole nessuno... Molti occhi stanchi si posano su di me, qualcuno mi vede bene, per altri sono una macchia di colore. Le orecchie non sanno distinguere con esattezza i nomi che vengono chiamati o gridati.
Alcuni chiamano l’infermiere, altri si lamentano di chissà quale dolore, parecchi vorrebbero cambiare posizione, ma da soli non possono farcela; alcuni mi dicono una parola, qualcuno infine chiama e basta. Molti non chiamano più.
Quanti sono? Quanti anni hanno? Perché sono qui? Perché loro? Quanti frammenti di storia, quante vite vissute intensamente o con passività, quanti padri, quanti nonni. Facce incise dalla fatica, scolpite dal cumulo degli anni, occhi di una pacata rassegnazione dietro una ragnatela di rughe, corpi nodosi come tronchi d'ulivo e in una tasca polverosa del cuore un pugno di ricordi secchi da sgranocchiare.
Nell’aria si sentono le fiamme spente di antichi amori, dei loro sogni, dei loro progetti, delle loro parole fatte o non dette mai, dei loro momenti belli o brutti, dei viaggi, delle delusioni; si avverte l’eco della loro antica forza, di un vigore che non torna, delle lacrime versate, del tempo sprecato in passato, quel tempo che poi è scivolato così rapido. Per tutti un destino comune, da vivere, questa volta, con tutto il tempo. Qui il tempo non fugge più, non ha più fretta. C’è tutto lo spazio per… cosa?
Per pensare, ripensare, pentirsi, rifare tutto con i sogni, rivivere ogni cosa con la memoria, cambiare il passato con la fantasia.
Ma questo presente è così immobile da soffocare la mente: e così il più delle volte le ore servono solo per piangere, per sentire il nulla inesorabile di una malattia, per aspettare l’ora successiva. Guardo questi uomini che giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, perdono a poco a poco l’orgoglio, il pudore; ne scoprono l’infinità inutilità.
Renato è in fondo al salone. E’ paralizzato da otto o nove mesi. Prega moltissimo, progetta attività giovanili, si rattrista di aver parlato male al dottore o all’infermiera.
Ma parla sempre di meno di quando uscirà. Non ci crede più. Seduta su una piccola sedia di legno impagliata, con indosso una coperta che l'avvolge, un'esile e minuta anziana mi guarda con i suoi occhi azzurri velati di tristezza, ripetendo sempre la stessa frase come un disco rotto: “Lasciami in pace, sono sola, ho freddo,mi chiamo Lisetta”! Lisetta, una ragazza madre che ha affrontato tanti sacrifici per crescere da sola una figlia irriconoscente che si è dimenticata di lei come fosse un oggetto vecchio e l'ha cancellata per sempre dalla sua vita! La voce fa fatica ad uscire e quel dolore atroce e sordo l'ha resa sola e triste. Si ferma un attimo ad asciugarsi gli occhi, quindi riprende il racconto. “Secoli fa avevo un lavoro, una bella casa e tanti amici. Poi la ditta è fallita e ha licenziato tutti. Ero una segretaria di direzione, e tutti i ricordi, belli e brutti,li ho dentro il mio cuore. Senza soldi ti sfrattano, non mangi, non vivi più e gli amici scappano lasciandoti sola come un'appestata. Puoi permetterti solo un attico a cielo aperto, e, come tetto, scatole di cartone. Ho trovato più amici e umanità in questo mondo di “invisibili” che tutti disprezzano, piuttosto che tra le persone cosiddette “normali”. Cammino lungo un corridoio dove si affacciano alcune camere dei degenti, le porte in vetro lasciano intravedere le persone coricate sul letto. Roberto, dopo la morte improvvisa della moglie, ormai conviveva con la sua solitudine che lo accompagnava dall'alba al tramonto, con il cuore sempre in gola e con l'anima in disparte, fuori dal tempo, ai margini della realtà, precipitando nell'abbandono di sé! Il suo cuore era come un vetro incrinato che poteva andare in frantumi in qualsiasi momento. Un giorno fece un incontro che lo scosse da quello stato di torpore e di immobilità dello spirito in cui era sprofondato. Quell'uomo sarebbe diventato il suo migliore amico. La loro amicizia era scaturita dal bisogno, cresciuta con la conoscenza. Era un'amicizia armata di pazienza, alimentata da autenticità. E ora Roberto era incredibilmente felice a dispetto della tristezza che lo attanagliava! I loro passati non erano poi così dissimili. Sovrapposti,molte linee combaciavano perfettamente. Erano linee di persone ferite in attesa di un risveglio o di una via d'uscita. Linee di chi forse è caduto nel vuoto ma ha incontrato un suo simile, una sorta di angelo che gli sussurrava: saremo amici per sempre! Purtroppo, nonostante le cure,lo stato di salute di Roberto peggiorava di giorno in giorno e anche la terapia del dolore si dimostrava sempre più inefficace. Michele, il ragazzo della stanza nove, i cui genitori hanno lentamente iniziato a smettere di venire a trovare,dimenticandosi di lui, non è l'autistico geniale del film che impara le cose a memoria per poi stupire amici e parenti. Lui è chiuso nel suo castello inespugnabile, ha costruito una fortezza intorno a sé, per difendersi da un mondo che non lo comprende. A volte si dondola avanti e indietro con la schiena, quel cullarsi così dolce e rassicurante lo fa sorridere. A volte si batte le mani sulle orecchie quando i rumori lo infastidiscono troppo,oppure si torce le dita, e se le tira così forte che ho paura che si faccia del male. Michele si siede sul divano e segue con aria assente le immagini che scorrono nella televisione, in fondo al salone. Alza lo sguardo e i suoi occhi si posano nei miei. E dentro di essi vedo un bagliore che lo illumina, uno scintillio che parla di vita, un'espressione che sembra gioia. Mi siedo vicino e lo stringo forte. Mille domande mi attraversano la mente...
Giuseppe è nell’angolo in fondo a destra. Mi accosto al suo letto e volto le spalle al salone.
Voglio parlare un po’ con lui, c’è molto da imparare.
Alle 18:30 l’infermiera porta la cena; ne approfitto per aiutarlo a mangiare: non può infatti portare i bocconi alla bocca da solo; è affetto da una malattia che ha leso tutto il suo corpo e il viso.
Cosa dirgli? Di che cosa parlare con lui? Intanto, riempio il cucchiaio di pastina in brodo e lo imbocco.
Deglutisce e sembra soffrire per ritrovare il filo del discorso interrotto: stringe gli occhi che vedono male e corruccia le sopracciglia in una smorfia che commuove. Mi sembra di percepire lo sforzo della sua mente che fa ordine fra i pensieri: poi la sua voce simpatica,flemme ed ovattata, ritorna fra le voci drammatiche del salone. Guarda il soffitto, sorride di tanto in tanto; nel suo viso non c’è traccia di impazienza né di fastidio. Non traspare da lui nessuna insoddisfazione, nessun rancore. Può forse conoscere la fretta, l’ansia, il rimorso?
Giuseppe no, non può provare questi sentimenti; non conosce paura, confusione, dubbio, vendetta, desiderio, sesso, sconfitta, gioia …
Giuseppe no, non può conoscerli, perché ha cinquanta anni e da quaranta è all’istituto.
Chi è un bambino di dieci anni che ha chiuso la porta sul mondo e per il resto della vita è stato in un letto?
Quante persone sono arrivate lì e poi se ne sono andate…e lui era già là, c’era dopo, c’era sempre.
Giuseppe non può leggere, non può vedere le foto di una rivista, non può camminare, non può stringere la mano di nessuno.
-“Io non me la prendo proprio mai, io non mi arrabbio con nessuno.”- mi ha detto un giorno, sentenziandolo con la sua voce che sembra proclamare le grandi verità che non hanno tempo né fine. E per me lo sono diventate.
Che idea ha del mondo, della vita, del “bene”, del “male”? Non riesco ad immaginarlo nonostante mi sforzi. Vorrei fosse lui a dirmelo, provo a dividere i suoi pensieri, ma cado in partenza
Non posso, io, immaginare cosa significhi aspettare l’indomani per vedere lo stesso letto, lo stesso
salone, le ore interminabili che si sono succedute per quaranta anni: solo, solissimo, con una mente immatura, con l’esperienza di dieci anni di vita, con i ricordi di quei pochi anni. Nessun passato vero, nessun futuro…un interminabile presente vuoto di tutto.
Però… la visita di un ragazzo, la mia visita: un’esplosione di novità! Gli verso un bicchiere di
sciroppo di menta ed acqua: la settimana intera diventa movimentata; in un vuoto lungo più del doppio della mia stessa esistenza, un minuto con un visitatore è per lui un’emozione estrema, una gioia, un’avventura!
Io sono lì e non so cosa dire, cosa fare, cosa raccontare, poi capisco che basta una parola, una banalità qualsiasi. Capelli castani e ricci sparsi sul cuscino, lineamenti diafani, gli occhi chiusi. Il viso di Annalisa è appoggiato al cuscino. Pallido, nella penombra delle persiane abbassate.Sono infinite le storie di dolore, squarci di vita vissuta, dimenticata dal mondo! La voce dell'infermiera mi distoglie dai pensieri. Ripercorro il corridoio verso l'uscita.
E’ il momento di andare. Mi volto per l'ultimo sguardo all'istituto e mentre chiudo il cancello una lacrima dispettosa scende all'improvviso!
Fuori la vita non è più la stessa.
Torno a casa: la gente ride, la gente scherza, i clacson suonano forte, i negozi espongono ricchi prodotti colorati, le luci brillano di sera, i ragazzi passeggiano, ridono forte spensierati.
Il contrasto fa male. Quale dei due era sogno? Che cos’è più vero?
Due adulti litigano, una donna porta i sacchetti della spesa. Nell’aria, le mille emozioni dei minuti che corrono veloci, i ritardi, gli appuntamenti, gli impegni, l’angoscia, la tensione, le risate, gli affetti, il lavoro, gli amici, la casa, l’amore.
L’istituto?
Non sarebbe proprio possibile andarci oggi, non c’è tempo; domani?
No, domani no, con tutto quello che c’è da fare…
Io ritorno a casa, ho da studiare ancora qualcosa; devo sapere assolutamente in che anno è stato composto quel poemetto, devo ripassare il significato della congiunzione ”e” nel sonetto, congiunzione che sottolinea il rapporto dialettico fra luce e buio, ecc. ecc.
Devo saperlo per maturare, per diventare uomo. Certo.
Tanto domani sarà tutto diverso, i compagni di scuola, il sole, le attività frenetiche di tutti i giorni.
Tanto da questa parte del mondo non è possibile vedere cosa c’è al di là di quella grande curva in collina.
Dopo quella grande curva che separa due mondi così diversi, che nasconde Giuseppe, e gli altri del terzo piano…
In quel girone dove la vita è senza tempo, dopo quella grande curva.

Motivazione: Quelli che non fanno notizia se non per qualche interesse momentaneo. La vita che segue pieghe amare nelle stanze di una struttura. Gli invisibili sono vite sospese e senza speranza, ma un aspetto reale che ci riguarda a cui dedichiamo fuggevoli e preoccupati sguardi.

1°Classificato “Il cassonetto” Silvano Bertaina di Govone (At)
Il cassonetto 47


Io e i miei fratelli mangiamo nel cassonetto 47.
Proprio davanti, dall’altra parte della strada c’è il 46, ma noi ci andiamo raramente, perché appunto bisogna attraversare la strada e le macchine arrivano veloci, sebbene questa sia una strada stretta, di periferia, di quelle che dividono i palazzi come fossero fette di crostata.
Nel cassonetto 47 troviamo di tutto, tutto quel che ci serve per una dieta equilibrata, proteine, vitamine, grassi, anche i liquidi perché spesso, sul fondo si formano delle pozze nerastre, pisciate da qualche sacchetto mal chiuso e noi si beve lì.
E poi il cassonetto 47 ha una preziosa particolarità: la plastica si sta sfasciando in vari punti e vicino ad una delle ruote si è formato un buchino, nel quale riusciamo ad infilarci, anche Dimitri che è cicciottello ci passa.
Così non dobbiamo intrufolarci quando la gente viene a buttare la rumenta, che bisogna esser lesti e non farsi notare, sennò quelli -specie le femmine - si spaventano e lasciano andare di colpo il coperchio e una volta, quell’altro di un mio fratello, il più giovane, quello che chiamiamo Smerdino, manca poco che ci lascia la ghirba.
Comunque non è della nostra vita di ratti emigrati in città che voglio parlarvi. Ma di un fatto.
I fatti sono quelli che riempiono davvero la giornata.
Spesso si fanno troppe chiacchiere e congetture e voli pindarici e non si arriva a nulla.
I fatti invece restano e quel che abbiamo visto ieri è un fatto.
Devo premettere una cosa. Noi sorci dell’est siamo abbastanza rozzi.
La nostra famiglia pare abbia origini russe, se non addirittura siberiane, e abbiamo in testa poche cose, pochi principi e quasi nessuna regola indiscutibile.
Ci portiamo appresso un sangue infiammabile, a buona gradazione alcolica ed è per questo che siamo litigiosi, inaffidabili, umorali, approssimativi.
Siamo testardi e orgogliosi, non di essere russi o forse siberiani, ma di valere qualcosa più degli altri ratti occidentali, solo perché arriviamo da lande desolate, fredde e inospitali, dove i topi debbono arrangiarsi con radici e licheni e un cassonetto come il 47 se lo sognano la notte, quando la temperatura scende e camminando sembra di saltare su un tappeto elastico e la tana è così dura che si dorme uno sull’altro, non solo per riscaldarsi.
E una volta arrivati qui, per nave, su un camion di legname, pigiati su un treno merci puzzolente e zeppo di ratti d’ogni estrazione sociale - anche gente nobile in esilio o pantegane enormi in cerca di fortuna o sfuggite a qualche guerra senza morti da maciullare - una volta arrivati qui in occidente dicevo, lì per lì ci sembra il paradiso: cibo in abbondanza, buttato in ogni dove, clima mite, pochi gatti randagi e quasi nessuna trappola, insomma un buon posto per gente rozza come siamo.
E poi avvengono dei fatti che ad uno come me, con una sua sensibilità, fanno pensare.
E come una primavera nella taiga, vien voglia di tornare indietro, perché il richiamo della propria terra non si cancella, né si può far finta di non sentirlo.
Il cassonetto 47 è piazzato davanti ad un balcone al piano ammezzato di un palazzo altissimo, sette o otto piani. Dal cassonetto al balcone ci saranno due o tre metri di distanza.
Su quello stretto balcone, due metri per uno, c’è spesso un uomo, seduto su una seggiola scassata, che fuma o beve birra. O tutte e due le cose.
E’ un uomo magro, spelacchiato, uno di quelli con la pelle secca e grigia e le gambette magre, che non corrono da quando erano trent’anni più giovani.
Non capisco come possa resistere certe sere d’estate così vicino al cassonetto 47, perché i miasmi e l’odore di marcio che si diffonde intorno e si spande per tutta la via, fa schifo pure a noi.
Ho dimenticato di dirvi che proprio di fronte al palazzo dell’uomo grigio ci sta un identico palazzo, alto pure quello setto o otto piani, sicché la strada è un taglio profondo e zaffato, ostruita perdipiù da un lato, da una curva secca, ad angolo retto, mentre dall’altro vi è lo sbocco su una specie di tangenziale, col traffico incessante e rumoroso: ci sono volte che il rumore è perfino più fastidioso della puzza, sarà per il vento che lo trascina su e davvero non capisco come faccia l’uomo grigio a starsene a fumare e bere birra, seduto sulla sedia scassata, prigioniero in quello striminzito balcone.
Fatti suoi.
E sono certo, certissimo, che molte volte ci vede arrivare, attraverso la ringhiera del balconcino, prima Dimitri che è il più grosso, poi Alesa che è il più buono, poi Smerdino ed infine io, a chiudere la fila, che sono il più sveglio e so guardarmi alle spalle.
Ci segue per un po’, con certi occhi giallognoli, spenti e lontani; pare veda altro e non un cassonetto, quattro ratti, una stretta via fra due palazzi di cemento scrostato; è come se non ci guardasse davvero.
Chissà dov’è la sua anima e dov’era ieri sera, quando appunto è successo questo fatto.
Noi ci si stava avvicinando.
Saremo stati a due, tre metri, ficcati in un tombino per intenderci.
Arriva in quel momento un barbone, uno di quelli che dormono sotto i cartoni per strada e puzzano di notti dormite male. Per fortuna uno di quelli senza il cane, che una volta Alesa è stato quasi sbranato e se non era per Dimitri che morsicava la coda a quella bestia senza fissa cuccia, non so se saremmo ancora in quattro.
Ecco. Il barbone si avvicina al cassonetto 47 e nel contempo vede l’uomo grigio sul balconcino e lo saluta, come se si conoscessero, come se si fossero già incontrati.
Io dico a Dimitri di star buono, di aspettare e dalle fessure del tombino - che gli inglesi chiamano slot e servono anche per mettere i soldi nelle macchine che se li mangiano, ma questo non c’entra niente con la storia che vi sto raccontando, è una cosa che so, che mi hanno raccontato una volta - dicevo, dal tombino noi vediamo che il barbone solleva il coperchio del cassonetto 47 e comincia a rasparci dentro.
L’uomo grigio non ha risposto al saluto e nemmeno si lamenta della puzza che fuoriesce come una fucilata e arriva fino a noi.
Una puzza strana, sapor sangue e carne rancida.
Ecco che il barbone emette un gridolino, una specie di “Uao!” festoso e cava fuori un sacco nero e lo posa sull’asfalto.
Sono le otto, la strada spurga onde di calore, impregnata di lordura: non c’è un filo d’aria.
Il barbone è scuro di pelle, ha lunghi capelli grigi che gli cadono sulle spalle chiazzate di unto. Porta dei pantaloni di tela logora, strappati qua e là: ha occhi vispi, scuri, si guarda intorno come un uccellino.
Quel che tira fuori dal sacco nero è inequivocabilmente una gamba, tutt’intera o quasi.
Diciamo dalla coscia in giù.
Una gamba umana intendo, non una coscia di pollo.
Ora, dovete sapere che tra noi ratti dell’est c’è anche l’abitudine di mangiarci l’un l’altro, specie d’inverno, quando la fame è tanta e il cervello non razionalizza più, non vede la possibilità di sopravvivere e l’istinto prevale su ogni cosa, su ogni remora, su ogni misura.
Non nego che lasciato libero, forse Dimitri, di sicuro quel demente di Smerdino, potrebbero anche arrivare a mangiarsi un buon topino campagnolo, stecchito chissà perché e per come, ma fino a quando il capo famiglia sono io, questo non avverrà mai.
Diciamo che è una mia fissa e che da quel che so, viene praticata anche dagli umani, con rare eccezioni.
Ciò detto mi aspetto che il barbone riponga con orrore quella gamba - senza peli, dunque di femmina immagino - e scappi via a gambe levate a cercare un vigile, la polizia o l’ambulanza o che l’uomo grigio sul balconcino faccia un gran salto sulla sedia gridando:
-Quella è la gamba di una donna! Cosa caspita stai facendo? Posala!
Invece nulla di tutto ciò.
Il barbone emette un risolino enigmatico e per un attimo, solo per un istante, incrocia lo sguardo dell’uomo che fuma e che lo sta osservando.
Non ci vede alcun rimprovero, nessuna deplorazione, come se l’uomo grigio avesse visto la gamba di un manichino, uno di quelli delle vetrine, magari buttato nel cassonetto 47 perché logoro o vittima della muffa o della moda che cambia.
E allora il barbone impacchetta ben bene la gamba, sì, il barbone la sigilla per bene nel sacco nero, sbrodolando qualche goccia di sangue sull’asfalto bollente, rinchiude il cassonetto e si incammina in direzione della grande strada trafficata, guardando per un ultima volta l’uomo grigio.
Borbotta:
-La gente butta via proprio di tutto, perfino carne fresca.
Lo sguardo dell’uomo grigio sul balconcino segue apatico gli sbuffi del fumo della sigaretta; non pare sentire; non un muscolo del suo corpo si contrae in qualcosa di somigliante alla sorpresa o al ribrezzo o alla consapevolezza.
Il barbone cammina, diviene piccolo all’orizzonte, un puntino sghembo contro il sole calante.
Scompare, com’era apparso, in un attimo, con la gamba sottobraccio, come fosse una baguette.
Passato qualche minuto, Dimitri si volta verso di me:
-Andiamo?
Ho deciso in quell’esatto momento che è ora di cambiare cassonetto.
-No. Torniamo nella tana. Stasera mi è passata la fame –
-Gli umani sono strani – la voce alle mie spalle è quella di Alesa.
-Gli umani si stanno trasformando in qualcos’altro – aggiungo io.
Dimenticavo.
Il mio nome è Ivan.

