DOCUMENTAZIONE

 

 

30/09/2019

18° CONCORSO NAZIONALE DI POESIA E NARRATIVA "VITTORIO ALFIERI"

 

Sez. poesia in lingua italina
1°classificato: “Cherso, mia patria” Baccino Pietro da Savona
Motivazione: testo configurato come doloroso ricordo della fuga precipitosa dalla terra d’origine, l’esilio imposto da vili e antiumane considerazioni di parte politica, cui si contrappongono le immagini limpide degli anni giovanili, vissuti in libertà di espressione di sentimenti e pensieri.
Cherso, mia patria

Era di maggio, tempo di barbarie.
La falce della guerra si abbatteva
su gente senza colpa, tranne quella
di frequentare un idioma sgradito.
Era di maggio, e il padre a dorso nudo,
lo sguardo opaco senza il pince-nez,
segnato a sangue dalle mani ostili
e sommerso dall’odio si smarriva
nel buio di un andar senza ritorno.
Di lui ci resta una fotografia
e ricordi da bimbi, e il suo sorriso
se ci osservava cavalcare il mulo
e i giorni della festa, quando ognuno
nel calor della casa
scioglieva la sua gioia.
Niente più. Poi la fuga nella notte
sul bragozzo per Pola, ed era maggio
quando crollava un mondo e salutavo
l’isola patria per l’ultima volta
e gli affetti infantili frantumati.
E solo nei frammenti
della memoria rivivo quei giorni
e mi sovviene il sapore mielato
degli acini dorati sotto il sole,
i fichi dolci reclini sul ramo
e l’aroma di salvia e rosmarino.
Era di maggio, quando mi han rubato
il futuro possibile e la casa,
la cisterna del tempo di Colombo,
la nonna che affacciata alla finestra
mi sorrideva dolce, il giardinetto
della magnolia dalle foglie lucide
e i pesci rossi nella vasca tonda.
E’ lontana nel tempo e nello spazio
quest’isola, che torna alla memoria
quando accarezzo l’onda leggera
e ripenso alla tenue trasparenza
del mare che ho lasciato, alla ghiaia
di lucido calcare levigato,
alle reti approntate per la pesca.
E vedo ancora, con gli occhi d’allora,
i muri a secco e gli ulivi d’argento
nutriti dall’argilla, e nei recinti
pecore in cerca di un cibo povero.
E poi non vedo più, perchè si bagna
di lacrime lo sguardo, e mi abbranca
l’animo il desiderio del ritorno.


2°classificato: “Pagine d’acqua” di Cattolico Paolo da Milano
Motivazione: curioso ed elegante resoconto della biodegradazione di un sentimento, per la perdita in acqua di un diario poetico-amoroso, di pagine comunque camuffate e a disposizione dell’amata nella trasposizione dell’elemento equoreo.
Pagine d’acqua

L’album di poesie d’amore, quasi ultimato
cadde di mano e… pluff,
dallo stagno dormiente
fu ingoiato.
Quando lo ripescai, era troppo tardi;
l’inchiostro s’era ormai biodegradato
e le parole che volevo regalarti
sguazzavano, disciolte, nel bagnato.
L’acqua mi consolò… spiegando che i miei versi
erano ora nel dolce sussurro dei ranocchi,
in brividi di ninfee, vibrar di tife, e non più persi…
anche se ormai invisibili ai tuoi occhi.
Adesso, amore, quando vieni a fare il bagno,
so che il mio libro ti aspetta, camouflé…
ed a ogni tua bracciata, nello stagno,
sfogli pagine d’acqua, scritte per te.


3°classificato: “Foglie d’Africa” di Bianco Giuseppe da Casoria (Na)
Motivazione: intenso memoriale complessivo della dolorosa vicenda delle migrazioni, costruito con ricca immaginazione metaforica che rende vibrante e presente il dramma dello sfruttamento e della disperata ricerca di una condizione dignitosa.
Foglie d'Africa

Sono la foglia d'Africa che cadrà
lontano dal suo albero, spazzata dal vento
che non lascia libertà ai vinti.
Negli addii l'unica certezza
prima di dileguarmi nella notte australe.
Stretto in pugno il pane dei fratelli
nel silenzio acceso dalla speranza cieca.
Sciamano le foglie in fuga dalle maschere
dei predoni sanguinari,
alla ricerca del varco
lungo la deriva dell'inferno.
Arterie di negrizia ininterrotte corrono
sul cuore martoriato d'Africa,
tra piaghe inferte al petto
dallo scèlo bianco che muta pelle
ed avvelena pozzi.
Migrano le gazzelle braccate nel terrore,
cadono sui sentieri dell'arsura,
nella babele di campi brulicanti,
sui giacigli polverosi della transumanza
volte in preghiera al firmamento
di notti cristalline, vivide stelle
di nostalgia che molce l'ansia,
implorata cometa di offuscati occhi
che segna liquida l'opposta sponda.
“ Il cammino infinito dissuga
la linfa degli avi, più non ricordo
da che parte sia l'abbraccio
del mio virente albero, nessuno sa
che appartengo all'orgogliosa fronda”.
I fiumi gravidi di rivoli esalano nel mare.
Il vento sferra dove il destino vacilla
involto dalle oscure onde.
Stenta l'elica alle minacce degli empi.
Trasale di tragedia il coro d'anime
attinte al lembo avito, negoziato il pane
vìncido dei cari per lo straripante
pàmpino ridotto alla deriva.
Temeraria, indicibile follia emergere
dal ventre flagellato d'Africa,
... or non può essere lontana l'alba,
l'isola salvifica del nuovo mondo !
In mare aperto non bastano le braccia
per aggrapparsi al cielo, estremo
anelito di vite senza nome.
Il Dio dei nembi non lancia cime
alle foglie d'Africa minacciate,
trascinate, mulinate, annientate dal gurgite
della tempesta scevra di misericordia.
Il viaggio dal volto dismesso del sud
del mondo finisce di schianto negli abissi.
Squarcia il miraggio il grido estremo
sull'atro strapiombo dell'inganno.
Cadono le innocenti foglie all'addiaccio
d'acque amare, reciso é il cuore
dal perenne autunno che non ha
rimpianti del randagio strame.
Non hanno voce le vittime neglette
della tardiva Storia, nessuno le richiede,
cercavan luce nel vanente sogno
e s'inabissano cieche all'ultimo orizzonte.
Riprende il coro delle trenodìe
nell'assordante rimestìo degli elzevìri,
rullano tamburi, breve infuria libeccio
sul gorgoglio delle coscienze alterne.
Poi livido si richiude il mare della sera
nel silenzio smagato di comete eterne.
Sarà un martirio anche l'oblio,
senza memoria non c'è più dolore.
Piove sul Mare delle tradite civiltà.
Le foglie d'autunno non si contano.


Testi segnalati:
“O’ ciuccio” di Avellino Salvatore da Foligno
“Ti porteremo il mirto e la ginestra” di Mugnano M. Carmela da Roma
“A te” di Lazzeri Daniela da Torino
“Errore” di Puccetti Ginevra da Lucca
“Papà” di Lanno Salvatore da Milano
“Cuore di vegliardo” di Liberatore Elisabetta da l’Aquila
“La rondine d’acciaio” di Sarto Massimiliano da Venezia

Sez. narrativa in lingua italiana
1° classificato: “Io: il piacere di potermi librare felice in volo”
Di Giuseppe Macrì da Messina
Motivazione: Testo che elabora la difficile esperienza della sindrome di Asperger, in un percorso scandito da tappe della liberazione, fisica, emotiva, psicologica, in ragione di una disamina lucida delle caratteristiche della malattia e della lotta sostenuta per affrontarla.
Io: il piacere di potermi librare felice in volo
“Tutto è energia e questo è tutto quello che esiste. Sintonizzati alla frequenza della realtà che desideri e non potrai fare a meno di ottenere quella realtà. Non c'è altra via. Questa non è Filosofia, questa è Fisica!”.(Albert Einstein)
Un tipo sta volando in mongolfiera e si perde. Si abbassa sopra un campo di granoturco e grida a una donna: “Sa dirmi dove sono e dove sto andando?”. 
“Certamente” - risponde la donna - “È a 41 gradi, 2 minuti e 14 secondi a nord, 144 gradi, 4 minuti, 19 secondi a est; è a un’altitudine di 762 metri sopra il livello del mare, e in questo momento sta volando a punto fisso, ma era su un vettore di 234 gradi a 12 metri al secondo!”.
“Sorprendete! Grazie! A proposito, lei ha la sindrome di Asperger?” - chiede l’uomo.
“Sì!” - risponde la donna - “Come fa a saperlo?”.
“Perché tutto quello che ha detto è vero, è molto più dettagliato di quanto occorre e me l'ha detto in un modo che non mi serve affatto!”.
La donna aggrottando la fronte, replicava: “Uh! Lei è uno psichiatra?”.
“Sì!” - risponde l’uomo – “Ma come diavolo l'ha capito?”.
“Lei non sa dov’è! Non sa dove sta andando! È un pallone gonfiato, perché etichetta gli altri dopo aver rivolto loro soltanto qualche domanda, ed è esattamente nello stesso posto di cinque minuti fa, ma adesso, non si sa come, è colpa mia!” – ribatteva la donna.
(Jodi Lynn Picoult