Motivazione: Un piglio narrativo notevole, le miserie umane al vaglio attento di osservatori inusuali, ma saggi. Così che le miserie umane assumono contorni grotteschi

Segnalazioni di merito narrativa
“La musica di primavera” Marco Castaldi - Asti


Poesia in lingua piemontese Giudizi di Michele Bonavero
4 pari merito
“Sota ël nos” Luigi Ceresa di Novara
“vin neuv” Daniele Ponsero di Torino
“Le masche dël Berto” Massimo Allario di Asti
“jarbi” Luciano Milanese di Poirino (To)
“italia e italiöch” Maria Luisa Cantone di Trecate (No)
“Ritrat ad mia magna” Anna Maria Molino di Piovà Massaia(At)


3° class. Ex - «Rivand a Tabarka» di Emanuele Ferraris da Genova

Rivand a Tabarka*

Tabarka, quànd i’oma rivà cola neucc
sa stranzivo fòrt, òm, dòni, vècc, masnà
mangiavo breu ‘d fàr càud, in mès a la freucc
da tranta du ,‘nt in mar faraginà.

‘L masnà a i saltavo cmè dij galtìn
‘l cubij a s’basavo profondament
e noi ch’ i t uardavo dès tanto davzin
pansavo al pasà ma sevo content.

Da Pej** ioma partu ‘na matin d’istà
Portand-ni près ‘l nòs mortè ‘d preia
par pistè i sagrìn che denta col cà
i avo da vivi, cmè quand ‘ns ‘na leia

a t’veughi cori ‘l masnà, ch’ai san nenta
che la vita l’è dosa ma ‘ncà mera,
ma lor a i coro, rivand fia denta
‘l rès dil tò cheur, con giòia sincera.

Tabarka, quànd i oma rivà cola neucc
Genova l’eva lontana, noi da pu
I savo che ‘nt ‘l nòs cheur cola freucc
l’avrìa pasani si sevo con tu.

*Tabarka l’eva ‘n isola ‘d colòni genovès tra ‘l 1500 e ‘l 1700.
** Pej (Pegli) rion ‘d Genova da ‘ntè i an partu i colòni.


Titolo: arrivando a Tabarka*

Tabarka, quando siamo arrivati quella notte
ci stringevamo forte, uomini, donne, anziani e bambini
mangiavamo brodo di farro caldo in mezzo al freddo
da trenta giorni in un mare burrascoso.

I bambini saltavano come galletti
le coppie si baciavano profondamente
e noi che ti guardavamo adesso così tanto da vicino
pensavamo al passato ma eravamo contenti.

Siamo partiti da Pegli** una mattina d’estate
portando con noi il nostro mortaio di pietra
per pestare i malesseri che in quelle case
avremmo dovuto vivere, come quando in un viale

vedi i bambini che corrono, che non sanno
che la vita è dolce ma anche amara
ma loro corrono lo stesso, arrivando
fin dentro le radici del tuo cuore con gioia sincera.

Tabarka, quando siamo arrivati quella notte
Genova era lontana ma noi di più
Sapevamo che quel freddo nel nostro cuore
sarebbe passato, se eravamo con te.

*Tabarka era un’isola di coloni genovesi fra il 1500 e il 1700.
** Pegli, rione di Genova da dove sono partiti i coloni.


Motivazione: “Un viaggio attraverso il mare con una destinazione remota, la Tunisia, portandosi appresso tutte le paure, le speranze e i sentimenti che accomunano chi naviga non per professione. Esperienza che si ripete nel tempo replicando situazioni anche se spesso cambia la direzione del viaggio, la meta e il destino. Che siano vele o motori a guidare l’imbarcazione, sempre è l’umanità di chi viaggia a fare la differenza.”
Una poesia in quartine con rima alternata con una grafia sui generis e non canonica, di non immediata lettura.”

3° class Ex- «Incő i podi?» di Fabrizio Squazzini da Novara


INCÖ I PODI?

Incö i podi andà cà dla nona?
Quanti volti i l’ho fai sta dumanda,
quanti fiulin i la fan ancura.

Cà dla nona al paes di giögh,
bumbuniera cargà da carèssi,
dentar lì, un mund sensa pagüra.

Un mund tüt a-special cà dla nona,
un mund imburì da felicità,
un mund ‘ndua tüt l’è puesia.

Tirèt pien da robi misteriusi
bèli prunt par divéntà di giögh,
chi nassan cusì;cun fantasia.

Al tich-tach dla sveglia sül cumò
mǜsica dulsa d’un carillon,
mǜsica ch’at fà indurmentà.

Dl’armuar al prufüm dla lavanda,
dla cüsina al prufüm di biscot,
a cà dla nona tütt l’è prüfumà.

L’è ’me viv int un castèl ad bumbas,
na caramèla par mia fàt piangg,
rid, vidé ’l nonu ch’al fà ’l pajasc.

A cà dla nona ti trovi i giögh
ch’i hin fai divertì i to vegg,
anca s’i éran fai dumà da strasc.

Ti crèssi, ti diventi un òman,
cà dla nona l’è urmai un ricord,
dumà al ricord d’una gran dona.

E adèss ch’i són vegg,una dumanda,
’ncura vüna am piasarìa fà...
Incö i podi andà cà dla nona?


OGGI POSSO?

Oggi posso andare dalla nonna?
Quante volte ho fatto questa domanda,
quanti bambini la fanno ancora.

Casa della nonna il paese dei balocchi,
bomboniera zeppa di carezze,
dentro li un mondo senza paura.

Un mondo tutto speciale casa della nonna,
un mondo stracolmo di felicità.
Un mondo dove tutto è poesia.

Cassetti pieni di cose misteriose
subito pronti a diventare dei giochi,
che nascono così,con fantasia.

Il tic-tac della sveglia sul comò
musica dolce di un carillon,
musica che ti fa addormentare.

Dall’armadio profumo di lavanda,
dalla cucina profumo di biscotti,
a casa della nonna tutto è profumato.

È come vivere in un castello di cotone,
una caramella per non farti piangere,
ridere, vedere il nonno che fa il pagliaccio.

A casa della nonna trovi i giochi
che hanno fatto divertire i tuoi genitori,
anche s’eran fatti solo di stracci.

Cresci,diventi un uomo,
casa della nonna è ormai un ricordo,
solo il ricordo di una gran donna.

Adesso che sono vecchio una domanda,
ancora una mi piacerebbe fare...
Oggi posso andare a casa della nonna?

Motivazione: “In questa poesia si ripropone una domanda che molti hanno formulato: «Posso andare a casa di nonna?». Una richiesta che nascondeva l’autorizzazione non solo ad andare a trovare la nonna, ma soprattutto di entrare in un mondo fatto di ricordi, di cose belle, di momenti, di sapori, di sfumature e di gioie. Peccato che questa domandi ci venga da porla anche quando abbiamo i capelli grigi e i nonni non ci sono più, allora la nostra richiesta è quella di rivivere un attimo di gioventù.”
2° Class. «La galerìa» di Luigi Vaira da Sommariva del Bosco (Cn)

La galerìa

Na longa galerìa ʼd pera
a l’autëssa dël prim pian
a cor, tut arlongh a l’era
ëd l’ospissi dj’òm ansian.

Lì, ant un canton, na nòna
a va a pijé soa ora d’aria
e a la statua dla Madona
cola fomna stanca e màira,

s-ciairandla dré dai tij,
a-j manda na preghiera,
meusia, squasi un bësbij:
«Maria Santa fà ʼn manera

che ij mè cit a l’abio mai
nì la frèid e nì la fam;
fà ch’a-j manca paʼl travaj.
Mi i lo seu, ch’a son nen gram,

ma con tuti ij sò sagrin...
Ti ʼd sicur it im capissi
se i fas finta dé stè bin
sì da sola an cost ospissi».

Minca dì l’istessa stòria
an col canton ëd la galerìa
dòp un Pàter Ave Glòria
nòna as signa... e as na va via.

Traduzione

Un lungo balcone di pietra / all’altezza del primo piano /
corre lungo il cortile / dell’ ospizio degli anziani.

Lì, in un angolo, una nonna / va aprendera la sua ora d’aria
e alla statua della Madonna / quella signora stanca e magra

scorgendola dietro ai tigli / manda una preghiera
piano, quasi un sussurro / «Maria santa fa in maniera

che i miei figli non abbiano mai / ne freddo ne fame
fa che non gli manchi il lavoro / io lo so che non sono cattivi,

ma con tutte le loro preocupazioni... / Tu di certo mi capisci
se faccio finta di star bene / quì da sola in quest’ospizio».

Ogni giorno é la stessa storia / in quell’angolo del balcone
dopo un Pàter Ave Glòria / nonna fa il segno di croce... e se ne va.

Motivazione: “Una bella poesia che ci fa riflettere sui nostri egoismi. I nostri vecchi non si dimenticano mai di noi, nemmeno quando li releghiamo alla solitudine ammorbidita di un ospizio. E non smettono mai di pregare per noi, anche se li abbiamo costretti a quella condizione. Giustificano questo nostro comportamento, lo travestono di pensieri compassionevoli per cercare di dimenticare le loro amarezze. Forse è una manifestazione di saggezza o di sviscerato amore quella che annebbia le loro tristezze e li concentra sulle nostre realtà. Un anticipo di santità?”
Ottima la scrittura e la forma.

1° Class. ex- «'Pena fò d'in ca» di Livio Rossetti da Novara
’PENA FÒ D’IN CÀ


Agh è dij pubji ’pena fò d’in cà,
dë fianch dë sto stradin dë tèra crea.
I pàrlan cont ël vent movend ij fòji,
i ricognossi ij vos… almen më smea.

Im fèrmi, insì ’mbabià vèrs ël tramont,
im lassi brascià sù dla nostalgìa
e gnanca col gran feugh dël sól ch’al mòra
më scascia via sta gran malinconìa.

L’è ’nsì ch’i sari j’eucc për guardà ben,
figuri ch’i hin sarà déntar dë mi
’mè dij fotografii in bianch e négar
d’on temp che i sôn pu bôn cuntagh ij di.

Dij vòlti, peu, l’è ’ssè nusmà ’n profum
për disvigià ij ricòrd dël temp quarcià.
’Mè cuj giornai dë nèbia pròpi spèssa
ch’im làssan dimparmì su cola stra.

E ’m végnan për la ment paròli neuvi
e ròbi da cuntat ca ti sè mia.
Paròli ch’i së stròssan int la gola,
quand im ricòrdi che… ti sè ’ndai via.

APPENA FUORI DI CASA

Ci sono dei pioppi appena fuori di casa
di fianco a questo stradino di argilla.
Parlano con il vento muovendo le foglie
riconosco le voci… almeno mi sembra.

Mi fermo, cosi imbambolato verso il tramonto,
mi lascio abbracciare dalla nostalgia
e neanche quel gran fuoco del sole che muore
mi allontana questa grande malinconia.

E’ così che chiudo gli occhi per guardare bene,
figure che son chiuse qui dentro me
come delle fotografie in bianco e nero
di un tempo di cui non riesco più a contare i giorni.

Alle volte, poi, è sufficiente annusare un profumo
per risvegliare i ricordi coperti dal tempo.
Come quelle giornate di nebbia proprio spessa
che mi lasciano da solo su quella strada.

E mi vengono per la mente parole nuove
e cose da raccontarti che non sai.
Parole che si strozzano nella gola,
quando mi ricordo che… sei andata via.

Motivazione: “La memoria spesso ci lavora dall’interno e ci porta su strade selciate con momenti del passato, belli o spiacevoli, e ti ritrovi ad attendere l’istante successivo nel quale ti accorgi di aver lasciato da parte qualcosa.
Una poesia toccante, che trasuda malinconia in ogni verso e ci conduce alla conclusione rivelatoria e angosciante. Gli endecasillabi danno un ritmo musicale alle parole, che dolcemente si trasformano in immagini delicate, tenere, riposanti, legate fra loro con grazia come in un film.”

Narrativa in lingua piemontese
4 Class. “Cand a s’ andasìa ‘n colònia” Luciano Milanese - Poirino (To)
4 Class. “La cuntola dël piviôn” Luigi Ceresa - Novara

3° classificato - «Ël sògn d’on biseu» Livio Rossetti - Novara
ËL SÒGN D’ON BISEU

La primavera, ancora ona vòlta pontuala, l’eva rivà con tut ël sò incant dë color e profum.
Anca ël sól l’eva tirà sù la sciuca dòpo cola longa dormida invernal e dòpo tuta la fadiga fai a fà slenguà ’l giasc, finalment al podeva pensà a scaldà për dabôn ël mond.
A sarà stai për col cald neuv che, ona matina on pò sul tardi, dòpo che anca cola nebietina legera l’eva volà via, da déntar on euv tacà sù int l’aria sota na fòja ’d rola a s’ha doverdù on eucc.
Si, vun sol për comincià, anca parchè ël padrôn dë cà dë fifa agh n’aveva pròpi tanta.
J’àltar du inquilin tacà sù lì dë fianch su la fòja i dormévan dë brut, o almeno insì a ghë smejava, e insì a s’ha fai coragg a guardà col mond neuv che ’l sarissa diventà ël teàtar ëd la sò vita.
Ël panorama l’eva da cuntola da tanto ch’l’eva bèl, da restà lì ’mbabià.
Pra verd e rivôn tut pien dë fior i fasévan da contorno a ’n fòss d’aqua ciara ch’al passava pròpi sota cà dë fianch d’on stradin e a smejava ciciarà intant che a s’arvisolava passand intramès dij sass.
Tuti sti ròbi al podeva madomà dociaj da là inscima, vist ch’l’eva int l’euv ma, dòpo on para dë di, ij ròbi i hin comincià a cambià.
Për dì la verità, l’eva lu ch’al cambiava diventand sémpar pussè gròss, tanto che l’euv ormai l’eva pròpi, ma pròpi strencc e déntar a ghë stava pu… e alora l’è gnù fòra.
L’era dimparlù parchè ij visin dë fòja i éran andai chissà indova, ma in fond a ’ndava ben insì vist che i s’hévan mai gnanca parlà o presentà.
L’è dài on’ugiada in gir e peu a s’ha guardà ’dòss e …si, l’eva pròpi on biseu, on biseu bèl grand colorà dë verd e con dij strii gialdi e rossi… e cont ona sgajosa ancora pussè granda.
L’è insì ch’l’è tacà a mangià la fòja dë rola indova l’eva tacà sù, ma l’eva vègia e anca on pò mara e alora a s’ha spostà dasiòt su ’n but neuv.
Sti fòji neuvi i évan pròpi boni e tanti àltar ch’i stàvan lì dë cà o anca intorno is trovàvan tuti insèma a boconà.
’Gh évan dij galini dël Signor cont ij sò bèj pontin négar ben sparpajà su col mantèl ross ’mè ’l feugh, ij magiolin marôn, garavolasci verdi e peu saltamartin, ragn e moschin nojos, insoma ona gran quantità dë mangia-fòji.
Tuti sti inquilin dla rola oltrapù dë pacià i ciciaràvan dë brut lodand ognun ij sò, disoma insì, qualità.
«Mi i salti pussè int l’aria dij papàvar!» al diseva ël saltamartin «E mi inveci i fò cor d’on ram a n’àltar on fil e igh fò sù na cà!» as la blagava ’l ragn.
«Sti ròbi-chì i hin gnenta, – la salta sù a dì la galina dël Signor – pensì che mi i pòrti anca fortuna!» Insoma, ognun as lodava për col che l’eva bôn dë vess o dë fà e ’l biseu l’eva sémpar pussè genà davanti dë tut ësto mostrass grandios e a stava cito cito.
Agh è mia passà tanto temp da quand i l’avévan docià che, a s’ha mia savù chi l’eva stai, se on baban o on vèrman ross, igh han ciamà cos l’eva bôn dë fà lu.
Ël biseu a s’ha fèrmà lì on pò pensieros e peu, ciapà ’l coragg a dò man, l’è dì: « Mi i volarò!»
Për on moment tuti sti mangia-fòji i hin ëstai cito ma peu i s’han mitù a rid fin a spansciass.
Si, tuti i hin ridù, tuti meno che ij farfali che pogià suj fior lì intorno i évan sentù sta ciciarada. L’eva content ël biseu che mia pròpi tuti i évan ridù ëd la sò rispòsta e insì l’è ’ndai avanti a boconà dij fòji, ma on quaicos dë neuv a la preocupava e l’eva la sò pèl ch’la diventava sémpar pussè dura e as sarava intorno.
I hin passà insì ij giornai con lu sémpar tacà sù e indormentà fintant che, apena disvigià, a s’ha tirà la pèl e costa a s’ha s-ciapà così da podé gnì fòra da sta parzôn.
Dasiòt e con fadiga a s’ha liberà dë sta corassa e intant che ij mangia-fòji dë sota i éran restà a boca vèrta, l’è doverdù j’ali neuvi për faj sugà.
Ali d’ona belèssa mai vista in col cantonin dël boschèt e s’ha sentù madomà on «Òòòòh!» dë meraviglia.
Madomà ij farfali i s’han mia meraviglià, lor savévan e tuti i hin sbatù j’ali int on bataman quand ël vegg biseu, realisà ’l sò sògn e finalment farfala, l’è ciapà ’l vol vèrs l’està ëd la sò vita.