Il mio viaggio verso “il piacere di potermi librare felice in volo”, è iniziato poco prima del mio secondo compleanno, quando i miei genitori notarono che il mio modo di parlare non si stava sviluppando come i miei coetanei, iniziando così a notare le differenze tra me e gli altri bambini della mia età.
Le persone che mi vedevano erano solite dire: “È un bravo ragazzo, è così tranquillo!”.
Il mio silenzio divenne però, a un certo punto della vita, una preoccupazione! Al festeggiamento del mio primo compleanno, mentre gli altri bambini balbettavano e si salutavano a vicenda, io vivevo il mio solito silenzio.
Ero e vivevo nel mio mondo e non rispondevo neanche quando mi chiamavano per nome!
Allarmati da questo mio comportamento, mio padre e mia madre fecero in modo che la mia pediatra venisse a vedermi, sperando che lei dicesse loro qualcosa come… “Siete dei genitori troppo apprensivi, mi avete fatto venir qui per nulla!” … e che tutto fosse nei parametri giusti per la mia età e che stavo bene.
Non doveva esserlo! Era solo a casa nostra da un paio di minuti che un’espressione preoccupata si impadronì del suo viso. Lei iniziò a visitarmi, a farmi domande e subito si rese conto, azzardando una diagnosi, che potevo essere affetto dalla sindrome di Asperger, insomma che potevo essere… autistico, senza tuttavia presentare compromissione dell’intelligenza o della comprensione e dell’autonomia.
I miei genitori, nel sentire questa diagnosi, questa sentenza, l’aver riconosciuto in me un nemico mostruoso con cui avrei dovuto conviverci a vita, se fosse crollato sopra loro il soffitto, avrebbe fatto meno male. Scoppiarono in lacrime non appena iniziò a parlare di questo mio possibile, anzi per lei certo problema.
“Lei è fuori di testa, come può dire che nostro figlio ha la sindrome di Asperger? Albert risponde quando lo chiamiamo e non ha quello sguardo spoglio e vuoto nei suoi occhi che è “tipico” di un bambino con l’autismo!” - rispose deciso e in malo modo, mio padre.
Allora, i miei genitori erano molto ignoranti sull’autismo e non si rendevano conto che c’era uno spettro così grande e vario all’interno della stessa malattia, e iniziarono a gridarle in faccia e a chiunque altro che avrebbe potuto ascoltare che… si sbagliava!
“Capisco che la mia diagnosi vi abbia traumatizzato, ma dovete sapere che l’autismo è un “disturbo dello spettro”, nel senso che i bambini che ne sono affetti mostrano sintomi che vanno da lievi a gravi! Vostro figlio al momento ha solo dei sintomi lievi! Poi fate voi, questa è la mia diagnosi!” - ribatté la pediatra, anche un po’ offesa dal fatto che la sua valutazione fosse stata messa in dubbio.
Anche se non era una esperta nel settore, aveva, infatti, potuto appurare che qualcosa in me non andava e consigliò subito un centro specialistico proprio per questa sindrome e per farmi sottoporre a una più attenta e competente valutazione.
Giustamente non paghi della diagnosi della mia pediatra mi hanno portato al nosocomio della mia città, al centro di pediatria. Qui loro sono stati rassicurati da un neurologo di non preoccuparsi, giacché ero ancora molto giovane e attendere solo per vedere come sarebbe evoluta la questione. Sfortunatamente e anche stupidamente loro si sono aggrappati alle parole di questo “luminare” per i successivi 18 mesi e hanno rifiutato di ascoltare o credere alle preoccupazioni di qualcun altro (più preparato) sul mio sviluppo. Ci sono stati momenti in cui erano veramente preoccupati e disperati, ma continuavano a rassicurarsi su quello che aveva detto il neurologo del nosocomio locale.
Sebbene fossi un bambino in fondo dolce, non interagivo molto con gli altri bambini della mia età, non riuscivo a stabilire un contatto visivo o a sorridere e non volevo soprattutto essere toccato. Non mi piaceva essere coccolato e non mostravo il desiderio di essere preso in braccio.
Crescendo, non rispondevo all’affetto fisico manifestato dai miei genitori o da qualche parente o loro amico che veniva a casa. Mi mancava l’empatia e tendevo a fissare molto le persone. Mostravo qualche problema con certi cibi e parlavo poco usando pochi termini e anche molto semplici, parlavo con una voce monotona, con frasi spezzate e frammentate e mi riferivo a me stesso in terza persona.
Quando compii tre anni, i miei genitori mi iscrissero in un asilo comunale. Le maestre erano di vecchia scuola, nel senso che se vedevano un bambino avere dei deficit, la loro risposta era quella di arginare, emarginare il problema, e questo rese solo meno vantaggioso il mio percorso!
Dovetti abbandonare o meglio i miei genitori dovettero riportarmi a casa quasi subito, anche perché le strutture per l’infanzia non accettano i bambini che non sono addestrati al vasino.
Parlavo di me in terza persona! Sconoscevo le parole… io, tu. Quando volevo il latte, andavo al frigorifero e dicevo: “Mamma vuole il latte?”. Combinavo nella mia richiesta chiedendo a lei del latte, domandandole se era lei a volere del latte. Mia madre poverina, provava a correggere queste mie espressioni e cercava di lavorare con me su queste, senza che io avessi alcuna comprensione di ciò che stava provando a insegnarmi.
Ero attirato, restandone quasi ipnotizzato, dalle luci lampeggianti, i ventilatori a soffitto e gli oggetti scintillanti.
Alla fine, quando avevo 3 anni e mezzo, i miei genitori finalmente si son decisi che io fossi valutato da un esperto di consulenza specifica e la relazione clinica che hanno ricevuto è stato un quadro orribile. Non avevano ancora accettato che potessi essere autistico, ma ora erano disposti a permettere che fossi visto da pediatri, logopedisti ecc., gente qualificata e non “luminari” di periferia del quarto mondo!
Fui sottoposto, da quel momento, a una serie di test per la parola, la lingua e le abilità sociali. Il dottore ha parlato con i miei genitori e ha trascorso del tempo lavorando con me e osservandomi. Anche se erano pronti per le notizie più catastrofiche, era ancora molto, molto difficile per loro ascoltare una diagnosi di… “autismo”
Purtroppo questa, fu per loro terribile, non altro che una conferma alle domande che in tutti gli anni avevano continuato a porsi: “Vostro figlio è affetto da autismo! Ha un disturbo dello spettro autistico e un disturbo dell’integrazione sensoriale - proseguendo - Dovete sapere che l’autismo, l’ASD, (Autistic Spectrum Disorders), è un “disturbo dello spettro”, nel senso che i bambini che ne sono affetti mostrano un disturbo dello sviluppo che causa problemi sociali e di comunicazione. Vostro figlio Albert, che è all’ultimo stadio dello spettro di funzionamento, ha un’intelligenza superiore alla media, ma evidenti problemi sociali, comportamentali e linguistici. All’età di 4 anni, ha un vocabolario di poco più di 20 parole, quando i suoi pari sono chiacchieroni e ha problemi con la sua memoria; non riesce nemmeno a ricordare i nomi dei membri della vostra famiglia!”.
Anche se, al momento della diagnosi, loro sapevano che il centro mi avrebbe potuto accogliere nella struttura, quando sarebbe arrivato il mio turno, quando si sarebbe liberato un posto, per cominciare a darmi tutto l’aiuto necessario perché potessi iniziare a fare i primi passi in quel percorso lungo e difficile, erano distrutti ugualmente dentro. Sarei dovuto rimanere nelle liste d’attesa! Al momento segnalarono loro solamente un gruppo di supporto locale esterno e nient’altro!
Si allontanarono dal centro, sentendo il bisogno di tornare a casa almeno con qualche medicina per farmi stare meglio, ma ovviamente non esiste una cura farmacologica per l’autismo! Il loro cuore era stato spezzato e non potevano nemmeno sopportare di dire a parenti stretti e amici quello di cui ero affetto. Timidamente però, superando quello stato di paura, di vergogna che li attanagliava, sì di vergogna, come se la mia malattia fosse dipesa da una loro colpa, iniziarono a coinvolgerli, spiegando loro le piccole informazioni che conoscevano sull’autismo in quel momento. Quello che era stato detto loro dai “veri specialisti”. Per fortuna la mia famiglia, i miei parenti più prossimi, in qualche modo ci hanno sostenuti e tutti sono diventati sempre più desiderosi di imparare il più possibile sull’autismo al fine di migliorare le loro relazioni con me.
All’età di quattro anni non ero ancora abituato a fare i miei bisogni sul vasino. Mia madre ci provava già da due anni senza mai forzarmi o punirmi in alcun modo per il mio rifiuto. Gridavo se mi metteva da qualche parte vicino al vasino, ero come terrorizzato spaventato dal fatto che sarei potuto cadere se mi fossi seduto su quell’oggetto. Soffrivo di stitichezza cronica, che per me era tra l’altro molto dolorosa. Stavo in un angolo e mi nascondevo, non riuscivo a defecare e urlavo. Non potevo sopportare di avere un pannolino sporco e odiavo stare nudo, anche solo per fare il bagno. Avevo paura dell’acqua! Mia madre poteva contare sulle dita delle sue mani quello che volevo mangiare. Formaggio, pane, pesce bianco, pasta con il formaggino, cracker salati e latte.
Trascorrevo le mie giornate con sempre al mio fianco mia madre che lavorava con me
Il supporto locale esterno ci mise, dopo un po’ di tempo, a disposizione un terapista occupazionale e un’insegnante di educazione speciale, che sarebbero venuti a casa per lavorare con me e i miei genitori sulle mie abilità motorie e il mio linguaggio. Prima solamente due ore a settimana, poi successivamente quando fu possibile qualche ora in più.
Sfortunatamente, la realtà impone che l’aiuto per un bambino con autismo non sia consegnato a nessuno su un piatto d'argento. Deve essere perseguito senza sosta. Così, il resto delle giornate, mia madre era sempre al mio fianco lavorando con me e utilizzando gli strumenti e i processi che il mio terapista occupazionale le aveva insegnato e che aveva imparato dai libri e da internet riguardanti l’autismo e il disturbo dell’integrazione sensoriale. Per mesi e mesi non ci sono stati progressi.
Il loro grande cruccio era quello di chiedersi continuamente se avessi potuto avere una vita autonoma quando fossi diventato grande, se avessi potuto guidare, avere un lavoro, sposarmi! Tutte domande legittime che un genitore si pone per un figlio normale, figuriamoci per uno… autistico.
Fui visitato da specialisti del settore, altamente preparati per affrontare situazioni come la mia!
Partecipai anche con i miei genitori a gruppi di giochi settimanali coordinati dal programma di intervento precoce
Il lavoro della mia insegnante è stato costante e paziente, lavorando dapprima con i miei genitori per identificare le opportunità di comunicazione e gli obiettivi all’interno delle loro attività quotidiane in casa e fuori.
Dopo moltissimi mesi si iniziarono a vedere briciole di progressi! Un lentissimo ma costante accumulo di apprendimento ha portato a scoperte quasi veloci, quando raggiunsi le soglie cognitive. I miei genitori erano superfelici quando la mia insegnante sottolineava l’importanza di costruire competenze linguistiche ricettive, diceva loro che le mie capacità ricettive avrebbero alimentato le mie abilità linguistiche espressive. Più e più volte mi chiedeva mostrandomi delle immagini: “Dov'è il gatto nero?”, “Dov'è il gatto bianco?”, “Dov’è l’ape?” esortandomi a puntare con il dito e a indicare. Quando la mia prima parola fu “Pe”, proprio indicando l’ape, restarono stupiti. Erano passati parecchi mesi da quando la mia maestra mi aveva insegnato per la prima volta che cosa fosse un’ape.
Poi, lentamente, ma inesorabilmente, iniziarono a verificarsi piccoli miracoli. Con l’aiuto degli esperti del settore, i sintomi, i comportamenti e i ritardi possono a volte essere completamente invertiti. Le caratteristiche restanti possono ridursi a irriconoscibili o appena rilevabili. Le forze possono essere costruite e ciò che sembra veramente un miracolo… può accadere.
I miei genitori erano orgogliosi dei piccolissimi progressi che andavo facendo. Dei piccoli traguardi che andavo raggiungendo.
Il primo miracolo uno dei più piccoli, anche se è stato per mia madre uno dei migliori giorni della sua vita, è stato quando mi ha convinto a sedermi sul vasino. Quel giorno, son riuscito a superare la mia paura e da quel momento non l’ho visto come una cosa terrorizzante. Avevo 5 anni e mezzo!
Con forza, speranza, capacità di recupero, i giusti terapisti e insegnanti della parola, gli insegnanti comportamentali e occupazionali, è possibile compiere progressi significativi così come li ho fatti io.
In pochi mesi riuscii a usare frasi composte da tre a quattro parole e i miei genitori non stavano nella pelle quando iniziai a manifestare i miei desideri come volere un bicchiere di acqua o comunicare di voler andare in bagno.
Stavo finalmente condividendo le mie idee e commentando le cose che vedevo!
Da qui iniziai a frequentare una scuola materna speciale a pagamento, con servizi di supporto specifici per la mia patologia iniziando a fare enormi progressi con le mie abilità.
Le mie scoperte continuarono ad arrivare giorno dopo giorno, sempre a piccolissimi passi, grazie alla terapia mirata dei miei insegnanti e ai miei genitori che non potrò mai finire di ringraziare.
Un lavoro continuo per costruire le mie capacità comunicative eliminando quei blocchi che vi erano nel mio cervello.