IL SOGNO DI UN BRUCO

La primavera, ancora una volta puntuale, era arrivata con tutto il suo incanto di colori e profumi.
Anche il sole aveva sollevato la testa dopo quella lunga dormita invernale e dopo tutta la fatica fatta a sciogliere il ghiaccio, finalmente poteva pensare a scaldare davvero il mondo.
Sarà stato per quel caldo nuovo che, una mattina un pò sul tardi, dopo che anche quella nebbiolina leggera era volata via, dentro un uovo appeso in alto sotto una foglia di rovere si è aperto un occhio.
Sì, uno solo per cominciare, anche perche il padrone di casa di paura ne aveva proprio tanta.
Gli altri due inquilini appesi lì di fianco sulla foglia dormivano di brutto, o almeno così gli sembrava, e così si è fatto coraggio a guardare quel mondo nuovo che sarebbe diventato il teatro della sua vita.
Il panorama era da favola tanto era bello, da rimanere incantati.
Prati verdi e ripe scoscese tutte piene di fiori facevano da contorno ad un fosso di acqua chiara che passava proprio sotto casa di fianco ad uno stradino e sembrava chiacchierare mentre si contorceva passando tra i sassi.
Tutto questo lo poteva solamente adocchiare da la sopra, visto che era nell’uovo ma, dopo un paio di giorni, le cose hanno iniziato a cambiare.
A dire il vero, era lui che cambiava diventando sempre più grosso, tanto che l’uovo era ormai proprio, ma proprio stretto e dentro non ci stava più…e allora è uscito.
Era solo perché i vicini di foglia erano andati chissà dove, ma in fondo andava bene così visto che non si erano mai parlati o presentati.
Ha dato un’occhiata in giro e poi si è guardato e… sì, era proprio un bruco, un bruco bello grande colorato di verde e con delle strisce gialle e rosse… e con un appetito ancora più grande.
È così che ha iniziato a mangiare la foglia di rovere sulla quale era appeso, ma era vecchia e anche un po’ amara ed allora si è spostato piano su di un germoglio nuovo.
Queste foglie nuove erano proprio buone e tanti altri che abitavano li o anche nei paraggi si trovavano tutti insieme a banchettare.
C’erano delle coccinelle con i loro bei puntini neri ben sparpagliati su quel mantello rosso come il fuoco, i maggiolini marroni, coleotteri verdi e poi cavallette, ragni e moscerini noiosi, insomma una gran quantità di mangia-foglie.
Tutti questi inquilini del rovere oltre che mangiare chiacchieravano di brutto lodando ognuno le sue, diciamo così, qualità.
«Io salto più in alto di un papavero!» diceva la cavalletta, «Ed io invece faccio correre da un ramo ad un altro un filo e ci costruisco una casa!» si vantava il ragno.
«Questo è niente, – sentenzia la coccinella – pensate che io porto anche fortuna!»
Insomma, ognuno si lodava per quello che era capace di essere o di fare e il bruco era sempre più intimidito davanti a tutto questo mostrarsi e se ne stava zitto.
Non era passato molto tempo da quando l’avevano adocchiato che, non si è saputo chi era stato, se uno scarafaggio o un verme rosso, gli hanno chiesto che cosa fosse capace di fare lui.
Il bruco si è fermato un poco pensieroso e poi, preso il coraggio a due mani, ha detto: «Io volerò!»
Per un momento tutti questi mangia-foglie sono stati zitti ma poi si sono messi a ridere sino a spanciarsi.
Sì, tutti hanno riso, tutti tranne le farfalle che posate sui fiori li intorno avevano sentito la chiacchierata.
Era contento il bruco che non proprio tutti avevano riso alla sua risposta e così ha proseguito a mangiucchiare le foglie, ma qualche cosa di nuovo lo preoccupava ed era la sua pelle che diventava sempre più dura gli si chiudeva intorno.
Sono passati così i giorni con lui appeso ed addormentato fintanto che, appena sveglio, si è stiracchiato e la pelle si è rotta così da poter uscire da quella prigione.
Pianino e con fatica si è liberato di quella corazza e mentre i mangia-foglie di sotto erano rimasti a bocca aperta, ha aperto le ali nuove per farle asciugare.
Ali di una bellezza mai vista in quell’angolino di boschetto e si è sentito solo un «Ooooh!» di meraviglia.
Soltanto le farfalle non si sono meravigliate, loro sapevano e tutte hanno battuto le ali in un applauso quando il vecchio bruco, realizzato il suo sogno e finalmente farfalla, ha preso il volo verso l’estate della sua vita.
Motivazione: Una sorta di favola che poi favola non è, ma una descrizione precisa di un fenomeno naturale che si ripete a ogni stagione. La vita che si ripresenta puntuale con i suoi cicli e le sue trasformazioni offrono il pretesto per una morale: non sempre l’aspetto e la prima impressione sono quelli più esatti nel formulare un giudizio. Buona scrittura e piacevole lettura.
2° classificato «La ceresera e soe scale» Attilio Rossi - Carmagnola (To)
LA CERESERA E SOE...SCALE