Una cosa, per esempio, che non riuscivo ad apprendere erano i giorni della settimana o i mesi dell’anno. Per me era come voler vedere qualcosa che era ed è astratta, qualcosa che non è possibile neanche toccare, il tavolo, la sedia si vede e si tocca! Non potevo imparare neanche queste semplici cose fintanto che non furono eliminati proprio questi blocchi.
Un bambino autistico è un pensatore visivo; le nozioni gli devono essere insegnate in modo diverso rispetto agli altri bambini. Questo deve essere lentamente incoraggiato a provare cose nuove, nuovi cibi, nuove routine, ecc. Quando questo bambino diventa un po’ più grande, inizia ad avere un concetto minore dei segnali sociali e delle regole sociali. A un bambino non autistico gli si può chiedere di fare una faccia triste, una faccia arrabbiata, una faccia felice e una faccia spaventata. Questa è una cosa simpatica che rientra nella normale fase di sviluppo per tutti i bambini piccoli per riconoscere le proprie emozioni e come l’aspetto del loro viso è percepito dagli altri. Io non avevo assolutamente idea di come le mie azioni e le mie emozioni influenzassero chi mi circondava o che io potessi comunicare attraverso le mie azioni o le mie emozioni. Ora riesco a farlo!
Avevo 6 anni, quando per la prima volta mangiai una caramella. Il mio terapista occupazionale insegnò a mia madre di farmi toccare prima un nuovo cibo, farmelo annusare, averlo sul piatto, indipendentemente dal fatto che lo potessi mangiare o no, e alla fine farmelo toccare con la lingua. Lentamente e metodicamente mia madre mi ha introdotto nel mondo dei nuovi alimenti. I miei problemi sensoriali facevano sì che ogni cosa avesse un gusto molto più forte per me che non per gli altri e soprattutto ho avuto grossi problemi con la consistenza dei cibi.
Adattarsi ai nuovi cibi, come a tutto ciò che è nuovo, è un processo lungo e forzare non fa assolutamente bene a un bambino con problemi sensoriali.
Nel corso di tre anni, passai dal mangiare solo quei sei cibi a mangiare quasi tutto!
Le preoccupazioni dei miei sul fatto che non mangiavo mai qualcosa di nutriente erano finalmente finite, e come tutti sappiamo, la nutrizione è vitale per lo sviluppo del cervello e per la salute generale.
Questo è un altro piccolo miracolo che ha cambiato la mia vita, la mia salute, e mi avvicinava di un passo alla “normalità”!
Sono stato incoraggiato a usare simboli e il linguaggio dei segni per farmi capire. All’età di otto anni parlavo con frasi semplici, procedendo anche bene!
Altro loro cruccio era quello che prima o poi mi sarei reso conto di essere diverso dagli altri bambini della mia età. Sicuramente ero già consapevole di non essere come i miei coetanei e di avere delle difficoltà in molte materie a scuola. Come era pur vero che gli altri bambini mi trattavano in modo diverso e chiedevo ai miei genitori il perché.
Poi man mano che son cresciuto e le mie attitudini miglioravano, sono riuscito ad avere…piccolo gruppo di amici, che erano sempre lì per me indipendentemente dal mio bisogno. Ancora oggi in contatto tra noi, il che è un buon segno giacché hanno vissuto il mio stesso percorso di scuola e di vita attraverso i miei alti e bassi.
Ho cercato anche di adattarmi ad altri ragazzetti al di fuori della mia cerchia di amici veri a scuola, naturalmente prima con scarsi risultati. Gli amici della scuola sapevano di me, era stato spiegato loro dalla propria famiglia che avevo bisogno anche del loro aiuto, e l’ho avuto!
Probabilmente per altri è stato troppo difficile accettarmi!
Ho frequentato anche una squadra di calcio supportato dai miei genitori e da quegli stessi compagni di scuola che hanno fatto tanto per me! Che amici che sono stati!
Poi si sa, le strade crescendo si separano! Ognuno prende la propria! Con qualcuno di loro continuo ancora oggi a chattare su facebook!
L’attenzione al lavoro direzionale mi ha permesso di seguire le istruzioni in classe e anni di giochi di ruolo mi hanno aiutato a gestire le transizioni da un’attività all’altra.
La mia meravigliosa famiglia e i miei straordinari educatori e specialisti mi hanno fatto diventare ciò che ero e sono diventato. La mia giornata non era giornata senza di loro! Ero diventato grazie al loro infinito amore e alla loro dedizione e professionalità una persona nuova.
Già a quattordici anni leggevo bene, ero diventato un grande lettore ed ero migliorato tantissimo in matematica e nella scrittura. Mi bastava vedere un’immagine che già l’avevo memorizzata per sempre. Ero e sono affascinato da tutto il mondo scientifico e dalla modellazione della creta. Ero diventato un piccolo artista e le mie abilità informatiche erano fantastiche.
Mia madre, quando per la prima volta venne a casa la mia prima insegnante, le chiese: “Albert parlerà mai?”.
Lei la rassicurò: “È un ragazzo intelligente! C’è un grande potenziale dentro di lui! Ci vorrà solo del tempo e tanta pazienza perché lui possa esprimersi!”.
Aveva ragione!
Cominciai ad andare sullo skateboard, andare in bicicletta, giocare a palla e battere un videogioco. Memorizzavo canzoni e testi con rapidità sconcertante e mostravo anche una certa affinità per la musica anche se ero e sono stonato, ma comprendo bene le note musicali.
Sospetto sempre che ci sia un grande talento in me ancora da scoprire!
Il mio parlare era diventato quasi completamente normale. Anche se c’erano ancora dei momenti in cui, cercando di comunicare un pensiero, questo veniva fuori in modo indiretto. Erano finiti i giorni in cui i miei genitori non avevano idea di cosa provassi, cosa pensassi o cosa stessi cercando di dire. Erano finiti i giorni di mettere le cose in fila, di impilare uno dietro l’altro gli oggetti o una su l’altra le lattine di fagioli o di conserve in scatola, in maniera quasi robotica. Erano finiti i tempi dei ritardi drastici e strazianti. Sono finiti i giorni di preoccuparsi per i miei se un giorno potessi andare all’università, guidare, avere una fidanzata, sposarmi e avere figli propri.
Non vedevo l’ora di essere più indipendente, anche imparando a guidare. Avevo sempre pensato che vivere per conto mio sarebbe stato complesso perché trovavo molto difficile compilare moduli o fare delle telefonate. Anche una semplice discussione al telefono poteva farmi entrare nel panico, bloccandomi senza poter profferire più alcuna parola! Ero comunque sicuro e certo che pian piano avrei potuto gestire, alla fine, tutto con l’aiuto anche dei miei genitori, che come chiocce mi stavano accanto, guidando i miei piccoli passi, i miei piccoli, ma grandi successi.
Presi la patente! Ho conosciuto anche una ragazza, ci siamo innamorati, da subito le ho raccontato il mio trascorso.
Certo, quando abbiamo iniziato questa relazione, ce n’è voluto di tempo per abituarsi. Spesso avevo la mia agenda e le mie routine che mi ero prefissato, e la mia mancanza di flessibilità poteva essere sconvolgente e frustrante per la mia fidanzata, ma il suo amore per me… ha permesso di superare questi ostacoli. Ci siamo sposati e ora ho due figli, non “autistici”. Figli che amo più di ogni altra cosa e che hanno reso la mia vita degna di essere, ancor di più, vissuta.
Ho fatto domanda per diversi lavori ma non ho mai avuto successo. Decisi che era necessaria più istruzione e andai nuovamente a scuola per finire gli studi che avevo lasciato.
Sono riuscito anche a conseguire un diploma magistrale.
Alla fine, ho ottenuto un lavoro in una scuola. Dovevo essere l’insegnante privato per una ragazza in una scuola media. Aveva la sindrome di Asperger. Vidi che la ragazza viveva uno stato di agonia emotiva. Mi sono riconosciuto in lei!
A questo punto, avevo imparato a conoscere gli ASD e sapevo che uno di questi ero proprio io. Eppure ci sono voluti molti altri anni per ricostruire la storia della mia vita alla luce di questa conoscenza. Quando i genitori della ragazza si son voluti confrontare con me, sono rimasti allibiti per la mia franchezza, per questa mia “stranezza”. Ho provato a insegnare in altre scuole, ma è stato un disastro! I bambini delle superiori si prendevano gioco di me, proprio come i miei coetanei quando ero al liceo. Ho provato l’insegnamento nella scuola media, ma i ragazzi si comportavano come se nell’aula non ci fosse un adulto, un insegnante. Chi saltava di qua e chi schiamazzava di là! Il rumore, il caos che regnava in quella classe aveva semplicemente fermato il mio pensiero, ed era per me una cosa terrificante. Il preside mi ha chiamato nella sua stanza e mi ha detto che mi guardavo intorno come un bambino spaventato, per questo i ragazzi non mi rispettavano.
L’insegnamento non faceva per me!
Lo scorso giugno, ho iniziato a lavorare da casa, a commercializzare via internet, pacchetti vacanze e ad aiutare altre persone a raggiungere il successo nelle loro attività.
Nessuno può dire al telefono se le mie espressioni facciali non sono del tutto “corrette”. Nel mio ambiente riesco a controllare bene il mio lavoro, mi prendo tutte le pause che mi necessitano e gioco tanto con i miei figli che sono ancora piccoli.
Tutto quello che faccio non è criticabile o contestabile da chicchessia! Questo è solo un affare mio e nessuno può licenziarmi! Sono finalmente riuscito dove tanti “normali” hanno fallito!
Nel tempo libero che mi rimane, sto cercando di saperne di più sulla mia sindrome di Asperger e di scrivere delle mie esperienze e di molte altre cose che mi interessano. Lo faccio solo per divertimento al momento, ma spero, un giorno, di riuscire a pubblicare qualcuno dei miei articoli. Anche se, visto il tempo che mi ci è voluto per scrivere, sono contento di aver vinto anche questa mia battaglia!
Ho anche degli hobby! Sono un membro di un sito Web che supporta i genitori e gli accompagnatori di bambini con autismo e aiuto a gestire la loro “chat room” e a scrivere i loro aggiornamenti mensili. Sono membro da oltre quattro anni e spero di averli aiutati tanto quanto mi hanno aiutato.
Questi potrebbero non sembrare cambiamenti epocali, ma per me rappresentano un cambiamento fondamentale in ciò che voglio fare della mia vita. Mi sono reso conto che non si tratta di fare ciò che fanno gli altri, ma di fare ciò che voglio fare! Si tratta di seguire la mia strada, vivere la mia vita e trovare la mia definizione di successo.
Sono ancora ansioso e capita qualche volta che mi possa perdere quando esco, ma con l’aiuto di un navigatore satellitare riesco a ritrovare la strada intanto che mi sto allenando, e sto provando anche alcune tecniche di rilassamento che aiutano l’ansia.
Non sono ancora sicuro se avere la sindrome di Asperger è una cosa buona o cattiva, ma quello che so è che fa parte di ciò che mi rende ciò che io sono. E io sto bene con questo!
Spero di ricompensare tutta la mia famiglia, i miei insegnanti, i miei tutori e gli amici per tutto il loro supporto e la comprensione nei miei confronti. Tutto il mio successo passato, presente e futuro è dovuto solamente al loro amore.
Guardando indietro, il mio miglior consiglio per i genitori con bambini in attesa di una diagnosi o per averne appena ricevuta una è di parlare con tutti gli altri genitori che vivono questa stessa esperienza senza paura e senza vergogna. Imparerete molto da loro e sapere che non siete soli in questo viaggio è un grande sostegno e conforto. Altro consiglio che posso darvi, poi, è anche di prendere tutto l’aiuto che vi possono offrire e gridare con tutta la voce che avete dentro per tutti coloro che possono trovarsi nelle mie stesse condizioni. Va bene piangere, anche chiedervi perché vostro figlio ha l’autismo, guardare gli altri bambini con invidia, sentirsi arrabbiati e frustrati e tutte le molte altre emozioni che sentirete, l’hanno avuta tutti i genitori di bimbi autistici, ma credetemi, viaggerete attraverso questo mondo e scoprirete che c’è una luce alla fine del tunnel! Questo non vuol dire che non vi saranno ancora brutti giorni, ma anche se in quei brutti giorni vorreste chiedervi perché vostro figlio ha l’autismo, non significa che dobbiate odiare l’autismo o chiunque con esso. Gridate al mondo intero che vostro figlio ha l’autismo e non che l’autismo è vostro figlio! Amate più che mai ogni piccola parte di lui con tutto il vostro cuore così come han fatto i miei genitori con me! Accettare e affrontare la diagnosi è un processo molto doloroso, ma vedere il proprio figlio superare tanti ostacoli è una grande, immensa gioia. Siate perseveranti mamme e papà di bambini con disturbo dello spettro autistico. Ci saranno molti dolori, lacrime, frustrazioni e preoccupazioni. Ma insieme a queste cose sbocceranno trionfi, orgoglio e momenti di incommensurabile esultanza. Io non mi sento più perso e intrappolato nella mia piccola mente confusa! Ho visto come ho superato i miei traguardi e ho visto i risultati dopo ogni ostacolo! Ho visto il ritardo lentamente andare via! Potrei non essere mai “normale”, ma mi considero speciale! Ho insegnato ai miei genitori tanto da renderli incredibilmente fieri di me!
Oggi vedo il mio autismo come una cosa positiva nel complesso. Non definisce chi sono ma fa parte del mio trucco, lo accetto e ne sono orgoglioso.
Oggi vivo per mia moglie, i miei figli e la mia famiglia e vorrei ringraziarli tutti per essere lì per me.
Oggi posso gridare al mondo intero che finalmente sto provando…