A feje coron-a a cola cita, ma bela, casòta, piassà pen-a fòra dla prima bordura dël cheur ëd la sità, as podìa vëdde ‘n bela mòstra: sùbit dëdnans ëd le bele màndole pien-e ‘d minca rassa ‘d fior, butà dacant a n’òrt an pien solì con minca varietà ‘d vërdure, e fin-a ‘n bel piantament ëd fruta, pa tròp gròss, ma con squasi tute le qualità ch’a peulo vnite ‘n ment e ch’as costuma coltivé, andrinta ij nòstri leu. Pròpi al fond, arlongh al fossal, un pòchi d’ani prima, a l’avìo ‘dcò piantà na cita ceresera. Adess cola pianta a l’era fasse pròpi gròssa e fòrta, con un bion robust ch’it tribulavi giumai a ‘mbrasselo, e con ij sò tanti branch, ëdcò lor bin sostnù, ch’a vardavo ‘l cel, ch’a smijava lontan, ma ch’a l’avìo tanta fiusa d’avzinelo prèst!
La ca, a doi pian, a-j dasìa ‘d sosta a doe famije dl’istessa sëppa: al pian sota ij doi grand, che parèj a l’avìo pa da fé tròpe vòlte lë scale; al pian ëdzora ‘l fieul con soe doe masnà, ël masciòt e la citin-a, ch’a j’ero ‘ncora pròpi cite, ma che arlongh al dì as sentìo mai sole, përchè ‘ndrinta a cola cort a j’era sempe queidun ch’a girolava! La vita ‘n cola ca a l’era pien-a dël vorèisse bin ëd la gent ch’a stasìa lì, përchè për lor a l’era la còsa pì pressiosa ch’a podìa ess-je al mond: gnente e gnun a l’avrìa podù pensé ‘d distrùe la bela usansa! Motobin soens drinta a cola ca as respirava n’aria ‘d festa, combin ch’a fussa mach un di ‘d travaj, e ‘n cola cort a smijava ch’a fussa sempre pien ël poss ëd l’alegrìa e sòn përchè tuti coj ch’a vivìo lì a j’ero coma na famija sola. Sòn a podìa vëdd-se pì bin fin-a ‘nt le ore dël mangé: squasi tuti ij fin ësman-a lor a fasìo disné e sin-a tuti ‘nsema. Ma sòn a capitava ‘dcò për tute le feste gròsse ‘d solisman-a, tant për cole religiose coma për cole memoràbij coma ch’a peulo esse le pì ‘mportante feste nassionaj ò cole dle tante ricorense ‘d famija: sòn përchè dzora a cola ca ‘l cel a-i era sempre macià d’un color seren e mai sombr, gnanca quand che, minca tant, col gròss tapiss butà dzora a le nòstre teste a l’era tut ëscur e fòra a diluviava! Col-lì a l’era pròpi l’ambient ideal andova cole masnà a podìo chërse seren-e e con ël pì bel dij soris ans ij làver, përchè d’antorn a lor, a-i era squasi come ‘n bel anvertoj carià d’anciarm, e mës-cià a tuta l’aria dossa ch’a spassëgiava con deuit ant la cort, as podìa sente tut ël gròss amor ëd na famija ch’as vorìa pròpi bin! Ma ‘l pòst pì piasos e confortévol ch’a j’era lì, për le longhe ciaciarade e për tute le conte che ‘l nònu a-j fasìa a soe masnajòte, a j’era, squasi sempe, a l’ombra ‘d cola ceresera che, ant la bela stagion, con soa bondosa caviera ‘d feuje, ma ‘cò ‘d cerese, che con soa protession a parapieuva at lassava gòde tuta soa frëscura ‘nciarmanta: ma si’t fasìji pròpi atension, ant ij moment ëd silensi, a të smijava fin-a che col pòst a-j ciamèissa! Ma dòp a j’ero cò cole gròsse cerese përfumà e madure ch’a smijavo ch’a disèisso, e sòn con tut ël cheur an man, compagnà da soa vos amploranta e përsuasiva: mangg-me pura, che mi i son sicura che dòp t’im dirass ch’i-i sòn pròpi bon-a! Col-lì a l’era ‘l pòst andova, ant ij mèis ëd la prima ò dl’istà, chiel a-j contava con gòj tute le stòrie e le fàule ch’a l’avìa sentù da cit e cole che, da ‘n pò pì grand, a l’avìa trovà, e peui amparà, cole ch’a l’avìo piasuje ‘d pì, lesend-je ‘ns ij lìber.
Tacà a cola grossa pianta a-i era squasi sempe pontajà la scala pì longa, da podèj rivé ‘ns la ponta e, da l’àutra part, në scalòt tant pì curt ch’a bastava pròpi mach për cheuje le cerese dle rame pì basse! La novodin-a pì cita pòch a la vòlta a l’avìa pijàit confidensa con ël pòst e con cola bela pianta: minca tant a ‘ndasìa a trovela da sola e, da sota, a la contemplava curiosa sërcand ëd vëdd-je bin la ponta!
Na matin, ël nònu a l’era ‘ndàit a vardé la ceresera e l’avìa vist-la pròpi carìa ‘d cerese già madure, e a l’avìa ciamaje a soa novodin-a se a l’avìa veuja d’andelo a giuté a cheuj-je. A chiel a-j bastava ch’a pijèissa cole ch’a calavo për tèra ò cole ch’a jë scapavo da ‘n man, përchè andasend giù e batend për tèra e fiacand-se, a sarìo pì nen goernasse e për lòn a tocava mangeje sùbit prima ch’andèisso a mal. E parèj tute cole lì ch’a ‘ndasìo giù, a sarìo stàite sùbit soe! As deuv ëdcò dì che sota a cola pianta a j’era, për boneur, un bel tapiss d’erbëtta frësca e cole cerese, rubatand giù a sarìo pròpi nen fasse tròp mal e peui a venta ‘dcò dì, che cola lì, a l’era pròpi mach na bela e simpàtica scusa për feje cheuje le cerese e regalej-je!
Chila a l’era tòst andàita ‘nt ëca a pijé sò bel cavagnin: dòp a l’avìa butasse ‘l pàira dë scarpe pì brut ch’a dovrava, për nen ruviné cole pì bele e, dòp a na cita corsa, a l’era rivà sota a la gròssa pianta e, coma për na cita sirimònia, a j’era crociolasse bianess, sota a cola longa scala già bin pontajà contra a la ceresera; peui a l’avrìa spetà, con tanta fiusa, che sò nònu a fèissa pròpi ‘n pressa a rivé ‘n sël pòst!
Dòp sinch minute pare grand a j’era riva sota a cola pianta con soa cavagna pì gròssa e con ël crochèt dobi, parèj da taché la cavagna a cola longa scala ‘d bosch a spërson, da podèj cheuje tante cerese, sensa calé giù tròpe vòlte. Chiel a l’avìa montà su lest, sùbit nen tròp àut, për pijé prima cole ‘n pòch pì basse e pa dovèj supaté ij branch pì àut e nen fé rubaté për tèra gnun-e dle tante cerese madure, ma disend-je ‘dcò a soa novodin-a ‘d comensé a cheuje cole dij branch pì bass, coj-lì che a tocavo squasi për tèra; parèj chila a l’avrìa ‘dcò podùje dëstaché sensa trubulé tròp e, a l’istess temp, vempe ‘mpressa sò bel cavagnin!
Tute le vòlte che cola gròssa cavagna dël man-i dël nònu a l’era stàita vempùa con la...cormolura, chiel a calava torna giù ai pé dla scala, dësveuidand-la ‘ndrinta a na gròssa sësta; peui a montava torna su për fene n’àutra cavagnà!
Ël nònu, dòp avèj pijàit tute le cerese pì madure a l’avìa sentù la cita ciameje d’andé ‘dcò su na vòlta chila për apressié tut lë spetàcol ch’as vëddìa da ‘nsima. Chiel a j’era tant sagrinà për ël perìcol ch’a l’avrìa podù core, ma a vorìa pa dije ‘d nò e, fasend pròpi bin atension, a l’avìa cò fala monte con chiel, ma tnisend-la sempre bin ës-ciassa davzin. Parèj montand, pian pianòt, spërson për ëspërson, pijand-se tut ël temp ch’a-j servìa për core gnun perìcol, a j’ero rivà, montand adasiòt fin-a ‘ns la sima! La cita, motobin sodisfàita ‘d cola vista maravijosa, a j’era fërmasse a vardé atenta, con ël nas an sù, àut ant ël cel, e peui sota, ai pé dla pianta, e a l’avìa ‘dcò ciamaje se a-i era nen na scala ‘ncora pì longa për vardé, coma a vòl d’osel, tut da tant pì dzora. Chiel, pijàit un pòch a la sprovista për cola domanda, a l’avìa rësponduje che fòrse na scala motobin pì longa a-i era, ma ch’a j’era mach cola ch’a portava pròpi sù drit ant ël cel! Ma dòp a l’avìa arcordaje che cola scala, longa longa, con ij sò bej ëspërson, bërlusent a l’avìo peui piturala d’un color particolar e parèj pa visìbila ai viv e, për lòn, lor a l’avrìo pa podula vëdde! La novodin-a a j’era calà giù da cola scala bin pensierosa, ma con j’euj e ‘l cheur pien êd col anciarm, ma peui, se bin a l’avèissa tante curiosità ‘n testa, an sël moment, a l’avìa pa pì fàit gnun-e domande. Ma cola rispòsta a j’era restaje bin ëstampà ‘nt la ment, ma combin për chila, ëdcò pa tròp ciàira: sòn a vorìa mach dì che, magara n’àutra vòlta ch’a fusso trovasse ‘nt ël discors, chila a sarìa tornà a feje dj’àutre domande për ciameje na pì ciàira spiegassion, an manera da podèj capì, pì bin, tut ël concet! Mach doe sman-e dòp a l’era rivaje ‘l moment che chila a spetava, përchè la ceresera a l’avìa fin-a fàit tante cerese ‘d meno; pròpi për lòn a sarìa ‘ndaje ‘n pò meno ‘d temp për cheuj-je e parèj a sarìa stàine tant ëd pì për ciaciaré con nònu e ciameje tute le spiegassion ch’a l’avìa, scrite, ant la memòria! A l’avìo torna montà su ‘nsema, dzora a cola scala bastansa larga, e quand ch’a j’ero stàit an ponta a l’avìa dije dë spiegheje mej ëd cola scala ch’as podìa nen vedde! Sò pare grand alora a l’avìa pijala con passiensa e fin-a ‘dcò ‘n pòch a la larga, e peui ‘dcò contaje còsa ch’a vorìa dì cola scala che da noi as vëddìa pa: a-i era mach cola che Nosgnor a dovrava për fé ‘ndé via dal nòstr mond tute le përson-e brave, cole ch’a ‘ndasìo a pijé ‘n pòst dacant a Chiel, perchè ‘nt la vita a l’avìo fàit ëd bin e ch’a vorìa pa che col dëstach a-j fèissa trop mal! Alora a l’avrìa trovà la manera dë stermeje da la vista dla gent, quand lor a sarìo ‘ndasne via: fasend ëvnì tut ël cel tant sombr andrinta a na giornà già scura, ma prima a l’avrìa fin-a lassaje tut ël temp possìbil për saluté bin tuta soa gent, sensa che le përsone ch’a-j vorìo bin a pensèisso ò savèisso che dòp, lor a sarìo pì nen tornà! Nosgnor a l’avria tirà via cola scala sensa fesse vëdde ma, a l’istess temp, ëdcò mandaje giù ‘n gròss fass ëd lus për deje ‘n segn ëd la soa presensa e fé sté bin tranquij coj ch’a l’avìa pa ‘ncora ciamà e ch’a j’ero fërmasse ‘ncora sota ‘nt l’àutr mond, e për fé capì che coj-lì che lor a vëddìo pì nen, adess a stasìo con Chiel!
Miraco ‘n sègn a vnirà lassà da në sbalucant arcancel ch’a surtirà prepotent dòp a ‘n gròss temporal: ël gròss fass ëd lus colorà, a vnirà dovrà a stërmé la procission ëd le brave përson-e ch’a van an cel! La cita a l’avìa sentù tut col dëscors, con cola longa spiegassion, sensa tiré ‘l fia, pròpi come se a-j fussa staje contà na fàula anciarmanta, ma peui, pen-a ch’a j’ero calà giù da cola ceresera, a l’avìa sùbit ambrassa sò nònu bin ëstrèit, e tòst ciamaje se a l’avrìa dovù ‘dcò fé chiel parèj: ma sò nonù, capend sò crussi, a l’avìa ‘n pressa tranquilisala, con ël pì përsuasiv dij soris surtì ans ij làver, contand-je cò ch’a sarìa pròpi nen andàit via lassand-la ‘nt ij pastiss, e ch’a sarìa rëstà lì a giutela fin-a che chila a fussa nen ëstàita bon-a a monté ‘nsima a cola gròssa ceresera e cheuje la bondosa caria ‘d cerese da sola! Sòn a la cita a l’avìa cò daje ‘n pò d’arfial, për podèj continué a parlé con sò nònu disend-je: ”Alora mi it diso sùbit che ‘dcò quand ch’i sareu bon-a a cheuj-je tute, mi i-j ne lassereu sempre quejdun-a tacà dzora, a nòsta ceresera: parèj ti, da sì, it n’andras pa pì via e parèj i staroma ‘ncora tant temp ansema a cheuje le cerese!” Mi cola gent e cola famija a l’é ‘n pòch ëd temp ch’i la vëddo pì nen e i seu nen bin se col nònu a l’é ‘ncora viv, ma i seu, e ‘d sòn ison pròpi sicur, che soa novodin-a a l’ha sempe lassà ‘ncora ‘n pòche ‘d cerese da cheuje dzora a cola gròssa ceresera! Mi i penso ‘dcò che tute le vòlte che a ‘n nònu, ëd sicur con tant stracheur, a-j toca cambié pòst e tipo ‘d vita lassand, për maleur, cost nòst mond, a pensa sempre, e prima ‘d tut, ai sò novod, coma a soe masnà, a spera, e sòn fin-a tant ësoens, ëd lasseje sté nen tròp ant ij sagrin e ‘d carièje ‘d nen tròpi dolor!
Ma pa tuti a l’han la bela fortun-a d’avèj na gròssa ceresera da lasseje le cerese tacà, për fé torné ‘n nònu a sageje! Ma për col pare grand, a la prima ò d’istà ò a la fin d’un temporal, quand ch’a-i surtirà torna col bel sègn colorà e piasos con ij color ëd l’arcancel, a-j calerà ‘ncora na vòta giù, na sempe pì lusenta scala longa! Cola ch’a lo porterà giù dal cel fin-a ‘n tèra, mach për felo torné ‘nsima a cola gròssa ceresera! Alora, mach për tuta la bin ch’a-j vorìa soa novodin-a, cole bele cerese madure a l’avrà l’òbligh ëd torné a tasteje!!!
( I l’heu pa daje ‘n nòm a col nònu e a cola novodin-a, përchè sòn a val për tuti ij nònu e ‘dcò për tute le novodin-e dël Piemont, qualsëssìa nòm ch’a l’abio!!!)
IL CILIEGIO E...LE SUE SCALE
A fare da corona a una piccola, ma bella, casetta, appena fuori del cuore della città, si poteva vedere: dinnanzi delle belle aiuole piene di ogni tipo di fiori, messi di fianco ad un orto in pieno sole, con ogni varietà di verdure e persino un bel piantamento di frutta, non esageratamente grande, ma con quasi tutte le qualità che potevano venirti alla mente e che si coltivano nei nostri luoghi. Proprio al fondo, lungo il fosso, un po’ d’anni prima, avevano pure piantato una piccola pianta di ciliegie. Ora quella pianta si era fatta proprio forte, con un fusto robusto che tribolavi ormai a abbracciare e coi suoi rami robusti e ben slanciati che guardavano il cielo, con tanta fiducia di avvicinarlo presto! La casa, a due piani, dava copertura a due famiglie dello stesso ceppo: al piano sotto i due più anziani, che così non dovevano salire troppe volte le scale; al piano di sopra il figlio con i suoi due bambini, un maschietto e una femminuccia, che erano ancora piccoli, ma durante il giorno non si sentivano mai soli, perché dentro quel cortile c’era sempre qualcuno che passava! La vita in quella casa era piena del volersi bene della gente che stava lì, perché per loro era la cosa più preziosa che poteva esserci al mondo: niente e nessuno avrebbe potuto pensare di distruggere la bella usanza! Molto sovente dentro quella casa si respirava aria di festa, malgrado fosse solo un giorno di lavoro, e in quel cortile sembrava che fosse sempre pieno il pozzo dell’allegria e questo perché tutti quelli che vivevano lì erano come una famiglia sola. Questo poteva vedersi perfino nelle ore del mangiare: quasi tutti i fine settimana loro facevano pranzo e cena tutti assieme. Ma quello accadeva anche nelle grandi feste settimanali, tanto per quelle religiose, come per quelle memorabili delle più importanti feste nazionali, o nel caso delle ricorrenze di famiglia: questo perché sopra quella casa il cielo era sempre macchiato di un colore sereno e mai grigio scuro, nemmeno quando, ogni tanto, quel tappeto messo sopra alle nostre teste era tutto scuro e fuori diluviava! Quello era proprio un ambiente ideale dove quei bambini potevano crescere sereni, col più bello dei sorrisi sulle labbra, perché attorno a loro, quasi come un inviluppo carico di incantesimi, mescolata a tutta l’aria dolce che passeggiava con bel garbo in quel cortile, si poteva sentire tutto il grande amore di una famiglia che si voleva bene! Ma il luogo più piacevole e confortevole che c’era per le lunghe chiacchierate e per tutte le storie che il nonno raccontava ai suoi piccolini, era, quasi sempre, all’ombra di quel ciliegio che, nella bella stagione grazie alla sua grande capigliatura di foglie, ma pure di ciliege, con la sua protezione a ombrello ti lasciava godere tutta la sua frescura ammaliatrice: se facevi proprio attenzione, sembrava pure che quel luogo li chiamasse!
Ma poi c’erano quelle grosse ciliege profumate e mature che pareva che ti dicessero, e ciò con tutto il loro grande cuore in mano e con quella voce implorante e persuasiva: mangiami pure che io sono proprio buona! Quello era il posto dove, nei mesi della primavera e dell’estate, lui gli raccontava con gioia tutte le storie e le favole che aveva udito da piccolo e pure quelle che, da grande, aveva trovato e imparato leggendole sui libri. Contro a quella grossa pianta era quasi sempre appoggiata una scala più lunga, da poter arrivare sulla cima e dall’altra parte, una scaletta tanto più corta, che bastava solo proprio a cogliere le ciliegie dei rami più bassi. La nipotina, che era più piccola, poco alla volta, aveva preso confidenza col luogo e con quella bella pianta: ogni tanto andava a trovarla da sola e, di sotto, la contemplava curiosa cercando di vederle bene la punta! Un mattino il nonno era andato a vedere il ciliegio e l’aveva visto proprio carico di ciliegie già mature, e aveva chiesto alla sua nipotina se aveva voglia di andare ad aiutarlo a raccoglierle. A lui bastava che prendesse quelle che cadevano a terra o quelle che scappavano di mano, perché loro battendo sul terreno si fiaccavano e pertanto bisognava mangiarle subito prima che fossero da buttare! E così tutte quelle che cadevano giù sarebbero state subito sue! Si deve anche dire che sotto quella pianta c’era, per fortuna, un bel tappeto d’erba fresca e le ciliegie, cascando giù, si sarebbero proprio fatte poco male e poi, quella, era solo una simpatica scusa per farle raccogliere le ciliegie e regalargliele. Lei era andata in fretta in casa a prendere il suo bel cestino, poi si era messo il paio di scarpe più brutto che usava, per non rovinare quelle più belle e, dopo una piccola corsa, era arrivata sotto a quella grossa pianta e, come per una cerimonia, si era accovacciata soddisfatta, sotto quella lunga scala già ben appoggiata contro al ciliegio; poi avrebbe aspettato, con tanta fiducia, che suo nonno facesse proprio bene in fretta ad arrivare in quel luogo! Dopo cinque minuti il nonno era arrivato sotto la pianta con la cesta più grande e col gancetto doppio, così da poter appendere il cesto a quella lunga scala di legno a pioli, in modo da poter raccogliere il maggior numero di ciliegie, senza avere l’obbligo di scendere giù troppe volte. Lui era andato subito su veloce, dapprima non troppo in alto, per prendere prima quelle un po’ più basse e non aver modo di scuotere troppo i rami più alti e così non far cadere in terra nessuna delle tante ciliegie mature, ma dicendo anche alla nipotina di iniziare con quelle dei rami più bassi, quelli che toccavano quasi per terra; quelle che lei così poteva staccare senza tribolare troppo e riempire in fretta il suo bel cestino! Tutte le volte che quel cesto del nonno era stato riempito in...abbondanza, lui scendeva giù ai piedi della scala, per vuotarlo in una cesta più grande; poi tornava ancora a salire per farne un altro cesto! Il nonno, dopo aver preso tutte le ciliegie più mature aveva sentito la bambina chiedergli di andare su una volta anche lei per godersi tutto lo spettacolo che si vedeva di lassù. Lui era molto preoccupato per il pericolo che avrebbe potuto correre, ma non voleva proprio dirle di no e, facendo proprio tanta attenzione, l’avrebbe pure fatta salire con lui, anche tenendola ben stretta vicino; così salendo piano piano, gradino per gradino, prendendosi tutto il tempo che serviva per non correre nessun pericolo, erano arrivati, salendo, piano piano, fino sulla cima! La bambina, molto soddisfatta di quella vista meravigliosa, si era fermata a guardare attenta, con il naso all’insù, alto nel cielo, e poi tornata sotto, ai piedi della pianta, gli aveva anche chiesto se non c’era una scala ancora più lunga, per guardare, come a volo d’uccello, tutto da molto più sopra. Lui, preso un poco alla sprovvista per la domanda, le aveva risposto che forse una scala molto più lunga c’era, ma che c’era soltanto quella che portava proprio su diritto nel cielo! Ma dopo le aveva pure ricordato che quella scala lunga, con i suoi bei pioli rilucenti, l’avevano pitturata di un colore particolare e non visibile ai vivi e, proprio per quello loro non l’avrebbero potuta vedere! La nipotina era scesa giù da quella scala molto pensierosa, ma con gli occhi e con il cuore pieni di quell’incantesimo, ma poi, sebbene avesse tante curiosità in testa, sul momento non aveva più fatto nessuna domanda. Ma quella risposta le era rimasta ben stampata nella mente, malgrado per lei, fosse anche nemmeno troppo chiara: questo voleva soltanto dire che, magari un‘altra volta che si fossero trovati nel discorso, lei sarebbe tornata a fargli altre domande per chiedergli una più chiara spiegazione, proprio in modo da poter comprendere meglio tutto il concetto!
Soltanto due settimane dopo era giunto quel momento che lei aspettava, perché il ciliegio aveva fatto molte ciliege in meno; proprio per quello ci sarebbe voluto un po’ di tempo in meno per raccoglierle e così ce ne sarebbe stato tanto di più per chiacchierare con il nonno e chiedergli tutte le spiegazioni che lei aveva chiaramente scritto nella memoria! Erano nuovamente saliti sopra insieme per quella scala abbastanza larga e quando erano giunti in cima le aveva chiesto di spiegarle meglio di quella scala che non si poteva vedere! Suo nonno allora l’aveva presa con pazienza ed anche alla larga, e poi raccontato cosa voleva dire quella scala che da noi non si vedeva: era soltanto quella che Nostro Signore usava per fare andare via dal nostro mondo tutte le persone brave, quelle che andavano a prendere un posto accanto a Lui, perché nella vita avevano fatto del bene e non voleva che quel distacco facesse troppo male! Allora Lui avrebbe trovato il modo di nasconderli alla vista della gente, quando loro se ne sarebbero andati via: facendo venire tutto il cielo scuro, in una giornata già grigia, ma prima gli avrebbe lasciato tutto il tempo per salutare la sua gente, senza che le persone che gli volevano bene sapessero che non sarebbero più tornati! Nostro Signore avrebbe tirato via quella scala senza farsi vedere ma, allo stesso tempo, pure mandato giù un grande fascio di luce per dargli un segno della Sua presenza e far stare tranquilli quelli che non aveva ancora chiamato e si erano fermati ancora sotto, nell’altro mondo, e far capire che quelli che non vedevan più erano con Lui! Miracolosamente un segno verrà lasciato da un abbagliante arcobaleno che uscirà prepotente dopo un grande temporale: il grande fascio di luce colorata, verrà usato a nascondere la processione delle brave persone che camminano per il cielo! La bambina aveva sentito tutto quel discorso con la lunga spiegazione senza tirare il fiato, come se le fosse stata raccontata una favola affascinante, ma poi, appena erano scesi da quel ciliegio, aveva subito abbracciato suo nonno ben stretto e subito chiesto se avrebbe dovuto anche lui fare così: ma suo nonno capendo la sua preoccupazione l’aveva subito tranquillizzata, con il più persuasivo dei sorrisi uscito sulle sue labbra, raccontandole anche che non
sarebbe andato via lasciandola nei pasticci, e che sarebbe rimasto lì ad aiutarla fintanto che lei fosse stata capace a salire sopra al grande e vecchio ciliegio e raccogliere tutto quell’abbondante carico di ciliegie da sola! Questo alla bambina aveva dato pure un po’ di respiro, per poter continuare a parlare con suo nonno dicendogli: ”Allora io ti dico subito che anche quando sarò capace a raccoglierle tutte io gliene lascerò sempre qualcuna attaccata sopra al nostro ciliegio: così tu da qui tu non te ne andrai via e noi staremo ancora per tanto tempo assieme!” Io quella gente e quella famiglia è un pochino di tempo che non la vedo più, e non so proprio bene se quel nonno è ancora vivo, ma so, e questo di sicuro, che quella sua nipotina ha sempre dimenticato qualche ciliegia sopra a quel grande ciliegio!
Io penso pure che tutte le volte che un nonno, di sicuro di malavoglia, gli tocca cambiare luogo e tipo di vita, lasciando, per sfortuna, il nostro mondo, pensa sempre, e prima di tutto, ai suoi nipoti, come ai suoi figli, e spera, perfino sovente, di lasciarli stare non troppo nelle preoccupazioni e nel dolore!
Ma non tutti hanno la bella fortuna di avere un grande ciliegio da poter lasciare le ciliege attaccate, per far ritornare il nonno ad assaggiarle! Per quel nonno, alla primavera o all’estate, o alla fine di un temporale, quando uscirà nuovamente il segno colorato e piacevole dell’arcobaleno, farà scendere ancora una volta giù, quella sempre più lucente scala lunga: quella che lo porterà giù dal cielo fino in terra, solo per farlo ritornare sopra a quel grande ciliegio! Allora, soltanto per tutto il bene che gli voleva la sua nipotina, quelle ciliegie avrà l’obbligo di tornare ad assaggiarle!!!
(Non ho dato un nome a quel nonno e a quella nipotina, perché questo vale per tutti i nonni e per tutte le nipotine del Piemonte, qualunque nome essi abbiano!)
Motivazione: Una novella, quasi una favola, raccontata ai piedi di un grande ciliegio. Appoggiata al tronco c’é una scala di legno. Più in su c’é un’altra scala, molto lunga, che collega la Terra al Paradiso, luogo dove si trovano i nonni che sono già volati in cielo e da dove scendono, quando le ciliegie sono mature, per aiutare i nipotini a raccoglierle. Nipoti che sono curiosi e le loro domande a volte spiazzanti. Innocenti e curiosi cercano risposte anche per i grandi misteri fra cui quello della morte. Scrittura buona, meglio sarebbe stato se l’Autore avesse suddiviso le parti del racconto con degli «a capo» per rendere più scorrevole la lettura.
1°classificato «Ij mecasdis» Luigi Vaira
Ij mecasdis

I soma dl’ann 2830. La tèra coma ch’a l’era ant ël sécol ch’a fasìa vintun a esist pì nen. Dòp d’avèj vagnà la guèra ’n contra ’l marinagi che dël 2400 a l’avìa squasi stenzù ’l pianeta, la pì granda part ëd la popolassion a l’é ʼmbaronasse ’nt ël vej continent anté che belavans, coma ch’a capitava già tanti sécoj prima, pòchi a stan bin e j’àutri a tribulo a vive. Për salvé la tèra dai fum dij siminé e da col ch’a surtìa da le viture ch’a viagiavo për cel e për mar, l’umanità a l’é stàita obligà a fé a meno ʼd bon-a part ëd le conquiste tecnològiche che fin-a a col moment a l’avìo garantije la sovravivensa, portant, për maleur, l’antossiament ëd j’eve e dl’aria dzora a la mira ch’a podìa soportesse. Sensa la possibilità ’d fé marcé le fàbriche, necessarie a produve j’atrass për j’ospidaj e le meisin-e për ij malavi, la popolassion a l’é calà a dij livej da fé sgiaj. An mancansa dle màchine che për tanti ani a l’avìo garantì la possibilità ’d viagé, ant un nen, da ’n pòst a l’àutr, ij pais a son artornà a smijé a coj ch’a j’ero ’nt l’età ʼd mes, con pòchi cacam ch’a comando ij divers ëstat e tanta pòvra gent ch’a ven fàita vive ’nt l’ignoransa për tant ch’a peussa nen arviresse. A l’é coma se ’nt quatsent ani a fussa fasse ’d tut për ëscancelé quìndes sécoj dë stòria, nen mach da la memòria dla gent, ma cò fin-a fasend ravage ’d tute le testimonianse scrite. Jë sgnor ch’a comando a vivo ’nt le comodità ch’a derivo dal fàit che lor a l’han pa arnunsià a l’energìa moderna. La tèra a l’é dventà un leu anté che ij potent a dispon-o ’d tut lòn che la siensa a l’é stàita bon-a a dëscheuvre an ësquasi tremila ani e ij bonomass a patisso la fam coma s’a fusso mach ëd bestie ch’a vardo ij padron ant soe bele sità lusente piassà ansima a dle pile d’assel ch’ rivo fin-a ’n mes a le nìvole. Pòch për vòlta la pòvra gent a ’ncamin-a a chërde che coj cacam a sio nen d’òm coma lor, ma pròpi dle divinità bon-e a volé, a fé ʼd miracoj e che minca tant a mando giù ij sò soldà a castighé coj ch’a rispeto nen la lege. Già përché na lege a fà dabzògn ch’a-i sia, s’as veul nen che tut a vada a rabel, e naturalment a l’é stàita detà dai cacam ch’a l’han obligà tuti j’àutri a ’mprend-la a memòria. A sarìa stàit motobin pì sempi scrivla, almeno j’articoj pì ʼmportant, ma la regola fondamentala, për esse sèmper rispetà, a l’é pròpi che la scritura a deuv esse na pratica mach conossùa da jë sgnor ëd le nìvole. Minca forma dë scòla a l’é stàita proibìa e tuti coj ch’a ven-o ciapà con un lìber o un vej artaj ëd giornal ant la bërsaca a finisso ’n përson o pes ancora a ven-o portà via ’nt un leu da ’nté che gnun a l’ha mai fàit artorn. Tuta la conossensa a deuv esse a dispossision ëd jë sgnor ëd le nìvole che ʼnt cola manera a serco ʼd goerné e gestì, për lor, le pòche arsòrse che la tèra a peul ancora eufre. Se coj ch’a stan al pian dla tëppa a fusso an gré ’d comuniché për ëscrit an tra ’d lòr a penserìo fin-a ’d podèisse arviré organisand-se coma che mila ani prima ij sindacà a fasìo an contra ai padron ëd j’asiende. La stòria a l’ha mostrà che prima o apress tut a artorna e col-lì a l’é ’l sagrin pì gròss dij cacam: la possibilità che quaidun a sia ’ncamin ch’a studia la manera ’d mostrè la gramàtica al popol, an manera da përmëtt-je ’d confrontesse e pòch për vòlta, magara, organisé quàich forma ëd protesta. Cola-lì a smija sémper ëd pì na realtà da dovèj ëstensi.
Manten-e la gent ant l’ignoransa a l’é stàita, ant ij sécoj, la manera pì vàlida për ëschivié j’arvòlte, ma ancheuj a l’é motobin pì mal fé ’n confront a quand che gnun a savìa a lese e scrive, adess as trata ëd fé dësprende coj ch’a son bon. Le sità, o lòn ch’a l’é restaje, a son pien-e dë stimoj ch’a cisso a ’mprende almeno a lese: ansëgne ’d locaj giumai dësblà, cartej ëstradaj vej ed quatrsent ani o bele mach tòch dë scrite piturà sle muraje për fé ’d reclam, a fan ëvnì ’nt ij pì giovo l’anvìa ’d capine ’l significà. Tante paròle scrite ’n tante lenghe diferente che, quand che la tecnolnogìa a l’era a la portà ’d tuti, a fasìa tant bel fé capije: a bastava pijé un dij tanti angign fàit për viré le lenghe strangere ’nt l’ùnica conossùa e sgnaché un boton për avèj la tradussion an sël moment. Cole comodità, pòch a la vòlta, a l’avìo fàit dventé tuti pitòst pìgher fin-a al ponto che manch ij cont gnun a j’ero pì nen bon a feje sensa l’angign ch’a calcolava a sò pòst e donca ëd bòt an blan, an mancand-je cole arsorse, l’umanità a l’é spërfondà torna ’nt l’ignoransa. La diròta coltural ëd la gent comun-a a l’é smijà completa quand che jʼùltim inteletuaj, o comsëssìa coj ch’a chërdìo d’ess-lo almeno na frisa, a j’ero provasse a formé na scòla, ma da già che lor-là a l’avìo amprendù, col pòch, ognidun për sò cont, sensa l’agiut d’un ver magìster, gnun a savìa da bin le régole gramaticaj e donca nen mach a finìo për ëscrive parèj “mé ch’as dis ” ma bin da soens a la domanda che j’anlev a-j fasìo:
«Cola ròba ch’a-l’é scrita ambelelà… mé ch’as dis?» lor a savìo pa a dé na rispòsta precisa.
La pì granda part ëd l’umanità a l’ha përdù ’nt ël vir ëd tre o quatr generassion un dij tesòr pì gross che ’nt ij sécoj a l’era stàita bon-a a buté da part: la capacità ’d comuniché për ëscrit e chi ch’as da nen pas a vive ’nt l’ignoransa a ven ëstranomià dai cacam dle nìvole un “mecasdis”.
Al dì d’ancheuj esse ’n mecasdis a l’é la condission pì bruta ch’a peul ess-je, paròla mia ch’im treuv ant costa situassion nen për mia volontà, ma për avèjla ardità. Mama e papà a j’ero ʼdcò lor dij mecasdis e ij sò ’d mia mama, prima ’ncora d’avèj antamnà ’dcò ’l gënner, mé pare, a j’ero sagrinasse ’d pianté bin ant la testa dla fija ’l desideri d’amprende a lese e scrive coma ch’a savià fé ’l bcé dla nòna. Col òm che mi i l’heu mach sèmper ciamà “ël Savant” s’a fussa ’ncor viv adess a l’avrìa squasi dosent ani tutun a l’é considerà, da noi dissendent, ch’i l’oma mai solamnet vist-lo ’nt ritrat, la përson-a pì ’mportanta ’d nòstra famija. Nòna a l’ha contame vàire vòlte ’d quand che col òm a l’era stàit portà via da la milissia ch’a l’avìa trovaje ’n sacocia na litra scrita a man pròpi da chiel. Da col di dël Savant gnun a l’ha pì nen avù ’d notissie e forsi për col motiv a l’é intrà ’nt la legenda coma n’eroe da imité, tant che mi, pen-a ch’i l’heu compì disdeut ani, i l’heu bandonà mia famija për serché ’n magìster ch’a sia bon a mostreme ij segret che col antich a l’avrìa vorsune tramandé.
Da nòstre bande i soma comandà da jë sgnor ch’a vivo ’nt la sità dle nìvole pì àuta ’d tute ch’ a së s-ciama “New Ara”; gnun ëd mia gent a sà lòn ch’a veul di col nòm, ma i l’oma amprendù a avèj-ne motobin pàu. Da là ’nsima ij cacam, nopà che fesse soa vita tranquila, as sagrin-o dë tnì sota control tute le popolassion ch’a vivo ’nt cola che na vòlta, stand ai racont dij vej, a l’era na region rica dë stòria e dzortut ëd coltura, ma che adess a smija pròpi mach a ’n gerb pien ëd ronze e ’d gent sërvaja: ël Piemont. Tutun s’a-i é ’n leu ’nté ch’a peuss ess-je na speransa ’d fé arvive la cultura ’d nòstri vej, a l’é pròpi ambelessì e mi i son decis a dëscheurve se quaidun a l’é ’n gré ’d mostreme a lesi e magara feme dventé cò mi un magìster coma ch’a l’era ’l Savant. Ant cole ch’a j’ero le sità pì gròsse a-i é pì gnente e pì gnun ch’a conòssa ij segret ëd la lenga antica, ma as dis che ’nt le campagne, dantorn a la veja Turin, un grup ëd përson-e che, al temp ëd la diròta, a j’ero talment pòche da nen esse considerà coma un pericol da coj “ëd le nìvole”, a sia ’ncamin ch’a serca d’òm e ’d fomne për tramandé na parlada ancestral e pì che tut për mostreje a scriv-la. Costa a l’é n’ocasion da nen lasesse scapé donca, an gran segret, i son stàit bon a fissé ’n randevó con un dij cap ëd la scòla dij “Brandé”, paréj as ës-ciamo ij rivolussionari ch’a goerno ij segret ëd la scritura, j’ùnich ch’peusso giutene nojàutri “mecasdis”.
Ël sol a l’é già squasi ausasse completament ant ël cel e mi i son rivà fin-a tròp dun-a; la susta, ancamin ch’i speto col òm, a lʼé pì fiacanta dël viagi ch’a l’ha portame ’mbelessì e an mia ment, pòch për vòlta, a pija pé l’ideja ch’i sia ficame ’nt un bel pastiss. Se për dësgrassia la milissia dij cacam a fussa vnuita a savèj ëd mie intension i sarìo ’n perìcol mì e l’òm ch’i deuvo ’ncontré.
A son squasi doe ore ch’i son ambelessì, anté che tanti ani andaré a-i era Santna, ël pais famos për la coltivassion ëd jë sparz; ël randevó a l’é ’nt na balma che na vòlta a l’era na galerìa dla ferovìa e për ël moment i son ancora da mì sol ch’i tërmolo pì për la pàu che për la frèid. Ëd bòt an blan na vos ch’a riva da i seu nen andova am dis:
«Ses-to ti l’anvod dël Savant?»
«I son mì… Tòni... e chiel… voi … com’ i deuv ciameve? Magìster?»
«Magìster a l’é na paròla ch’as dòvra pì nen da tròp temp përché ch’a manco j’anlev e la veuja d’amprende, cola-lì a l’é la bataja pì mala ’d vagné: cissé ij giovo a nen bandoné la scritura. Ti comsëssìa, s’it l’has veuja d’amprende nòstra dutrin-a, it im ciameras mach Pacò»
«Ma paco a veul dì badòla, a l’é un nòm brut, mi i m’ancalo nen a ciamelo përparèj».
«A l’é vèra lòn ch’it dise, ma Pacò con l’acent an sl’ùltima vocal a l’é, për nojàutri Brandé, un titol motobin amportant, a l’é l’abreviassion ëd Pacòt, un dij fondator ëd l’ordin e grand ëscritor ëd pròsa e poesìa. Esse un Pacò a l’é n’onor për coj pòchi ch’a peusso përmëtt-slo, ma se për ti a l’é un problema a va cò bin ciameme Tavo».
«Che nòm ëstran, cos’a veul dì Tavo?».
«A l’é ʼl nòm ëd në scritor motobin an piòta. Mè pare e ij sò frèj a l’han ciamane nojàutri, fieuj e nevod, coma, j’artista dël 1900; a l’é për lòn che a mé cusin prim a-j diso Censin e n’àutr a së s-ciama Milo. Nopà mè frel a l’é Nino, coma ’l poeta Còsta ».
«I l’heu pa mai sentilo a mansioné».
«A l’é përché ch’it ses mai ’ndàit a scòla e për ël fàit che col monsù a l’era conossù dzortut ant nostra bela tèra, cola che na vòlta a së s-ciamava Piemont».
«I l’heu sentine parlé da mia nòna dël Piemont, ma chila a disìa che col teritòri a l’era cit e pa vàire ’mportant, un leu con milanta parlade e gnun-e règole precise ʼd gramàtica».
«E ti i lo sas-to lòn ch’a l’é la gramàtica? I cherdo pròpi che ʼd nò nen vèra? Donca Tòni foma che setesse na minuta dzora a coste pere për pijé fià antratant ch’it ëspiego ’l përché e ël për coma ’d nòstre rèis. It deuve savèj che ’l Piemont a l’é stàita una dle region pì bele e riche dë stòria e che soa sità prinsipala a l’era fin-a stàita la capital ëd në stat, forsi ’l pì bel dël mond, ch’a së s-ciamava Italia. Le pì ’nciarmante ’nvension a son surtìe da le teste fin-e dij nòstri antich e ’l Piemont, ant un temp ëd carestìa, a l’ha concorù a l’arprèisa econòmica dl’Italia. Belavans, pòch për vòlta, tuti jë stat a son dasse la règola, nen pròpi sbalià, ëd parlé na lenga sola, ma gnun a l’é dasse ʼl sagrin ëd tramandé le lenghe antiche che për col motiv a son përdusse squasi tute».
«Che darmagi».
«Ant coj ani le conquiste tecnològiche a l’avìò cissà tuti a pensé ’d podèj vive sèmper sensa fatighé, ma ’nt cola manera j’arsorse naturaj a son ’ndàite al canton motobin pì ’n pressa ëd lòn che j’òm a chërdìo e j’efet ëd cola diròta a son sota nòstri euj. Tut ël savèj a l’é a disposission dij cacam ëd le nìvole e j’àutri, la gent coma noj, a son ëstàit condanà a vive ant l’ignoransa për tant ch’a sio bej ëd comandé ».
«Ma quaidun ch’a travaja a bzògna ch’a-i sia… për fòrsa».
«Sesto mai ciamate ’ndova ch’a van a finì coj che la milissia a pòrta via?»
«Sachërdisna a fan-ne j’ovrié për ij cacam?»
«S-ciav a l’é la paròla giusta. L’ignoransa a rend ës-ciav.»
«A l’é për lòn che ij lìber a son ëstàit portà via tuti e le scole a esisto pì nen»
«Già, ma nòstra lenga, nòstra cultura, che gnun a l’avìa considerà coma un pericol, a l’é nen mòrta e mai a ’ndarà al canton fin-a a quand che bele mach un dij brandé a sarà bon a portela anans. Ij cacam, ch’a chërdo ’d savèj tut, a son pa rendusse cont che ij bogia nen a son pì coregn dël coram».
«Chi son-ne ij bogia nen?»
«Sossì it lo spiego peui n’àutra volta, adess prima ëd tut i l’heu piasì ’d fete amprende na canson ch’a l’han mostrane ij vej dij nòstri vej, sta bin atent e arpet apress a mi:
Ant nòstr cheur ël cel s’anrèisa, gius ëd tèra a lʼé nòstr sangh»...
I comesidice.
Siamo nell’anno 2830, la terra com’era nel ventunesimo secolo non esiste più. Dopo aver vinto la guerra contro l’inquinamento che nel 2400 aveva quasi soffocato il pianeta, la maggior parte della popolazione si è ammassata nel vecchio continente dove purtroppo, come capitava già tanti secoli prima, pochi stanno bene e gli altri faticano a vivere. Per salvare la terra dal fumo delle ciminiere e da quello emesso dalle autovetture che viaggiavano per cielo e per mare, l’umanità è stata costretta a fare a meno di una buona parte delle conquiste tecnologiche che fino a quel momento le avevano garantito la sopravvivenza, portando, per disgrazia, l’inquinamento delle acque e dell’aria oltre la soglia di sopportazione. Senza la possibilità di far funzionare le fabbriche, essenziali per la produzione degli attrezzi ospedalieri e delle medicine necessarie agli ammalati,la popolazione è calata ad un livello impressionante. In mancanza delle macchine che per tanti anni avevano garantito la possibilità di viaggiare, in un istante, da un luogo all’altro, i paesi sono tornati simili a quelli del medioevo, con pochi autorevoli signori che comandano i diversi stati e tanta povera gente che viene fatta vivere nell’ignoranza in modo che non possa ribellarsi. È come se in quattrocento anni si fosse fatto di tutto per cancellare quindici secoli di storia, non solo dalla memoria della gente, ma facendo anche razzia di tutte le testimonianze scritte. I signori che comandano vivono nelle comodità derivanti dal fatto che loro non hanno rinunciato all’energia moderna. La terra è diventata un luogo in cui i potenti dispongono di tutto quanto la scienza è stata in grado di scoprire in quasi tremila anni e i poveracci patiscono la fame come se fossero solo delle bestie che osservano i padroni nelle loro belle città lucenti poste su dei pilastri d’acciaio che arrivano fino alle nuvole. Poco per volta la povera gente inizia a credere che quei signori non siano uomini come ma proprio delle divinità capaci di volare, di far miracoli e che di tanto in tanto mandino giù i loro soldati a castigare coloro che non rispettano la legge. Già perché una legge deve necessariamente esserci, se non si vuole che vada tutto a catafascio e naturalmente è stata dettata dalle autorità che hanno costretto tutti gli altri ad impararla a memoria. Sarebbe stato molto più semplice scriverla, almeno gli articoli più importanti, ma la regola fondamentale, per essere sempre rispettati, è quella che la scrittura deve essere una pratica conosciuta solo dai signori delle nuvole. Ogni forma di scuola è stata proibita e coloro che vengono sorpresi con un libro o un vecchio ritaglio di giornale nella cartella finiscono in prigione o peggio ancora vengono portati in un luogo dal quale nessuno ha mai fatto ritorno. Tutta la conoscenza deve essere a disposizione dei signori delle nuvole che in quella maniera cercano di governare e gestire, per loro, le poche risorse che la terra può ancora offrire. Se coloro che stanno al livello del terreno fossero in grado di comunicare tra di loro potrebbero addirittura pensare di ribellarsi organizzandosi come mille anni prima i sindacati facevano contro i padroni delle aziende. La storia ha insegnato che prima o poi tutto ritorna e quella è la preoccupazione dei governanti: la possibilità che qualcuno stia meditando di insegnare la grammatica al popolo, in modo da permettergli di confrontarsi e poco per volta, magari, organizzare qualche forma di protesta. Quella pare sempre di più essere una realtà da dover soffocare.
Mantenere la gente nell’ignoranza e stata, nei secoli, la maniera più valida per evitare le rivolte, ma oggi è molto più difficile rispetto a quando nessuno sapeva leggere e scrivere, ora si tratta di far disimparare coloro che ne sono capaci. Le città, o ciò che ne è rimasto, sono piene di stimoli che invogliano ad imparare almeno a leggere: insegne di locali ormai distrutti, cartelli stradali vecchi di quattrocento anni od anche solo pezzi di scritte pitturate sui muri per far pubblicità, fanno venire nei più giovani il desiderio di comprenderne il significato. Tante parole scritte in tante lingue diverse che, quando la tecnologia era a disposizione di tutti, era semplicissimo comprenderle: era sufficiente prendere uno dei tanti attrezzi inventati per tradurre le lingue straniere nell’unica conosciuta e pigiare un bottone per averne l’immediata traduzione. Quelle comodità, poco per volta,
avevano fatto diventare tutti piuttosto pigri fino al punto che neppure i conti nessuno era più in grado di farli senza l’attrezzo che calcolava al posto loro e dunque di punto in bianco, mancando quelle risorse l’umanità è sprofondata nuovamente nell’ignoranza. La disfatta culturale della gente comune parve completa quando gli ultimi intellettuali, o comunque coloro che credevano di esserlo almeno un poco, tentarono di formare una scuola, ma poiché quelle persone avevano imparato, quel poco, ognuno per conto proprio, senza l’aiuto di un vero maestro, nessuno conosceva per bene le regole grammaticali e quindi non solo finivano per scrivere così “come si dice” ma spesso alla domanda che gli allievi ponevano loro:
« Quella cosa che è scritta là … come si dice?» essi non sapevano dare una risposta precisa.
La maggior parte dell’umanità ha perso nel giro di tre o quattro generazioni uno dei tesori più grandi che nei secoli era stata in grado di mettere da parte: la capacità di comunicare per iscritto e chi non si da pace vivendo nell’ignoranza viene soprannominato dai signori delle nuvole un “comesidice”.
Al giorno d’oggi essere un comesidice è la condizione più brutta che ci possa essere, parola mia che mi trovo in questa situazione non per mia volontà, ma per averla ereditata. Mamma e papà erano anch’essi dei comesidice ed i genitori di mia madre, ancor prima di aver contagiato il genero, mio papà, si erano preoccupati di piantare nella testa della figlia il desiderio d’imparare a leggere e scrivere come sapeva fare il bisnonno della nonna. Quell’uomo che io ho solo sempre definito “Il sapiente” se fosse ancora ancora vivo adesso avrebbe quasi duecento anni tuttavia è considerato, da noi discendenti, che lo abbiamo solamente visto in ritratto, la persona più importante della nostra famiglia. Nonna mi ha raccontato svariate volte di quando quell’uomo era stato portato via dalla milizia che gli aveva trovato in tasca una lettera scritta a mano proprio da lui. Da quel giorno del Sapiente nessuno ha più avuto notizie e forse per quel motivo è entrato nella leggenda come un’eroe da imitare, tanto che io, appena compiuti diciotto anni anni, ho abbandonato la mia famiglia per cercare un maestro che sia capace a mostrarmi i segreti che quell’avo avrebbe voluto tramandarmi.
Dalle nostre parti siamo comandati dai signori che vivono nella città delle nuvole più alta di tutte che si chiama “New Ara”; nessuno tra la mia gente sa cosa significhi quel nome, ma abbiamo imparato ad averne molta paura. Da lassù i potenti, anziché fare solo la loro vita tranquilla, si preoccupano di tenere sotto controllo tutte le popolazioni che vivono in quella che un tempo, stando racconti degli anziani, era una regione ricca di storia e soprattutto di cultura, ma che adesso sembra un gerbido pieno di rovi e di selvaggi: il Piemonte. Tuttavia se c’è un luogo in cui possa trovarsi una speranza di far rivivere la cultura dei nostri vecchi, è proprio qui ed io sono deciso a scoprire se qualcuno è in grado di insegnarmi a leggere e magari a farmi diventare, a mia volta, un maestro come lo è stato il Sapiente. In quelle che erano le città più grandi non c’è più nulla e nessuno che conosca il segreto della lingua antica, ma si dice che invece nelle campagne attorno alla vecchia Torino, un gruppo di persone, che al tempo della disfatta erano talmente poche da non essere considerate un pericolo dai quelli “delle nuvole” stia cercando uomini e donne per tramandare una parlata ancestrale e più di tutto per insegnar loro a scriverla. Questa è una occasione da non lasciarsi scappare quindi, in gran segreto, sono riuscito a fissare un appuntamento con uno dei capi della scuola dei “Brandé”, così si chiamano i rivoluzionari che conservano il segreto della scrittura, gli unici che possono aiutare noi “comesidice”.
Il sole è già quasi completamente alto nel cielo e io sono arrivato troppo presto; l’attesa, mentre aspetto quell’uomo, è più stressante del viaggio che mi ha portato qui e nella mia mente, poco per volta, si insinua l’idea di essermi cacciato in un bel guaio. Se per disgrazia la milizia dei potenti fosse venuta a conoscenza delle mie intenzioni saremmo in grave pericolo tanto io che l’uomo che devo incontrare. Sono quasi due ore che mi trovo qui, dove tanti anni fa c’era Santena, il paese famoso per la coltivazione degli asparagi; l’appuntamento è fissato in una grotta che una volta era una galleria ferroviaria e, per il momento, sono ancora da solo che tremo, più per la paura che per il freddo. D’un tratto una voce che non capisco da dove giunga mi dice:
« Sei tu il nipote del Sapiente ? »
« Sono io sì … Antonio e lei… voi… come devo chiamarvi? Maestro ?
« Maestro è una parola che non si usa più da tanto tempo perché mancano gli allievi e la voglia di imparare, quella è la battaglia più difficile da vincere: spronare i giovani a non abbandonare la scrittura.
Tu comunque, se hai voglia di imparare la nostra dottrina, mi chiamerai semplicemente Pacò»
« Ma Paco vuol dire sempliciotto, è un nome brutto, non oso chiamarla in quel modo»
« È vero quello che mi dici, ma Pacò con l’accento sulla ultima vocale è, per noi Brandé, un titolo molto importante, è l’abbreviazione di Pacotto, uno dei fondatori dell’ordine e grande scrittore di prosa e poesia. Essere un Pacò è un onore per i pochi che se lo possono permettere, ma se per te è un problema va anche bene chiamarmi Tavo ».
« Che nome strano, cosa vuol dire Tavo?»
« È il nome di uno scrittore molto bravo. Mio padre e i suoi fratelli hanno dato a noi figli e nipoti, i nomi degli artisti che del 1900; è per questo motivo che un mio cugino si chiama Vincenzo e un altro Camillo; invece mio fratello è Antonio,detto Nino, come il poeta Costa ».
« Non ne ho mai sentito parlare »
« Questo perché non sei mai andato a scuola e perché quel signore era conosciuto soprattutto nella nostra bella terra, quella che un tempo si chiamava Piemonte.
« Ne ho sentito parlare da mia nonna del Piemonte, ma lei diceva che quel territorio era piccolo poco importante, un luogo con migliaia di parlate e nessuna regola grammaticale ».
« E tu lo sai cosa è la grammatica? Non credo proprio vero? Dunque Antonio sediamoci un minuto su queste pietre per prendere fiato e intanto ti spiego il perché e il per come delle nostre radici. Devi sapere che il Piemonte era una delle regioni più belle e ricche di storia e che la sua città principale è stata la capitale di uno stato, forse il più bello del mondo, che si chiamava Italia. Le più affascinanti invenzioni sono scaturite dalle menti dei nostri avi e il Piemonte, in tempi di carestia, ha contribuito alla ripresa economica dell’Italia. Purtroppo, poco per volta, tutti gli stati si sono dati la regola, non del tutto sbagliata, di parlare un’unica lingua, ma nessuno si è preoccupato di tramandare le lingue antiche che pertanto si sono perse quasi tutte ».
« Che peccato».
« In quegli anni le conquiste tecnologiche avevano spinto tutti a credere di poter vivere sempre senza faticare, ma così facendo le risorse naturali si sono esaurite molto più presto di quanto gli uomini credevano e gli effetti di quella disfatta sono sotto ai nostri occhi. Tutto il sapere è a disposizione dei signori delle nuvole e gli altri, la gente come noi, sono stati condannati a vivere nell’ignoranza in modo che siano facili da comandare ».
« Ma qualcuno che lavora bisogna che ci sia … per forza ».
« Ti sei mai chiesto dove vanno a finire quelli che vengono portati via dalla milizia?».
« Caspita fanno gli operai per i potenti? ».
« Schiavi è la parola giusta. L’ignoranza rende schiavi ».
« È per quel motivo che sono stati portati via i libri e non esistono più le scuole »
« Già, ma la nostra lingua e la nostra cultura, che nessuno aveva considerato come un pericolo, non sono morte e vivranno fino a che anche un solo brandé sarà capace di portarla avanti. I potenti, che credono di sapere tutto, non si sono resi conto che i “bogia nen” sono più coriacei del cuoio ».
« Chi sono i “bogia nen”? »
« Questo te lo spiego poi un ‘altra volta, adesso prima di tutto ho piacere di farti imparare una canzone che ci hanno insegnato i vecchi dei nostri vecchi, sta bene attento e ripeti dopo di me:
Ant nòstr cheur ël cel s’anrèisa, gius ëd tèra a lʼé nòstr sangh »...
Motivazione: “Un domani assai lontano nel futuro non resta più nulla della coltura e del sapere umano. Anche l’ultima e unica lingua globale è ormai parlata senza regole, ognuno come gli piace, nella più totale anarchia. Tutt' al più, se proprio è necessario scrivere, la gente non lo fa seguendo una grafia o una precisa regola”