Conclusioni dell’autore

Ad un bambino su 150, viene diagnosticato il “Disturbo dello spettro autistico” (Autistic Spectrum Disorders - ASD). I clinici sempre più spesso ormai utilizzano la dizione ASD, per indicare Autismo, Asperger e Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (PDD-NOS) . Questa definizione (spettro autistico) significa che il disturbo colpisce queste persone in modo differente variando da una lieve a una grave sintomatologia. I disturbi dello spettro autistico hanno vita comunque da una compromissione dello sviluppo che compromette le abilità di comunicazione e di socializzazione, e sono spesso associati a comportamenti inusuali (ad esempio comportamenti ripetitivi o stereotipati) e a un’alterata capacità immaginativa. Questa diagnosi si effettua ugualmente su ogni razza nel mondo e in ogni demografia socioeconomica. Si è potuto appurare che 3 bambini su 4, nati con autismo, sono maschi. C’è una maggiore incidenza di diagnosi di bambini con ASD rispetto ai bambini nati con la sindrome di Down, fibrosi cistica e bambini con diagnosi di tumori infantili. La gamma di comportamenti, sintomi e il livello di gravità è enorme. Ci sono disturbi di accompagnamento come: disturbo dell’integrazione sensoriale, disturbo ossessivo - compulsivo, disturbi immunitari, disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD), disturbi d’ansia e convulsioni. Ci sono bambini a basso funzionamento con autismo che hanno ostacoli significativamente più difficili e molte volte incurabili. La prognosi per i bambini ad alto funzionamento con autismo non è così triste come una volta, finché il bambino riceve aiuto. C’è così tanto che molti non sanno di questo ampio spettro e purtroppo i pediatri spesso mancano di centrare i segnali.