Sez. Libri
Giudizi di Claudio Calzoni e Davide Ghezzo

Ogni libro partecipante a questo concorso ha i suoi buoni motivi per essere premiato, occorre però fare una selezione.
La Giuria non ha mai avuto preferenze o preconcetti sulle opere presentate, e nessun particolare amore per questo o quel genere letterario.
Non si sono fatte distinzioni nemmeno tra case editrici, preferendo giudicare la facilità di lettura, il corretto uso della grammatica, lo stile personale ed espressivo del romanzo o dei racconti contenuti nel libro.
Sono arrivati alcuni romanzi e racconti non pubblicati sotto forma libraria e, pur essendo interessanti e notevolmente ben scritti non hanno potuto partecipare alla scelta, visto che è stata preferita la forma edita.
Altra forma di giudizio scelta dalla giuria è stata la quantità di empatia che si raggiunge nella lettura tra l’autore, i personaggi descritti nel racconto ed il lettore. Spesso i libri pubblicati sono molto personali, scritti da autori che, pur non facendolo apposta, scrivono solo per sé stessi, o per una cerchia ristretta di conoscenti e di pubblico. Bene, abbiamo cercato di agire molto con la testa e tanto con il cuore, del resto il concorso è dedicato alla “poesia che salva la vita” (la vita interiore di ognuno di noi), quindi alla bellezza in generale, soprattutto alla bellezza dell’anima e della letteratura.

Abbiamo scelto:
Tutti 4 a pari merito
“Sangue sulla Decima Legione” Giorgio Franchetti da Cerveteri (Roma)
“Io non mi schiodo” Angela Trevisan da Leinì (To)
“Altri pianeti” Francesca Scattolin da Treviso
“Le formiche rosse” Teodoro Lorenzo da Torino
“Corsa al potere” Fabrizio Olivero da Torino
“Cascina dell’angelo” Bruno Alberganti da Borgosesia (Vc)

3°ex. clas. “L’anomalia di Qumran” Stefano Bambi da Firenze
Motivazione: Gli sbagli si pagano, soprattutto se gli errori del protagonista vengono commessi durante un viaggio a ritroso nel tempo in un passato molto particolare. Il processo a cui è sottoposto lo strano eroe della narrazione è un espediente letterario molto interessante. Stefano Bambi è scrittore preciso e fantasioso, il romanzo è avvincente e particolarmente intrigante come tematica e come svolgimento. Tutta una generazione di narratori ha attinto alle tematiche proposte da Stefano Bambi, sviluppando trame dove il fantastico si aggregava allo studio della storia, alla rivisitazione del mito e della religione, alla riscoperta di eventi e di luoghi attraverso la lente della fantasia e di un punto di vista diverso da quello accademico. Questo romanzo ha colpito i giudici anche per le origini letterarie e lo studio delle fonti alternative che l’autore ha, indubbiamente, elaborato negli anni, sviluppando uno stile personale e molto evocativo.
3° EX “La pazienza delle variabili” Damir Kosara – Mondovì (Cn)
Motivazione: Il tema malattia, in ogni sua accezione, è presente in moltissimi dei libri che ci sono arrivati e che abbiamo letto con interesse. In quest’anno passato il virus ha scatenato paure ataviche e ricordi personali di tantissimi autori (noi due compresi). Scrivere della malattia non è così difficile. Il dolore colpisce tutti, molti sono colpiti ancora di più e spesso non si accettano le disgrazie che piovono sulle nostre vite o sulle vite dei nostri cari. Malattia è poi dolore continuo, ricordo perenne di tempi migliori, e questi temi, insieme a quelli delle storie familiari e di piccoli gruppi di personaggi, hanno riempito pagine e fatto scorrere dita sui computer, inchiostro nelle stamperie e spesso molte lacrime nei conoscenti dell’autore, o nei lettori che si riconoscevano nei personaggi delle storie. A queste condizioni la sofferenza di un autore non può essere premiata, non può essere migliore o peggiore, più forte o meno intensa della sofferenza di un altro. Quindi, oltre ad un grande applauso a tutti gli autori che, con coraggio e dedizione si sono cimentati nel racconto, spesso liberatorio, delle loro esperienze, o di quelle di loro amici e conoscenti, ci permettiamo di presentare al pubblico il libro DAMIR KOSARA che, oltre ad affrontare con una scrittura agile il tema della sofferenza personale, del riscatto dalla malattia e delle problematiche riscontrate nel rapporto con gli altri, e con s stesso, riesce ad avvincere il lettore, trascinandolo con una bella intensità letteraria negli intrecci temporali e psicologici della sua anima.
2° clas. “Gli opposti dentro di me” Carla Gatti da Voghera (Pv)
Motivazione: La giuria, in questo caso, è stata ancora più unanime. Anche qui il premio va ad un’autrice che ha affrontato il tema romanzo nella sua accezione più internazionale, più di genere. In questo caso il genere è ben definito “La fantascienza”. A questo romanzo non manca nulla delle opere della grande fantascienza americana dei primi anni d’oro, genere a cui ancor oggi attingono tutte le case cinematografiche di Hollywood e che ha addirittura predetto, anticipato ed a volte inventato molti degli oggetti ora in uso comune. Il vantaggio, che se usato male può diventare debolezza e limite narrativo, è che, mediamente, gli scrittori italiani del genere sono più colti, più legati alla storia ed alla letteratura classica, dei giovanotti americani che dal 1950 hanno iniziato a scrivere di marziani e avventure spaziali. Sono nate così, sulla scena italiana, storie relegate, da sempre, in circuiti culturali molto chiusi, poco aperti al grande pubblico ed alle critiche dei classicisti e degli accademici. In questo caso la preparazione storica e culturale dell’autrice è stata lo strumento per arrivare ad un risultato prezioso e particolare. Una storia semplice e complessa, fatta di dialoghi e sensazioni, scritta con il cuore e con la consapevolezza di stupire e coinvolgere il lettore, toccando strade non sconosciute ai più come la vita e l’improvvisa scomparsa di Ettore Majorana, gli eventi del nazismo e i tanti dibattiti sulle particelle antimateria ed i buchi neri.

1° clas. “Il sesto passo” Nicola Piovesan da Vivenza
Motivazione: Un thriller internazionale. Sì, abbiamo premiato un thriller dalla trama complessa e intrigante, con protagonisti belli, ambigui, avventurosi e ben caratterizzati, pensato e scritto da un autore italiano. Dicono che non siamo capaci noi italiani a scrivere libri di questo genere, dicono che i nostri personaggi, le ambientazioni, le trame, non sono al passo con i tempi, non possono arrivare alla perfezione dei grandi romanzieri di genere anglosassoni. Può darsi. Piovesan, secondo noi, è riuscito a dare nel libro, oltretutto ben scritto e dalla lettura molto scorrevole, una buona, ottima prova, per smentire i critici e gli scettici. Chissà che, finalmente, anche qualche scrittore italiano che si cimenta in questo genere possa ottenere il giusto riscontro del pubblico.


Premio speciale per la poesia Dante
Tra le opere in versi pervenute, la Giuria, nel tenere a riferimento la poesia come espressione intima del "ben dell'intelletto", ha assegnato il riconoscimento alla lirica dal titolo
“Un novello Caronte” di Attilio Rossi da Carmagnola (To)
Motivazione: L’autore si pone l’eterno quesito della vita che aspetta chi muore.
Non avendo altro che i versi di Dante, inviato speciale sul fronte dell’aldilà, l’autore immagina che tutto, come il sommo Poeta scrisse, continua immutato. Caronte trasporta le anime nei luoghi dove l’han destinate le opere che compirono in vita terrena e che ne hanno segnato il destino perenne nell’immortalità che, paradossalmente, la morte genera. È un bel quesito, nessuno è tornato a fornire dettagli più precisi da quel viaggio, ma Caronte, imperterrito, continua la spola dalla soglia della vita terrena appena trascorsa a quella immortale.