Aumentare la consapevolezza è molto importante!
I centri specializzati sul territorio nazionale non sono moltissimi e addirittura alcuni non appartengono al Servizio Sanitario Nazionale e purtroppo le famiglie si trovano a dover sostenere costi decisamente elevati che invece dovrebbero essere completamente a carico dello Stato.
Al Nord i centri specializzati per le terapie dell’autismo sono solamente cinque:
–          Ambulatorio Autismo e disturbi pervasivi dello sviluppo ubicato all’interno dell’Ospedale Maggiore di Bologna
–          Ambulatorio Autismo Ospedale S. Orsola Malpichi di Bologna
–          Centro Autismo e Disturbi dello Sviluppo dell’Asl di Rimini
–          Centro Autismo di Mondovì presso la Asl 1 di Cuneo nell’Ospedale Regina Montis
Lo sportello per l’autismo dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Vicenza
Nelle regioni centrali gli ambulatori specializzati di eccellenza sono solamente tre:
–          Ambulatorio autismo dell’Ospedale di Santa Croce di Fano nelle Marche
–          Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico del Bambin Gesù di Roma
–   L’osservatorio sull’autismo dell’Asl RMF a Civitavecchia
Gli ambulatori ubicati al Sud, isole comprese invece sono quattro:
–          Centro di riferimento sui disturbi dello spettro autistico presso la Asl 2 di Napoli
–          Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico di Troina in provincia di Enna
–          Centro disturbi pervasivi dello sviluppo presso l’azienda ospedaliera “G. Brotzu” di Cagliari
–          Centro di prevenzione diagnosi e terapia delle sindromi autistiche presso l’azienda sanitaria provinciale di Palermo


2° classificato: “Beatlesmania” Di Teodoro Fuso da Bari
Motivazione: Nostalgico resoconto di un viaggio avventuroso e sgangherato attraverso borghi e contrade del cuore d’Italia, ad inseguire il sogno giovanile incarnato nella musica dei Fab Four e in un loro concerto romano.
Beatlesmania
Mi accingo a raccontare una rocambolesca odissea vissuta da tre ragazzi, determinati a raggiungere Roma per assistere ad un memorabile concerto dei favolosi Beatles. Avevo appreso dal giornale Big che i quattro Fab Four, finalmente, sarebbero giunti in Italia per effettuare tre concerti. Il primo a Milano , il secondo a Genova e il terzo a Roma. Preda di giovanile entusiasmo e amore per le loro canzoni desideravo vedere ed ascoltare, dal vivo i mitici beniamini della mia generazione. Un sogno che avevo intenzione di trasformare, con determinazione, in realtà. Avevo stabilito di partire da Monopoli il 26 giugno 1965 con il treno delle 23 per giungere Roma all'alba del 27 giugno, giorno in cui si sarebbe svolto l’agognato concerto. Avevo imparato a suonare la chitarra e con il mio gruppo musicale, rigorosamente emulo dei Beatles, effettuavamo concerti e feste di matrimonio, grazie alle quali avevo messo da parte la discreta somma di seimila e cinquecento lire. Oggi, quella cifra, vi sembrerà esigua ma allora, giusto per fare un esempio, equivaleva al costo di una discreta chitarra acustica Eko. Frequentavo l’Istituto D’Arte Renato Moro, ubicato sul lungomare di Bari. Confidai a Federico, mio compagno di classe, che sarei partito per Roma e lui confessò, entusiasticamente, che sarebbe partito in auto con un suo amico per assistere al memorabile concerto. Mi propose allora di unirmi a loro contribuendo, ovviamente, alle spese per il carburante. Federico era simpatico e per giunta fan sfegatato dei miei amati Beatles e ciò, per me, fu una garanzia sufficiente per siglare il sodalizio. Stabilimmo di partire il 25 giugno. Era preferibile arrivare in anticipo sulla data del concerto, sopratutto per acquistare i biglietti di cui purtroppo eravamo sprovvisti e che sicuramente, sarebbero andati a ruba. Federico, emulo del grande Ringo, suonava la batteria. Era smilzo, con un covone di capelli biondi e ricci sulla testa della identica dimensione dei capelli del magnetico Jimi Hendrix. Spesso indossava camicie con disegni floreali che sembravano confezionate con stoffa utilizzata di solito per realizzare quelle tende un po’ civettuole che le nostre mamme appendevano alle finestre. Anch'io non ero da meno perché indossavo jeans di color giallo cromo con una camicia di un rosso così accecante che, se la si toccava, c’era il rischio di ustionarsi. Oggi sembrerebbe una cosa normale vestirsi così, allora invece un patetico conformismo, imponeva di indossare un abbigliamento convenzionale e con colori piuttosto spenti anche se lentamente ma inesorabilmente, i giovani di tutto il mondo stavano, mutando pelle e idee. Alle sei del mattino del 25 giugno 1965, salii, pieno d'entusiasmo, sul treno diretto a Bari. Raggiunsi Federico che mi attendeva di fronte alla stazione, nei pressi della fontana monumentale al centro della piazza. Aveva con se uno zaino di tipo militare che conteneva tra le altre cose una piccola tenda da campeggio che evidentemente pensava potesse esserci utile. Un rumore assordante catturò la nostra attenzione. In una vistosa nuvola di fumo, tra una sinfonia di pernacchie emesse da un impertinente tubo di scappamento, una fiat cinquecento di colore bianco si fermò ad un paio di metri di distanza da dov'eravamo. Aveva dipinte due strisce rosso fuoco che, partendo dal cofano anteriore, attraversavano la capotta e finivano in prossimità della targa. “ Ecco Marco, il mio amico. “ Disse Federico. Non feci in tempo ad esprimere la mia perplessità nei confronti di quella strana cinquecento che Marco, ci venne incontro esclamando: “ Bene! Bene! Bene! Buongiorno. Vedo che siete puntuali. Bravi”. Mi tese la mano: “ Come va? Piacere! Sono Marco l'amico di Federico“. Mentre stringevo la sua mano, contemporaneamente osservavo, con trepidazione, la cinquecento che in cuor mio classificai come improbabile mezzo di locomozione. Tentai di esprimere la mia perplessità in merito ma Marco mi precedette esclamando: “ Bella vero? Me lo dicono tutti. E’ una fiat cinquecento che ho leggermente “adattato” alle mie esigenze. Al mattino singhiozza un po’ ma poi va che è una meraviglia“. E sorrise. Ad un simile entusiasmo non ebbi il coraggio di replicare. Mi sistemai sul sedile posteriore dell’auto insieme allo zaino e mi sfilai il giubbotto in jeans che indossavo. Federico si sedette sul sedile anteriore. Prima di lasciare Bari effettuammo il pieno di benzina ed iniziò così la nostra avventura. Federico aveva diciassette anni come me, mentre Marco ne aveva venti, compiuti appena due giorni prima. Era alto circa un metro e settantacinque, aveva lunghi capelli castani tendenti al rosso e un viso costellato da vistose efelidi che gli davano un aspetto spiccatamente english. Indossava jeans, scarpe da tennis, una maglietta a righe blu e bianche e un giubbotto di stoffa bianco con bottoni blu. Possedeva uno spiccato senso dell’umorismo e un naturale carisma. Durante il viaggio approfondimmo la nostra conoscenza discorrendo di musica, di ragazze, di sogni e delle nostre aspirazioni. Insomma pervenimmo ad una ottima intesa che prometteva di trasformarsi in solida amicizia. Ad onor del vero, l’auto si comporto dignitosamente fino alla città di Foggia dove ci fermammo per fare nuovamente benzina, bere un sorso d’acqua ed espletare le nostre funzioni fisiologiche più impellenti. Marco consultò la cartina stradale per decidere quale direzione prendere. Certo, se ci fosse stata l’autostrada sarebbe stato tutto più facile ma allora per raggiungere Roma bisognava prendere la statale che portava a Napoli attraversando l’insidiosa Irpinia. Il nostro esperto amico decise di percorrere quella che considerò una “scorciatoia“ cioè attraversare i monti del Matese, raggiungere Frosinone e poi la nostra meta, Roma. Non avendo alcuna esperienza di lunghi viaggi in auto accettammo fiduciosi la scelta proposta da Marco e partimmo alla volta di Lucera e Campobasso. Effettuare un lungo tragitto in quella scatola di sardine chiamata “ cinquecento “era un vero tormento. Le membra si intorpidivano e l’assordante frastuono del motore bucava il cervello. Le strade poi, erano strette e spesso dissestate e non si incontravano abitazioni o esseri viventi per chilometri compreso i preziosi distributori di benzina che erano collocati in prossimità dei centri urbani e spesso risultavano fuori servizio. Insomma viaggiare era davvero un’avventura nel segno dell’approssimazione e del dubbio. Superata la splendida città di Lucera, imboccammo una strada stretta, piena di curve e dossi senza alcun visibile cartello stradale. Dopo qualche centinaio di metri, immaginando di aver sbagliato percorso, eravamo sul punto di tornare indietro quando scorgemmo, ai bordi della strada, un uomo, forse un contadino, intento a riparare un muretto a secco. Accortosi della nostra presenza, depose, lentamente, la pietra che aveva tra le mani e si avvicinò all’auto. Aveva un'età indefinibile. Avrà avuto quaranta, cinquanta o cento anni, davvero difficile dirlo. Di certo aveva un viso incartapecorito e bruciato dal sole e dalla fatica. I suoi occhi erano di uno straordinario colore celeste e sotto il suo rubicondo naso sventolavano, come vessilli al vento, due appariscenti baffi brizzolati. " E' questa la strada per Roma?" chiese Federico. Il contadino rispose con cupi suoni gutturali che, per quanto si sforzasse, risultarono, per noi, incomprensibili. Quel poveruomo aveva difficoltà di parola, continuava ad annuire con la testa e questo bastò a convincerci che la direzione che avevamo intrapreso fosse quella giusta. Dopo qualche chilometro la strada cominciò ad inerpicarsi. Il paesaggio era splendido. Immensi campi di grano, cullati da una leggera brezza, biondeggiavano al sole, intervallati da siepi e boschi di querce. La cinquecento cominciava a singhiozzare in maniera preoccupante ma finalmente scorgemmo, sul cocuzzolo di una montagna quella che sembrava essere una antica fortezza medievale. Incrociammo le dita sperando che l'auto non esalasse l’ultimo respiro nonostante l'apparente ottimismo di Marco che tentava di tranquillizzarci. “Spingemmo” la cinquecento con la forza di “ poteri paranormali” che, certamente non avevamo, verso il cartello che ci venne incontro sul quale c’era scritto, Pietra Montecorvino. Attraversammo quella che doveva essere la strada principale del paese accompagnati dallo scoppiettante, rumoroso ansimare, del tubo di scappamento dell'auto la cui eco rimbalzava sulle pareti delle case. La strada era deserta come quella di un villaggio di un film western e finalmente ci fermammo in una piazzetta nei pressi di una fontana. Marco esclamò: “ Il motore ha bisogno di raffreddarsi e il serbatoio è quasi a secco di benzina”. Scendemmo dall’auto. Mentre Federico accese la sua immancabile sigaretta, io distesi delicatamente le mie membra nel tentativo di far riacquistare al mio anchilosato corpo una dimensione “umana“. Non avevamo orologi ma osservando il sole, constatai che era allo zenit, quindi doveva essere pressappoco mezzogiorno; i morsi della fame lo confermavano. Mentre Marco faceva raffreddare il motore dell’auto decisi insieme a Federico di cercare un negozio di alimentari e soprattutto un distributore di benzina. Dopo aver camminato per un centinaio di metri, alcune voci attrassero la nostra attenzione. Dietro l’angolo di una abitazione scoprimmo due vecchietti che, seduti per terra con le spalle appoggiate al muro, erano intenti ad intrecciare dei panieri con lunghi e sottili fili di canna. Le ossute mani si muovevano sapientemente mentre parlavano tra loro in un idioma decisamente alieno per noi. Avvertirono la nostra presenza e per qualche secondo ci osservarono, con curiosità, poi sorrisero e ripresero nuovamente ad intrecciare canestri e a discorrere tra loro. Scettici sulla loro capacità di comprendere la nostra lingua madre, chiedemmo, gesticolando platealmente, se nei paraggi ci fosse un negozio di alimentari. I due scrutarono divertiti e con molta attenzione le nostre buffe esternazioni e dopo un attimo di silenzio, uno dei vecchietti esclamò in perfetto italiano: “ Se cercate da mangiare, continuate a camminare lungo il corso e tra duecento metri, sulla sinistra, all’inizio della stradina laterale troverete un negozio di alimentari. Non potete sbagliare perché ha anche una piccola ma visibile insegna”. Stupiti per il perfetto italiano, ringraziammo il vecchietto e approfittammo della sua disponibilità per apprendere che il distributore di benzina si trovava alla fine della strada nella quale ci trovavamo. Il negozio di alimentari o meglio la "Salsamenteria", come recitava l'insegna, disponeva di pane appena sfornato e salsiccia locale arrosto. Acquistammo tre panini imbottiti di gustosa salsiccia e ne portammo uno a Marco il quale avrebbe preferito del prosciutto come companatico ma la fame ebbe il sopravvento sulla sua riluttanza e addentò il panino con tanta foga da far schizzare fuori un pezzo di salsiccia inseguita dalle bestemmie del nostro permaloso amico e da un grosso gatto nero sbucato all’improvviso da una catasta di legna situata ai bordi della strada. L’abile e scaltro felino si impossessò del pezzo di salsiccia e sparì rapidamente così come era apparso. Il benzinaio, un loquace ragazzo che aveva pressappoco la nostra