Menzione d’onore sez libri:

“Come nuvole innamorate” di Enrica Mambretti da Lugaro D’Erba (Co)
“Altri pianeti” di Francesca Scattolin da Treviso
“Cascina dell’angelo” di Bruno Alberganti da Vercelli
“Profili diseguali” di Federico Maderno da Giusvalla (Sv)
“L’algoritmo dell’amore” di Alessandro Manganozzi da Roma

Segalazione di merito

“Il delitto al teatro di Via della Mela” di Testa Giuseppe da Roma
“Nebbia” di Guzzetti Chantal da Como
“Canzone del tramonto” di Reina Rosario da Salerno

Segnalazione di merito poesia in lingua italiana

Sebastiano Parrella da Napoli per “Le mie due rose”
Matacchioni Franco da Lodi per “Un nodo irrisolto”
Sacco Susi da Asti per “Soffio di vento”
Anna Maria Caputo da Bernalda (Mt) per “Madre terra”
Avellino Salvatore da Foligno (Pg) per “S. Raffaele”


Premi speciali offerti dalle istituzioni
Premio offerto dalla famiglia Borgoglio per ricordare Sara la figlia morta a 13 anni
(Scrittrice più giovane) Barbato Vittoria di 13 anni da Napoli con il racconto: “Sapore d’estate”

“Sapore d’estate”
Capitolo 1
L’estate è la mia stagione preferita. Puoi fare shopping, stare con gli amici e divertirti fino a tarda sera. In questo momento sono seduta al tavolo di un pub con la mia migliore amica.
<> mi chiama Jasmin
<>
<< A cosa pensavi?>> mi chiede-
<< Pensavo a dove andare quest’anno in vacanza, siamo a metà Giugno e non mi va di restare a casa. Vorrei partire il 1 Luglio per poi tornare il 31 Agosto. Ho proprio bisogno di staccare la spina, ma non so dove andare?>>
<< Io vorrei andare a Ischia, comunque su qualche isola>> mi dice Jasmin
<< Ti va di partire insieme?>> le chiedo
<< Si! E poi sei la mia migliore amica, l’unica che conosce davvero i miei gusti>>
<< Bene adesso resta solo da decidere dove andare, io preferirei un posto tranquillo, no come l’anno scorso a Riccione, lì mi sono divertita ma ero sempre stanca morta. Quest’anno voglio rilassarmi e godermi le vacanze.>>
<< Hai ragione, forse l’anno scorso abbiamo esagerato ma ti prometto che quest’anno le vacanze saranno più calme>>
Conosco Jasmin, ama divertirsi ed essere sempre al centro dell’attenzione, lo si può dedurre anche dal suo modo di vestire. Stasera ad esempio indossa un top arancione fluo e una gonna bianca con dei tacchi alti.
Ci siamo conosciute per caso in un bar, stava camminando e per sbaglio mi rovesciò il suo drink addosso. Ero furiosa! Avevo pagato quel vestito tantissimo quasi tutto il mio stipendio. Lavoro come segretaria per uno studio medico, amo il mio lavoro ma spesso mi porta via troppo tempo, devo sempre fissare o spostare gli appuntamenti. Dopo l’accaduto Jasmin mi offrì un drink e da quel momento non ci siamo più separate, abbiamo pochi anni di differenza io ho vent’anni e lei ventuno. Abitiamo a pochi kilometri di distanza.
Jasmin è una ragazza solare che ama mettersi in mostra al contrario di me che sono un po’ più riservata mentre lei fa subito amicizia, abbiamo due caratteri completamente diversi.
Usciamo dal pub e ci dirigiamo verso casa mia, una volta entrate ci mettiamo a guardare sul mio pc qualche posto per prenotare la nostra vacanza. Che fatica scegliere la meta… Tantissime offerte … alla fine abbiamo fittato una casa a Ischia per due mesi. Partiamo tra meno di 15 giorni.
<< Allora?>> mi chiede Jasmin
<< Cosa>> le rispondo,
<< Sei contenta, abbiamo scelto un posto pieno di sole, tranquillo e bello. Partiamo in traghetto?>>
<< Si, e ti ricordo che c’è anche un numero minimo di valige, non esagerare portati solo il minimo indispensabile>>
<< Ok, ho capito ma stiamo via per due mesi come faccio a portare solo una valigia?>>
<< Un modo si trova, e poi possiamo sempre fare shopping una volta che siamo ad Ischia>>
<< Hai regione, si è fatto tardi io vado a casa. Ci vediamo domani buonanotte>>
<>.
Capitolo 2

Il giorno della partenza è arrivato, è una bella giornata c’è un sole bellissimo. Come al solito Jasmin è in ritardo, sicuramente non avrà sentito la sveglia. Speriamo che non si sia portata troppe valige altrimenti non l’ha fanno imbarcare. Non vedo l’ora di partire, ecco vedo Jasmin in lontananza
<>
<< Si vieni sei arrivata in calcio d’angolo, mancano cinque minuti alla partenza. Quante valige ti sei portata?>>
<< Ho portato solo il minimo indispensabile>>
<< Si ho capito, ma il massimo di valige era due tu nei ha tre, dimmi ora come facciamo?>>
<< Tu hai solo una valigia. Come hai fatto a far entrare il minimo indispensabile per due mesi in una sola valigia? Comunque se tu ti prendi una mia valigia ne avrai due, e anch’io due quindi ecco risolto il problema>>
<< Va bene, faremo come dici tu, corri si stanno imbarcando non voglio perdere il traghetto>>
Iniziamo a correre per fortuna siamo ancora in tempo. Che bello sono su una barca e tra un po’ potrò rilassarmi.
Il traghetto è piccolo, ma comodo e poi il mare è calmo, il viaggio sarà bello e soprattutto tranquillo.
Vedo Jasmin con il suo capello di paglia che si rilassa sulla poltrona della nave, io preferisco ammirare la bellezza del mare, i gabbiani che volano sopra le nostre teste, il sole che splende nel cielo. Ormai siamo in viaggio da un paio d’ore, manca poco scorgo l’isola d’Ischia in lontananza. Giungiamo al molo, scendiamo prendiamo i nostri bagagli e ci dirigiamo alla casa che abbiamo fittato. Giunte alla casa c’è la proprietaria che ci aspetta per accoglierci.
<< Buongiorno ragazze piacere Megan, come è andato il viaggio? >> ci chiede
<>
<< Salve il piacere è tutto nostro>> le rispondo Ci fa vedere la casa e poi va via.

Capitolo 3

La casa è molto grande, ci sono quattro camere da letto, due bagni e un salone molto spazioso. La casa affaccia sul mare, c’è una vista spettacolare. Le camere da letto sono tutte molto grandi, io e Jasmin ci dirigiamo nelle nostre camere, disfiamo i bagagli. Una volta finito di disfare i bagagli, prepariamo la borsa, ci infiliamo i costumi che abbiamo preso uguali in un negozio e poi ci dirigiamo in spiaggia.
Abbiamo l’ombrellone numero 18 in seconda fila. Il mare è calmo come una tavola, non vedo l’ora di farmi il bagno e prendere un po’ di sole.
Poso la borsa sotto l’ombrellone, sento il telefono squillare, è Anna la direttrice dello studio medico dove lavoro.
<< Anna, buongiorno. Come mai questa telefonata?>>
<< Buongiorno Giulia, so che sei in ferie, ma hai due minuti per parlare? ti devo riferire alcune cose urgenti che non possono aspettare>>
<< Si, certo dimmi pure>>
<< Allora, la dottoressa per cui lavoravi ha cambiato città, siccome sei un ottima collaboratrice ha pensato di darti una promozione.>>
<< Davvero, grazie Anna, di che promozione si tratta?>>
<< Le serve qualcuno di fiducia a cui affidare la gestione dello studio, dovresti essere la vice direttrice, poiché a Settembre io non ci sarò per parecchi giorni e ho bisogno che qualcuno svolga il mio lavoro. Sei d’accordo?>>
<< Si grazie Anna, allora mi aggiorni tu nei prossimi giorni?>>
<< Si non preoccuparti. Ciao cara>>
Cosa? Ancora non ci credo, dovrò dirigere lo studio medico, tutti eseguiranno quello che gli assegnerò, è una giornata fantastica devo dirlo subito a Jasmin.
<>
<< Giulia calmati, spiegami cosa è successo>>
Mi calmo un attimino e le racconto della bellissima notizia che ho ricevuto. Jasmin è entusiasta per me, mi abbraccia e mi dice:
<< Sono felicissima per te amica mia, io l’ho sempre saputo che sei la migliore. Quindi sarai tu il capo?>>
<< Si quando Anna sarà assente, quando poi ci sarà farò da vice-capo, l’aiuterò con le faccende che non riesce a risolvere da sola. Spero solo di cavarmela e di fare un bel lavoro, non voglio deluderla mi ha assegnato un compito molto importante>>
<< Tranquilla non la deluderai anzi resterà sbalordita dalle tue capacità, ora devi solo rilassarti e divertirti che poi a Settembre starai tutta la giornata chiusa in un ufficio>>,
<< ha ha ha … molto divertente ora però sto morendo di caldo andiamo a farci un bagno?>>
<< ok andiamo, però non mi bagnare i capelli Giulia ho fatto la piega ieri >>
<< Non te lo prometto ma ci penserò>>
Capitolo 4

La sera decidiamo di uscire, andiamo a mangiare in un locale non lontano dal nostro appartamento. Dopo cena andiamo in un locale a “festeggiare” la mia promozione. Ancora non posso crederci che Anna abbia pensato a me per il lavoro da vice-capo di solito non mi rivolgeva neanche la parola, ma nella vita tutto può succedere.
Il locale dove decidiamo di andare è grande ed è arredato in stile caprese, ci sediamo in un tavolo e ordiniamo da bere.
Io e Jasmin prendiamo entrambe un analcolico. Il cameriere arriva dopo 5 minuti che abbiamo ordinato.
<< Ecco qua ragazze, per voi offre la casa>>
<< Grazie>> risponde Jasmin
<< Grazie ma preferiamo pagare>> rispondo io.
<< Come volete voi, allora vi porto il conto>>
<< Giulia perché? Avevamo i drink gratis. Ma si può sapere cosa ti passa per la testa>> mi chiede Jasmin
<< Jasmin, io non mi fido degli sconosciuti, e poi ti ricordo che siamo ragazze indipendenti non abbiamo bisogno di qualcuno che ci pagi due analcolici>> le rispondo.
<< Ecco il conto ragazze>>
<< Grazie paghiamo alla cassa?>> domando al cameriere
<< Si la cassa è subito dopo l’entrata>>
<< va benissimo grazie>>
Dopo che il cameriere è andato via Jasmin inizia a bere il suo drink e iniziamo a parlare:
<> mi dice
<< Si è un bel tipo ma non fa per me>>
<< Invece io credo che vi somigliate molto, ma non hai notato in che modo ti guardava?>>
<< No! Sinceramente non mi importa sono venuta qui per rilassarmi>>
<< Va bene come vuoi tu, ma sono sicura che ti farò cambiare idea, secondo me siete fatti l’una per l’altro >>
<< Non credo che cambierò idea molto facilmente, sai che sono testarda>>
<< Ok come vuoi tu ma non finisce qui, comunque si è fatto tardi che ne dici se andiamo a casa?>>
<< Hai ragione Jasmin andiamo a casa, domani ci aspetta una giornata di solo shopping>>
<< Finalmente domani andiamo in giro per negozi, ho tante cose da acquistare devo essere sempre alla moda>>
<< Vado a pagare, aspettami fuori, arrivo subito>>
<< Ok ti aspetto fuori>>
Faccio la fila per pagare quando mi accorgo che ho dimenticato la borsa al tavolo, corro verso il tavolo dove eravamo sedute e mi accorgo che non c’è. <>- penso. E’ tardi il locale sta per chiudere e poi c’è Jasmin che mi sta aspettando fuori. Come faccio potrei chiedere a qualcuno che lavora qui se ha visto la mia borsa, all’interno c’è il mio telefono e il mio portafogli con dentro i documenti e ora? Vado fuori e avviso Jasmin.
<>
<< OK pero fammi sapere, ti aspetto a casa>>.

Capitolo 5

Mentre vedo Jasmin allontanarsi rientro nel bar che ormai sta per chiudere chiedo al cameriere che ci ha servito i drink
<>
<>
<>
<< Si, un cliente mi ha portato una borsa al bancone. Mi può descrivere la sua borsa?>>
<>
<< Credo proprio che sia la sua borsa, se mi aspetta qui vado a prenderla, l’abbiamo portato nell’ufficio del capo cosi che nessuno potesse prenderla>>
<< Ok va benissimo aspetto qui>>
Che sollievo, ho ritrovato la mia borsa. Non mi preoccupavo tanto del cellulare, ma del portafoglio con dentro i documenti. Finalmente vedo ritornare il cameriere con la mia borsa tra le sue mani.
<>
<>
Uscita dal bar mi fermo per controllare che nel portafogli non manca nulla quando mi accorgo che all’interno c’è un foglio ripiegato in quattro parti con sopra scritto << Per Giulia>> non sapevo della sua esistenza, decido di aprirlo per leggerne il contenuto:
“Cara Giulia
Sicuramente ti starai chiedendo che cosa ci fa questo biglietto nel tuo portafogli, non è stato un caso che sei venuta qui in vacanza qualcuno l’aveva previsto. Non posso dirti ancora chi sono lo dovrai scoprire da sola.
Fatti guidare dalle onde del mare e dalla luce del sole, hai un compito molto importante. Tempo fa non lontano da Ischia c’erano sono delle vecchie rovine di un’antica civiltà che ormai si è estinta, queste rovine proteggono un tesoro che un giorno solo una vera ragazza che non si ferma difronte agli ostacoli anche quelli più ostili potrebbe ritrovare. Il compito è stato affidato a te e solo se ritroverai il tesoro saprai tutta la verità sul perché sei stata scelta. Sta ben attenta le rovine ti potranno ingannare, circondati di persone di cui ti puoi fidare per farti aiutare. Ti lascio la cartina che ti condurrà alla rovine, è l’unica copia al mondo, l’unica che potrà condurti alla verità e al tesoro.
Firmato
‘’ROY”
Ci mancava solo questo. Chi è Roy? E in che senso sono stata scelta? Scelta per cosa? Come fa a sapere il mio nome? Cos’è questa strana mappa?
Tante domande ma nessuna risposta. Mentre cammino per tornare a casa ripensavo a ciò che avevo letto poco fa. Di che civiltà si trattava? Quali rovine? Quale tesoro? .
Aprendo la porta di casa vidi Jasmin sul divano che mi aspettava e mi chiede subito della borsa.
<< Hai trovato la borsa?>>
<>
Quando Jasmin legge il biglietto rimane senza parole; le chiedo se sapesse che a Ischia ci fossero delle vecchie rovine ma non ne era a conoscenza. Decido di prendere il mio pc e di fare qualche ricerca insieme a Jasmin.
<>
<>
<< OK. Tempo fa esisteva una civiltà chiamata Giove che possedeva un tesoro di un valore inestimabile. Molti re provarono a sottrarglielo ma nessuno ci riuscì. Dopo molte guerre la città cadde a pezzi sotterrando il tesoro. Prima di andare via l’anziano del villaggio lasciò una lettera, destinata a una futura ragazza, l’iniziale del suo nome sarebbe stata una G, questa lettera passò di mano in mano fino a quando non sarebbe capitata nelle mani della ragazza designata a ritrovare il tesoro. La leggenda narra che la ragazza non andrà a recuperare da sola il tesoro ma con due suoi amici fidati, un maschio e una femmina. Le rovine sono pieni di misteri, tanti sono gli inganni e solo la ragazza potrà riportare alla luce l’inestimabile tesoro perduto ormai da molti decenni.>>
<>
<< Le leggende sono storie inventate sai che non sono vere>>
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<>
<>
<>
<>
<>.

Capitolo 6

La mattina seguente, dopo aver pensato per tutta la notte chi potrebbe essere questo amico fedele, decido di uscire.
Jasmin dorme ancora, io non ho chiuso occhio, infatti ho gli occhi gonfi. Faccio colazione nello stesso bar di ieri, ordino un caffè e un cornetto.
<>
<>
<>
<< È mai stato in campeggio?>> gli chiedo
<<< Vede io e la mia amica siamo alla ricerca del tesoro perduto della civiltà Giove, la leggenda narra che saranno tre ragazzi a ritrovarlo, due ragazze e un ragazzo. Lei conosce l’isola, vero? Mi chiedevo se potrebbe accompagnare me e la mia amica a visitare queste rovine.>>
<>
<>
<< D’accordo passerò nel pomeriggio>>
<>
Dopo aver finito di fare colazione, ritorno a casa per vedere se Jasmin si è svegliata, dopodiché andiamo in spiaggia dove le racconto di quanto successo al bar.
<< Forse sono stata un po’ sfacciata nel chiedere a quel ragazzo di venire con noi, non so nemmeno come si chiama.>>
<< OK forse sarai stata avventata, ma guarda il lato positivo hai trovato il ragazzo cosi possiamo partire per l’avventura che ci aspetta.>>
<>
<>
<>
<>
<< Nel pomeriggio passa anche il ragazzo, giustamente gli ho detto che gli avrei dato qualche informazione in più, dato che al bar sono stata molto vaga senza raccontargli tutti i particolari>>
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<>
Dopo pranzo torniamo a casa, aspettiamo che arrivi il ragazzo per fornirgli tutte le informazioni necessarie per affrontare al meglio, quest’avventura. Sento suonare il campanello, va Jasmin ad aprire la porta, dato che io sono in cucina a versare nei bicchieri un po’ di tè freddo,
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<>
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<< Grazie di essere venuto, prima di comunicarci la tua decisione lascia che ti spiego il perché di quest’avventura.>>
Gli racconto tutta la vicenda e di come sono venuta a conoscenza di questo tesoro perduto.
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<< Le tende da campeggio arriveranno a momenti il tempo di fare una scorta di cibo e poi possiamo anche partire, credo partiremo dopodomani.>>
<>
<>
<>
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Jasmin lo accompagna alla porta, mentre io inizio a fare la spesa online cosi che ci arrivi direttamente a casa.
<> la chiamo << mi raccomando siccome andremo dove ci sono le vecchie rovine non portarti i tacchi alti altrimenti starai scomoda, portati una tuta e delle scarpette da ginnastica qualcosa di comodo>>
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<>
<>
<>
<>
Mentre Jasmin va a ritirare le tende io mando il messaggio a Leonardo.