età, mentre riempiva il serbatoio della cinquecento, ci consigliò di portare con noi almeno una tanica di altri cinque litri di carburante altrimenti, con il solo pieno, non ce l’avremmo fatta a raggiungere la città di Campodipietra perché a Celenza Valfortore , il paese che avremmo successivamente incontrato, era sprovvisto di distributore di benzina. Sotto il cocente sole di giugno, l’abitacolo della cinquecento era paragonabile ai piombi di Venezia con l’aggravante dell’olezzo della tanica di benzina che avevo sotto i piedi e che non si attenuava neanche con la capotte aperta. Quella scomoda situazione non mi permise di godere appieno del suggestivo paesaggio che scorreva davanti ai miei occhi e francamente, a causa del disagio, cominciai a pentirmi di non aver preso il treno. Celenza Valfortore sembrava la fotocopia del paese precedente; ci fermammo solo per sgranchirci le gambe, espletare le nostre funzioni fisiologiche e bere un sorso d’acqua alla fontana. Osservato con sospetto dalla nostra perplessità, Marco, consultava freneticamente la carta stradale. Decise finalmente di prendere la strada per Gambatesa dove, secondo lui, avremmo incrociato la statale 645 che ci avrebbe finalmente condotto a Campobasso. Improvvisamente davanti ai nostri occhi apparve una immensa distesa d’acqua di un meraviglioso color verde smeraldo circondata da lussureggianti colline. Solo qualche anno dopo venni a conoscenza che quello straordinario lago artificiale si era formato grazie alla costruzione di una diga realizzata dall’uomo. Quel lago artificiale si chiamava Occhito. Giungemmo al fatidico bivio con la statale 645. La strada che avevamo davanti dirigeva a Gambatesa, mentre quella a destra conduceva a Campobasso. Dopo aver riempito il serbatoio dell’auto con la benzina della preziosa tanica, girammo a destra e via, verso Campobasso.
La strada statale era in buone condizioni e comunque decisamente più percorribile dell’angusta strada che avevamo praticato fino ad allora. Percorremmo via Roma, che sembrava essere il corso principale di Campodipietra, con la baldanza e la soddisfazione paragonabile alla conquista di Palermo da parte dei garibaldini durante la spedizione dei mille. Dopo aver fatto raffreddare il motore, facemmo il pieno a un distributore di benzina della Shell e controllammo l’olio. Naturalmente riempimmo di benzina anche la preziosa e ormai irrinunciabile tanica di riserva. La grigia sagoma del castello di Monforte, un sinistro maniero costruito nel 1100, allungò la sua ombra sulla nostra cinquecento accogliendoci a Campobasso che, nonostante fosse diventata capoluogo di regione da due anni, non aveva l’aspetto di una città come Bari ma era paragonabile piuttosto alla nostra provinciale Monopoli. Fermammo l’auto nella strada principale. Un vistoso orologio posto a bandiera su un negozio ancora chiuso segnava le 4 e 32 di quell’assolato e caldo pomeriggio. Tentammo di stiracchiare le nostre anchilosate membra come avremmo fatto con un foglio di carta accartocciato, nel tentativo di riportarlo al suo antico splendore. Marco, che sembrava davvero infaticabile, era intenzionato a partire subito ma noi eravamo decisamente stanchi e stufi di rientrare subito nella massacrante cinquecento perciò, ci avviammo a piedi lungo quella strada giusto per sgranchirci un po’ le gambe. In fondo alla via scorgemmo l’enorme facciata di una chiesa, che in seguito scoprimmo essere quella di San Bartolomeo. Fino a quel momento, forse a causa della calura pomeridiana, non avevamo né visto né incontrata, anima viva. Notammo un'insegna di un locale sulla quale c'era scritto in carattere liberty " Bar Italia ". Sul marciapiede, in prossimità dell’ingresso, vi erano due tavolini di legno con delle sedie dal fondo di paglia, ma nessun avventore. L'interno, più che ad un moderno bar, somigliava a quelle cantine o bettole, ancora in attività, in quegli anni, nel centro storico di Monopoli. Luoghi di solito frequentati da individui che ricordavano i Bravi di manzoniana memoria e non ci meravigliammo quando, nel buio e fumoso locale, quattro signori di mezza età, seduti ad un tavolino, giocavano animosamente a carte seguiti dallo sguardo divertito di un quinto avventore. I quattro giocatori lanciavano le carte sul tavolo come fossero delle sciabolate e sembrava che imprecassero, ad ogni gesto, contro qualcuno o qualcosa con una mimica facciale degna di consumati attori. Uno, in particolare, somigliante all’indimenticabile attore genovese Gilberto Govi faceva roteare nervosamente un mezzo sigaro toscano da una parte all’altra della bocca, mentre con lo sguardo sembrava volesse incenerire il compagno di gioco che aveva di fronte. Non ci degnarono di uno sguardo e continuarono a giocare a tre sette e ad imprecare in un linguaggio per noi incomprensibile. La voce dell'uomo che si trovava dietro ad un annerito e vetusto bancone di legno ci distolse dalla “contesa“ chiedendoci se desideravamo qualcosa da bere. Federico ordinò una birra intenzionato a berla in santa pace seduto al piccolo tavolo posto in un angolo del locale. Marco ed io invece optammo per un invitante cono di gelato artigianale con una montagna di panna montata che le nostre papille gustative constatarono che aveva ancora il sapore del latte appena munto. Leccando avidamente il gelato nel timore che evaporasse per l’eccessivo caldo, ci avvicinammo ai giocatori di carte che decisamente ci incuriosivano con i loro, buffi ed imprevedibili gesti. Usciti dal locale ci avvicinarono alcuni ragazzi che avevano pressappoco la nostra età. Manifestavano una certa curiosità nei nostri confronti tanto che uno, forse più intraprendente o più curioso degli altri esordì con una bizzarra domanda: “ Ma siete…i capelloni?”. Come se si riferisse ad una qualche categoria di umanoidi o rara specie di mammiferi o di uccelli. Un altro subito aggiunse: “ Ma voi siete quelli che suonano e cantano le canzoni?”. Forse vedendo il nostro abbigliamento e i nostri capelli lunghi ci assimilarono a qualche complesso beat che avevano intravisto in qualche raro programma televisivo. Rispondemmo sorridendo per monosillabi finché, raggiunta la cinquecento, salimmo a bordo e partimmo rapidamente. Il sole era ancora alto in cielo quando attraversammo Boiano, caratteristico paesino dall’aspetto simile ad un magico presepe. In via San Bartolomeo mentre ammiravamo la bellissima facciata della cattedrale, Marco fermò l’auto e chiese ad un passante la strada per Isernia. Il gentile signore ci consigliò di imboccare via Prusciello che in realtà era un segmento della statale 17 e, attraverso una sua vivace quanto efficace gesticolazione, ci indicò la direzione da seguire. Ormai la luce del sole cominciava ad assumere gli ardenti colori del tramonto ma quella immagine così poetica si dissolse alla improvvisa, eclatante e colorita, imprecazione di Marco che fece riaffiorare la mia coscienza dal torpore nel quale dolcemente stava avventurandosi. Marco, con gli occhi che emettevano faville, ci annunciò che l’acceleratore non rispondeva più alle sollecitazioni del suo piede. Ancora una volta mi pentii, nel mio intimo, di non aver preso il treno. Marco aprì il cofano posteriore dell’auto e constatò che si era, purtroppo, rotto il filo dell’acceleratore, un guaio che proprio non ci voleva. Ci esortò a cercare per terra un filo di ferro o un pezzo di corda per tentare di effettuare una riparazione di fortuna, ma la visibilità era ormai agli sgoccioli e, nella vana ricerca, pestai qualcosa di maleodorante che indusse i miei compagni di viaggio a tenersi prudentemente a distanza. Pulii lo stivaletto, come meglio potei, su di un cespuglio d’erba e il puzzo, dopo un disgustoso momento di esaltazione, sembrò attenuarsi. Non trovando nulla per terra Federico ebbe l'idea geniale di prendere una cordicella che apparteneva al corredo della tenda e la passò a Marco il quale la allacciò al gancio dell’acceleratore, legando poi l’altra estremità della cordicella al deflettore situato all'esterno, in prossimità del posto di guida. Marco si sedette in auto, aprì il finestrino, afferrò la cordicella e, tirandola con la mano sinistra vide che l'acceleratore funzionava egregiamente. Ripartimmo, ma tenere a lungo il braccio in quella posizione era decisamente scomodo e faticoso. Dopo qualche chilometro infatti ci fermammo nei pressi di un corso d’acqua che il mattino dopo scoprimmo essere il fiume Biferno. Era ormai buio e l’aria era diventata più fresca. Decidemmo allora di allontanarci dalla strada e montare la tenda per trascorrervi la notte. Dormivamo serenamente cullati dalle braccia di Morfeo quando un ululato degno di un terrificante film dell’orrore squarciò l’aria. La tenue luce della piccola torcia tascabile di Marco illuminò la tenda e ci ritrovammo tutti e tre seduti con uno sguardo tra l’assonnato e l’impaurito. Mentre ci sforzavamo di capire cosa avesse prodotto quel latrato, un ululato ancora più vicino convinse me e Marco ad abbandonare rapidamente la tenda e a rifugiarci in macchina inseguiti dallo sghignazzo di Federico che, per dimostrare di essere impavido, rimase stoicamente a dormire in tenda. Fummo svegliati, nel cuore della notte da un potente ululato e sopratutto dai pugni che Federico infliggeva allo sportello dell’auto. La sua faccia, appiccicata al vetro, con una evidente espressione di terrore, ci convinse a farlo entrare rapidamente in macchina. Restammo tutti e tre svegli per molto tempo; poi, sfiniti dall’emozione e dalla stanchezza, finalmente ci riaddormentammo, stretti l’un l’altro come criceti nella tana. Il sole avvolse l’auto con la sua luce e il suo calore, tentando di ridare vitalità ai nostri corpi intirizziti e doloranti per la scomoda posizione nella quale avevamo dormito. Scendemmo con circospezione dall'auto tentando anche di recuperare la capacità di deambulazione. I nostri assonnati occhi furono catturati dalla sfolgorante bellezza dello stupendo paesaggio nel quale eravamo immersi. Gli ululati notturni e la paura dei lupi si erano dissolti alla vista di quelle verdi lussureggianti colline che si perdevano a vista d’occhio. L'aria frizzante del mattino e lo sciabordio del fiume che scorreva poco distante ci riempivano il cuore di una appagante serenità. Notammo, non lontano, una fattoria e decidemmo di raggiungerla per chiedere agli abitanti qualcosa da mangiare, dato che i nostri stomaci, a digiuno da troppo tempo, cominciavano a reclamare cibo. Federico volle prendere dalla tenda la sua borraccia ormai vuota per riempirla d’acqua. Era appena entrato carponi nella tenda che lo vedemmo schizzare fuori in retromarcia e correre in un lampo a rifugiarsi nella cinquecento così velocemente da lasciare me e Marco increduli ed esterrefatti da un simile, bizzarro, quanto inspiegabile, comportamento. Mentre le nostre menti velocemente azzardavano varie ipotesi, dalla tenda fece capolino una enorme, esagerata, testa di un peloso cane pastore maremmano, quasi certamente l’autore degli ululati che avevamo ascoltato la notte precedente. Quel pulcioso e furbo cane si era impossessato della nostra tenda e vi aveva trascorso comodamente la notte. Non mostrava alcun segno di aggressività anzi si avvicinò e cominciò a scodinzolare e a strusciarsi contro le nostre gambe in segno d’affetto. Era un giocherellone e diventammo subito amici. In seguito appurammo che apparteneva agli abitanti della fattoria. La testa di Federico fece capolino dal finestrino dell'auto e solo quando si rese conto che il cane non era quella belva sanguinaria che lui immaginava, ci raggiunse. La