Capitolo 7

Arrivato il giorno della partenza ci incontriamo con Leonardo vicino al bar.
Una volta arrivati al luogo delle rovine prendo la mappa per capire in che direzione andare.
<> mi chiama Jasmin
<>
<>
<>
<> ci dice Leonardo <>
<>
<>
La strada sembra infinita ci impieghiamo tutta la mattinata per arrivare dall’altra parte delle rovine. mangiamo un panino al volo e poi ci rimettiamo in cammino.
Il sole iniziava a calare e così decidiamo di accamparci.
La mattina seguente ci siamo messi nuovamente in cammino, abbiamo girato a destra, a sinistra ma nulla da fare le rovine sembravano sempre le stesse non sapevamo dove andare.
<> ci chiama Leonardo << venite ho trovato un biglietto>>
<> gli dico
<< Sopra le rovine c’è il cielo, seguite ciò che vi dice il vostro cuore, andate dove vi porta, ma state attenti, G. mi riferisco a te colui che guarda le rovine della terra protegge il suo amato tesoro: guarda il guardiano con occhio fugace le stelle che brillano sul luogo incantato...
ROY>>
Rieccoci di nuovo, chi è Roy? E cosa vuole ancora da me? Chiunque sia Roy è stato qui, e se è lui il guardiano? Ma se il guardiano deve proteggere il suo tesoro perché mandarmi la lettera con le indicazioni delle rovine?
<< Siamo appena arrivati e già partiamo con questi enigmi>> dico ad alta voce
<> domanda Jasmin
<< Non saprei, però credo che questi strani bigliettini ci porteranno alla soluzione!>> esclama Leonardo
<< Si ma consultando la mappa, le rovine si dovrebbero trovare in cima a una piccola collina, ma io non vedo nulla>>
<< Giulia devi stare tranquilla vedrai che troveremo il modo di arrivarci>> mi rassicura Jasmin << E poi può darsi che ci si arriva attraverso dei passaggi segreti, nella lettere questo Roy ci dice che le rovine possono ingannare quindi sta a noi trovare la soluzione. Potremmo provare ad usare un pizzico di fantasia>>
<>
<< Hai solo seguito il tuo istinto, per una volta fidati di te stella Giuli, se sei stata scelta per questa missione significa che sei tu la persona giusta.>>
<< Si, ma tutto questo non ha senso, ci dev’essere un altro indizio che ci porti magari da qualche parte sembra che stiamo girando in tondo da quando siamo arrivati ieri>>
<< Giulia, Jasmin guardate, ci sono delle piccole impronte>>
<> domando
<< Proprio qui, incamminiamoci verso questa direzione>>
<< Jasmin vieni>>
<< Arrivo>>
Finalmente qualche traccia di qualcosa, ma ancora non trovo un filo logico, dieci minuti prima non c’erano, come mai sono apparse solo ora? Forse non ce ne siamo accorti.
<> gridiamo tutti e tre.
Ci giriamo e vediamo chiudersi una porta dietro le nostre spalle. Siamo finiti in un labirinto, come Alice nel paese delle meraviglie, peccato che quella è una fiaba inventata, invece noi ci troviamo in un vero labirinto.
Ci incamminiamo sperando di riuscire a trovare la via d’uscita ma nulla da fare. Dobbiamo stare uniti, altrimenti rischiamo di perderci e non è proprio il caso. Perché mi sono fatta convincere da quella stupida lettera, e in più ho coinvolto anche la mia migliore amica e un ragazzo che conosco appena. Vorrei poter tornare in dietro nel tempo per far sì che tutto questo non fosse mai successo. Ma non siamo nelle favole, devo affrontare la situazione, posso farcela ho solo bisogno di riflettere. Non ne posso più di questo labirinto, è enorme devo restare calma forse per uscire c’è una porta, qualcosa magari dobbiamo risolvere qualche enigma.

Capitolo 8

<< Giulia!>> mi chiama Jasmin
<> domando impaziente di sapere il perché mi ha chiamato con tanto entusiasmo.
<< Guarda questi sassi>>
<< Sono sassi, non hanno nulla di speciale>>
<> interviene Leonardo <>
<> rispondo
<> domanda Jasmin
<> dice Leonardo
<< Quindi è una parola formata da quattro lettere, bisogna solo trovare la combinazione giusta>>
<>
<> risponde Leonardo
Dopo che abbiamo messo in ordine le parole in modo corretto, vediamo il labirinto scomparire sotto i nostri piedi. Il labirinto dove fino a poco fa eravamo intrappolati ora non c’è più, scomparso cosi come per magia.
Questo posto è strano iniziamo a sospettare che sia un luogo occulto. La paura e l’angoscia iniziano a prendere il sopravvento su di me, mentre noto che gli sia Jasmin che Leonardo sono quasi divertiti e spensierati.
Leonardo è molto timido e silenzioso, non parla quasi mai. È un ragazzo sulla ventina d’anni alto, magro e con i capelli color nocciola
Prendo la mappa dal mio zaino per vedere se ci sono altre indicazioni.
Apro la mappa quando vedo una vecchia bottiglia seminascosta in un cespuglio che contiene un biglietto.
<> esclamo <>
<> mi incita Jasmin
<< Congratulazioni avete superato il primo ostacolo, la parola voce vi guiderà. Se ascoltate attentamente sentirete una voce che vi guiderà per tutto il percorso, fidatevi di lei. Non è cattiva, anzi vi vuole aiutare a ritrovare il tesoro ormai perduto. Vi rimangono solo altri 3 ostacoli da superare per arrivare alla soluzione finale. Solo se formerete una vera squadra riuscirete a vincere.
Firmato
ROY>>
Rieccoci di nuovo con questo ROY.
<> esulta Jasmin
<> dice Leonardo.
<> chiedo a Jasmin e a Leonardo.
<>
<>
<< Va bene proseguiamo dritto, anche se il sole sta per calare >>
<> ci domanda Leonardo
<> le domando,
<> chiede Jasmin.
<>
<>.
Accendiamo un fuoco e mangiamo le salcicce.
Dopo cena Leonardo va a dormire, mentre io e Jasmin restiamo stese ad osservare le stelle.
Le stelle mi hanno sempre affascinato, perché riescono a trasportarti nel mondo dei sogni, un mondo dove puoi essere te stessa senza curarti troppo della tua immagine.
La mia immagine riflessa tra le pagine della mia vita, una vita fatta di pregiudizi, impegni, paure e delusioni.
Stasera qui ,invece, davanti a questo fuoco con Jasmin che mi siede accanto e questo immenso oceano blu costellato di stelle mi sembra che quelle pagione scritte, vissute o subite si siano disperse nei meandri della memoria… mi resta solo un pensiero …adesso voglio…
<>
<>
Mi alzo e cerco di sfuggire al suo sguardo penetrante e curioso e con voce flebile le dico:<< Andiamo a dormire?>>
<>.
Caipitolo 9

La mattina seguente facciamo colazione, subito dopo ci mettiamo in cammino e prendiamo un sentiero lungo la riva del fiume.
Il panorama è bellissimo, si scorgono gli uccelli migratori in lontananza e il luccichio di un piccolo fiume abbaglia la nostra vista. Un leggero venticello soffia sui nostri visi regalandoci una piacevole sensazione di fresco. Tutt’intorno la lussureggiante vegetazione colora l’intero paesaggio. Verde scuro, verde chiaro, l’azzurro del cielo e il bianco delle nuvole scandiscono forti emozioni e ognuno di noi cerca di catturare la bellezza che ci circonda. A un tratto Leonardo ci invita a fare un bagno nel fiume. Accettiamo con molto piacere e come piccoli bambini ci tuffiamo con tutti i vestiti in quelle chiare e fresche acque. Jasmin inizia per prima a schizzarmi e a trascinarmi in una gara di nuoto. Dopo aver nuotato per più di mezz’ora decidiamo di uscire dall’acqua e ci sdraiamo al sole come lucertole.
Non so per quanto tempo siamo stati li perché quando aprii gli occhi il sole oramai stava tramontando. Scorsi Leonardo in piedi davanti ad un falò e Jasmine che stava preparando le tende
<> mi invita Leonardo.
<>. Mentre mi avvicino sono colpita da dei fiori spettacolari.
<>
<> dice Leonardo che conosce bene l’isola<< Che strano.
Guardate laggiù ragazze. Lì su quell’altura sorge il Castello Aragonese, detto anche Castrum Gironis, dal nome di Gerone da Siracusa, che arrivò sull’isola nel V secolo a. C. >>
<>
<> ci racconta Leonardo
<< Io invece so che il Castello nel 1574 fu donato da Beatrice Quadra a delle suore. Nei sotterranei fu realizzato lo scolatoio dove i cadaveri delle monache venivano lasciti scolare di tutto il sangue e poi deposti in un loculo. Ancora oggi si sentono i passi dei fantasmi che vagano lungo i corridoi dei sotterranei del castello.>> interviene Jasmin
<>mi rivolgo a Jasmin
<< Hai ragione forse è un po’inquietante, però le leggende sono storie inventate>>
<>
<> .
Mangiamo intorno al fuoco e continuiamo a raccontare storie di fantasmi e di donne innamorate e piano piano ci addormentiamo.
I racconti di Leonardo sono molto avvincenti, proprio come quelli di Salvo che tanto tempo fa d’estate, in spiaggia di notte davanti ad un falò, con la sua chitarra, allietava la mia adolescenza. Come erano belli quei tempi, spensierati, gioiosi, e anche un po’ malinconici.
Io immersa nei miei ricordi e le risate frastornanti di Jasmin e Leonardo che rompono il silenzio della notte.

Capitolo 10
<> dice Jasmin
<> le rispondo.
<> dice Leonardo.
< mi alzo con fatica e li seguo.
Mentre scendiamo lungo una vallata mi accorgo che lo zaino di Jasmin è aperto.
<>
<>.
Squilla il telefono di Leonardo << Pronto? Chi Parla? Si sono io. Ah ciao Catrine come stai? No non sono a casa …non posso…va bene ok….vediamo poi dai, adesso devo andare>>.
Dopo la telefonata notiamo che il suo stato d’animo è cambiato. Chissà chi era? Penso. E poi perché dovrebbe interessarmi?
Ah e pensare che volevo rilassarmi e mi ritrovo qui in mezzo al cuore dell’isola che penso a …
Ok basta.
<> urla Jasmin.
Che meraviglia !! oltrepassiamo le prime rovine, colonne spezzate, mura di cinta interrotte da un crollo.
Tutt’intorno c’è silenzio. Inciampo su un sasso spigoloso e cado.
<> esclamo.
Leonardo si precipita verso di me e con modi gentili mi aiuta a rialzarmi, Jasmin accorre preoccupata ma quando mi ritrova nelle braccia di Leonardo inizia a ridere << Ehi ma non eri tu la vera indiana Jones?? Che carini!>>.
<>.
Noto con imbarazzo che Leonardo mi fissa e sorride <> mi dice.
<> <> .
<>
<> chiedo ancora dolorante
<>
<> ribadisce Jasmin.
Be vuol dire che siamo audaci, penso, anzi dei veri e propri esploratori.
<>.
<>
Drin drin drin. <>.
Mentre chiudo la telefonata mi accorgo che sono da sola, Jasmin e Leonardo sono entrati all’interno del castello. Li raggiungo e noto sul muro una strana incisione a forma di freccia.
<>
<>
<>.
Ci incamminiamo lungo un piccolo cunicolo. Man mano che andiamo avanti si sente un flebile lamento. Presi dallo spavento iniziamo a correre ma non riusciamo più a ritrovare la strada percorsa. Io e Jasmin ci stringiamo le mani mentre Leonardo cerca di rassicurarci, intanto il debole lamento adesso si è trasformato in un miagolio << c’è un gattino, guardate>>.
Leonardo corre verso quel piccolo cucciolo intrappolato in una piccola buca. Lo prende in braccio e dice << Poverino, come sarà arrivato qui? Hei guardate ha una medaglina al collo>>
<> gli chiedo,
<>.
<>
<>. Che noia, penso invece, io non amo affatto i gatti, anzi in realtà non mi piacciono proprio gli animali.
E poi che nome è heart… cuore… cuore…
Questa parola mi ritornava nella testa, ad un tratto grido
<< Cuore! Ecco!>>. Leonardo e Jasmine si fermano e mi guardano sbalorditi.
<>.
<> chiede Leonardo
<>
<> esclama Jasmine.
<>.
<Resta da capire chi è Roy>>
<< si può essere – dice Leonardo- ha un senso. Ma secondo te che c’entra con il castello e le rovine?>>
<>.
Dopo un po’ di giri riusciamo ad uscire dal cunicolo oscuro.
La luce abbaglia la nostra vista e l’odore del mare inebria il nostro respiro. Che bello! Che meraviglia della natura. Cerco di fissare questa immagine nella mia testa perché so che tra un po’ di tempo lascerò tutto, Jasmin, Leonardo e adesso anche il piccolo heart. Devo dire che da quando c’è heart, sto iniziano ad amare gli animali, alla fine sono cosi piccoli e cosi carini. Peccato che tra un po’ tutto questo finirà ed io tornerò alla mia vita monotona.
Seguiamo heart, senza rendercene conto ci ha condotto direttamente alle rovine, ma tutto questo mi sembra ancora strano, Roy nella lettera parla di tre ostacoli per arrivare alla soluzione finale. Le rovine sono enormi continuiamo a seguire heart.
<> chiedo a Jasmin e a Leonardo
<> mi chiede Jasmin
<>
<> interviene Leonardo
<> esclamo
<> domanda Jasmin
<> dice Leonardo
<>.
Improvvisamente vedo svanire tutto intorno a me.
<> mi sento chiamare<>
<> risponde Jasmin
A casa? Ma come? Non oso chiedere nulla di più , ho la testa che mi fa male e non riesco ad alzarmi.
<>
<> le chiedo
<>
“Cari ragazzi, siete riusciti a trovare una piccola parte del tesoro, le avventure non sono ancora finite. Quel tesoro che avete trovato non è il vero, continuate a lavorare insieme aspettatevi molto presto altre mie notizie
FIRMATO ROY
<> chiedo a Jasmin
<> dice Jasmin
In serata passa a trovarci Leonardo.
Saluto con un forte abbraccio Leonardo, so che domani non potrà accompagnarmi al porto. Mentre ci stringiamo sento il mio cuore battere più forte e presa dall’imbarazzo mi allontano.
Il suo sguardo e il suo dolce sorriso mi turbano ogni giorno di più…chissà cosa sarebbe successo se avessi prolungate le vacanze-
La mattina seguente Jasmin mi sveglia di buon ora e insieme ci dirigiamo al porto. Prendo le valige ma mi accorgo che mancano quelle di Jasmin.
<>
<>
Non mi aspettavo una cosa del genere? Perché mi ha tenuto nascosta questa cosa? Guardo la mia amica e quasi non la riconosco, lei che ama i tacchi alti, gli abiti eleganti, un trucco perfetto adesso preferisce le scarpe basse e in viso pulito.
<Mi raccomando fammi sapere di questo lavoro>>.
Ci salutiamo con un forte abbraccio e un bacio sulle guance.
Mentre il traghetto si allontana vedo scomparire il volto di Jasmin, e con esso la vacanza trascorsa insieme.
Mi allontano dal mio posto e inizio a passeggiare sul ponte del traghetto. Non sono serena. Ripenso a Leonardo e a Jasmin. Ripenso ai miei sguardi fissi sul volto di Leonardo e avverto un po’ di fastidio al pensiero che Jasmin sia li con lui.
Mi impongo di non pensare ad altro.
<>
<Dopo un po’ di tempo il mio sguardo è catturato da un velo nero, mi giro e resto basita …
<>
<>. Rispondo
Subito il mio pensiero va alle leggende del castello Aragonese, ripenso alle mie vacanze rilassanti e sorrido.
Suor Gabriella mi guarda e dice<< vedo che è contenta, deve aver avuto una buona giornata, il suo piccolo cuore è pieno di felicità , se posso darle un consiglio vada diritta alle sue emozioni>>-
Annuisco con cortesia. Come fa a sapere delle mie emozioni? Il suo sorriso mi turba non rieso a staccare lo sguardo dai suoi occhi azzurri, mi volto e con gentilezza mi alzo e mi allontano.
Il sapore dell’estate, di questa estate pervade i miei sensi. Sicuramente non finirà …

Targa offerta dall’Assessorato alla cultura del Comune di Asti.
Assessore Gianfranco Imerito
Frontino Christian di Asti per il libro “Una francese a Torino”
Metropoli Pietro da Padova per la poesia “Mulattiera”

Targa Pasticceria Daniella
Riva Anna Maria da Marene (Cn) per la raccolta di poesie “Fiocchi di neve”

Targa offerta dal Dott. Giovanni Boccia
Ros Nicolina da S: Quirini (Pn) per la poesia “Anamnesi”
Sorba Renata da Asti Per il libro “Io vivo …e tu?”

Targa Lions Club
Angelo De Marco da Messina per il libro “La battigia dei naufragati”
Vador Luigino da S: Quirini (Pn) per il racconto “Un fiume di preghiere”

Targa offerta dal presidente del Circolo Waia Assauto Dott. Piero Amerio
Mara Clara De Masi da Casarano (Le)con il libro: ““Le mie radici i miei affetti”
Maria Puntillo – da Bernalda (Mt) con il libro: “Nel mio presente i ricordi del passato”

Premio Sez. Giovani della Comunità S. Giuseppe “Sereni Orizzonti” 1 di Rocchetta Belbo, raccolti dalla Dott.ssa Vittoria Finizza
Sabrina Perla, Francesca Mangariti, Michele Caristi, Davude Beniamini, Sharon Brunamonti
Medaglia di bronzo come premio di rappresentanza offerta dal Presidente del Senato della Repubblica Italiana a
Giovanni Macrì da Messina, quale assiduo partecipante al concorso “V. Alfieri” di Asti

 

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