contadina, una signora di mezza età, ci accolse calorosamente offrendoci del latte fresco appena munto, alla faccia della pastorizzazione, e delle enormi fette di pane appena sfornato con della marmellata di mele cotogne, eccellente prodotto della sua decennale abilità culinaria. La gentilezza e la disponibilità della contadina verso degli sconosciuti viandanti quali eravamo noi ci colpì vivamente nell'animo. Un evidente contrasto con l'odierno egoistico individualismo e con la quasi totale mancanza di solidarietà e altruismo verso i bisognosi. Smontata la tenda, ripartimmo alla volta di Isernia. Giunti a Cantalupo nel Sannio, Marco decise di fermarsi per tentare di riparare l’acceleratore perché tirare la cordicella era davvero faticoso e scomodo. Procedere in quelle condizioni non permetteva di percorrere molta strada. Il paesino era piccolissimo, non c’erano insegne che segnalassero la presenza di attività commerciali o negozi e non credo che fosse abitato da più di un centinaio di anime; tuttavia ad un anziano passante chiedemmo se in paese ci fosse una officina meccanica. L’arzillo vecchietto, che dava l’impressione di essere l’unica presenza vivente in quella che doveva essere la piazza del paese larga quanto un fazzoletto, fu lieto di accompagnarci personalmente dal “meccanico” come lui lo definì. Il signore che avevamo di fronte era si un meccanico ma di biciclette. Eravamo perplessi ma il “meccanico“ che si chiamava Tore prese un filo usato di solito per i freni delle bici e con quello riparò perfettamente l'acceleratore per la modesta somma di centocinquanta lire. Lo salutammo e ci rimettemmo nuovamente “on the road“ come avrebbe detto Kerouac. Il sole era allo zenit quindi doveva essere pressappoco mezzogiorno quando giungemmo ad Isernia. La città era molto bella e vivace e, nonostante l’ora, c’era parecchia gente in giro. In piazza Celestino V, rimasi incantato ad osservare una insolita ma interessante fontana denominata Della Fraterna che sembrava un puzzle costruito con pezzi di varie epoche storiche. Nei pressi della fontana un gruppo di giovani si esibiva in alcune canzoni care alla mia generazione, accompagnandosi con chitarre acustiche. Erano decisamente diversi dal gruppo di ragazzi che avevamo incontrato a Monforte. Indossavano abiti molto simili ai nostri e un paio di loro ostentava persino una fluente capigliatura. Ci unimmo a loro e Federico, afferrata una scatola di cartone che giaceva per terra, cominciò a percuoterla come fosse un tamburo accompagnando, con un frenetico ritmo, i due chitarristi. Dopo un po’uno dei due suonatori mi affidò la sua chitarra, e così ebbi modo di sfoderare tutto il repertorio delle canzoni dei Beatles che conoscevo, suscitando l’ammirazione dei presenti con i quali simpatizzammo, accomunati dalla giovane età, dalla voglia di libertà e dalla identica passione per quella musica così frizzante e vitale. Marco, più che per la musica, dimostrò di provare interesse per l’unica ragazza presente nel gruppo che sembrava, con mio sommo stupore, ricambiare le sue attenzioni. La colazione che avevamo fatto al mattino aveva esaurito la sua efficacia ed un certo languore iniziava ad insinuarsi nei nostri stomaci. Chiedemmo a Paolo, uno dei ragazzi con i quali avevamo fraternizzato, dove poter rimediare qualcosa da mangiare. Forse per empatia o per spirito di un emergente senso di fratellanza universale, si offrì di ospitarci a casa sua. Inizialmente rifiutammo cortesemente l’invito ma, dopo la gentile insistenza di questo nostro nuovo amico, accettammo. Entrammo tutti nella cinquecento. Cedemmo a Fiorella, sorella di Paolo, il posto accanto al guidatore per la gioia di Marco che sembrava sempre più visibilmente preda della bellezza della ragazza. Io, Federico, lo zaino tenda, Paolo e la sua chitarra, ci sistemammo, come aringhe in un barile, sul sedile posteriore. Per nostra fortuna, l’abitazione di Paolo e Fiorella non era molto distante dalla piazza e così fummo presto liberati da quella incresciosa e scomoda posizione. I genitori dei nostri nuovi amici erano delle persone gentili, molto aperte e disponibili e ci accolsero con cordialità nella loro casa tanto da farci sentire subito a nostro agio. Il papà, direttore dell’ufficio postale, dimostrava circa cinquant’anni; era alto con capelli brizzolati e curati mentre la mamma, un’insegnante di scuola media, era una donna ancora piacente con capelli lunghi, color rame e splendidi occhi verdi proprio come quelli di sua figlia, tanto da sembrare due versioni dello stesso soggetto. Ci offrirono un pranzo gustoso ed abbondante condito con sincera e benevole simpatia. Non occorreva essere un veggente per scoprire che il cuore del nostro Marco si era inesorabilmente tuffato negli occhi verde mare di Fiorella e per me e Federico cominciò ad insinuarsi l'idea che, per lui, il concerto dei Beatles sembrava aver smarrito l'iniziale interesse. Per un po’ restammo nel soggiorno dove insegnai a Paolo alcuni nuovi accordi di chitarra mentre Marco e Fiorella seduti su di una panca, sotto il pergolato del terrazzo, erano intenti a ”giocare” a Giulietta e Romeo incuranti del resto del mondo. Le lancette dell’orologio si muovevano velocemente perciò era necessario ripartire subito se volevamo raggiungere Roma, in tempo, per il concerto. Recuperammo a stento il nostro amico che esordì: “ Fiorella, ti piacerebbe venire a Roma con noi?“ Fiorella, era ancora alla ricerca della sua risposta, che Paolo urlò: “Si! Si! Si! Veniamo anche noi”. Il solo pensiero di arrivare a Roma pigiati nella cinquecento mi fece venire la voglia di andarmene a piedi e mi pentii per l’ennesima volta di non aver optato per il treno. I volti imploranti dei due fratelli fecero breccia nei cuori dei loro genitori. Dopo una lunga estenuante trattativa, la signora Evelina e il marito concessero il permesso ma a patto di osservare massima prudenza nella guida e telefonare una volta giunti a Roma. Paolo ci fornì un portapacchi sul quale sistemammo lo zaino della tenda ed un borsone che la premurosa signora Evelina aveva riempito di panini farciti con salumi vari e qualche abito di ricambio e finalmente, ripartimmo. Marco alla guida dell’auto, più che occuparsi della strada, flirtava costantemente con Fiorella che era seduta al suo fianco. Quando Marco le parlava la ragazzina vibrava come una cetra sfiorata dalle sapienti mani di Apollo. Ahhh! l’amour, l’amour! Noi tre invece, stipati nel sedile posteriore, per evitare l’atrofia delle membra e la noia, non facevamo altro che suonare la chitarra che Paolo aveva portato con sé, fungendo da colonna sonora all'evidente idillio che stava nascendo tra i due. Considerato che eravamo seduti in una posizione non proprio ottimale, la chitarra era praticamente suonata a “ quattro mani “ e cioè io prendevo gli accordi con la mia mano sinistra mentre Paolo, con il plettro nella sua mano destra, percuoteva le corde. In questa situazione Federico doveva fare attenzione a non essere colpito dal manico della chitarra nella foga della “ performance “. Insomma eravamo diventati una specie di autoradio vivente. L'idilliaco quadretto tra Marco e Fiorella venne bruscamente interrotto dal copioso fumo biancastro che improvvisamente sgorgò dal cofano dell’auto, lasciando una vistosa scia dietro di sé. L’eccessivo sforzo, per le tante salite affrontate aveva fiaccato la povera cinquecento. Avevamo superato, da molti chilometri, Cassino e davanti a noi apparve un paesino che scoprimmo essere Rocca D’Arce. Lo raggiungemmo avvolti da una nuvola di fumo. Marco aprì il cofano constatando che il motore emanava un calore a dir poco vulcanico. Dopo averlo fatto raffreddare, constatò che quel po' d'olio che era rimasto era bruciacchiato, e che quasi certamente il motore aveva subito un danno di rilievo che in cuor suo sperava riparabile. Alcuni passanti ci indicarono una officina che si dedicava di solito alla riparazione di mezzi agricoli. La cinquecento fu trainata con un trattore in quella che sembrava essere più un deposito di rottami che una officina, e il meccanico iniziò a verificare con calma il danno. Erano ormai le 19 e 30 del 26 giugno 1965, il concerto sembrava svanire sempre più. Marco non poteva abbandonare la sua auto ma sopratutto non voleva allontanarsi dalla bella Fiorella. Paolo non poteva lasciare sua sorella altrimenti i suoi genitori, pur avendo idee progressiste, lo avrebbero spellato vivo e così si era creato una sorta di stallo dal quale bisognava, in qualche modo, venir fuori. Dopo qualche minuto di silenzio Federico ed io all’unisono pronunciammo queste lapidarie parole: “ Noi proseguiamo con l’autostop !“. E fu così che, dopo aver preso un paio di panini con salame, un paio di mele e lo zaino, salutammo con gran dispiacere i nostri amici e ci avviammo, a piedi, lungo la via Casilina che portava a Frosinone. Avevamo camminato appena per qualche centinaio di metri che un Ape, il famoso tre ruote con rimorchio, guidato da un rubicondo signore si fermò e ci diede un passaggio sino a Ceprano dove, poco dopo, un gentile camionista che trasportava ortaggi ci offrì un passaggio sino a Frosinone e lì ci fermammo perché ormai incombeva la notte e sarebbe stato inutile proseguire. Sotto un grande albero rizzammo la piccola tenda, protetti da una alta siepe e lì trascorremmo la notte. Lo scrosciare dell’acqua, tipico della pioggia ci svegliò all'improvviso. Uscimmo rapidamente dalla tenda e scoprimmo che non si trattava di pioggia bensì di un giardiniere mattacchione che si divertiva nel dirigere, sulla nostra tenda, il getto d’acqua emanato dal tubo di gomma che aveva tra le mani e con il quale di solito innaffiava le piante. “ Questa è una villa comunale non un dormitorio per vagabondi capelloni. Sloggiate in fretta, prima che chiami un vigile“ e diresse il getto d'acqua verso una siepe. Smontammo velocemente la tenda che Federico rimise diligentemente nello zaino nonostante fosse, in parte, inumidita dall’acqua e cercammo un bar dove poter bere una tazza di caffè caldo e qualcosa da mettere sotto i denti. Erano circa le otto del 27 giugno 1965, giorno del concerto e noi non avevamo ancora raggiunto la nostra meta. Salimmo sull’autobus delle 9 e 7 minuti e dopo meno di un'ora, il bus si fermò nei pressi della Stazione ferroviaria di Roma. Incrociammo e ci unimmo a gruppi di ragazzi e ragazze con abiti variopinti e capelli lunghi che, come noi, erano diretti al Teatro Adriano. Dopo aver percorso un bel po’ di strada a piedi, finalmente giungemmo di fronte al teatro che per la verità non ci fece una bella impressione perché ce lo immaginavamo molto più appariscente. Il teatro era circondato da mezzi della polizia e da un numero imprecisato di agenti dallo sguardo arcigno in contrasto con l’entusiasmo e la gioia delle centinaia di ragazzi e ragazze che erano all’esterno. Alcuni avevano bivaccato lì tutta la notte, per poter acquistare il biglietto del concerto ed essere tra i primi a varcare la soglia del teatro. Altri invece, molto più saggiamente, erano già in possesso dei preziosi biglietti perché acquistati per corrispondenza o nei giorni precedenti. Le voci che circolavano affermavano che il botteghino avrebbe aperto alle 3 del pomeriggio. Considerato che la fame iniziava a farsi sentire, mangiammo i panini con il salame che aveva preparato la signora Evelina e per non restare inattivi decidemmo di gironzolare nei paraggi. Nei pressi di un chiosco di bibite, un gruppo di napoletani, arrivati con il treno, cantava a squarciagola gli ultimi successi dei Beatles, accompagnandosi con chitarre acustiche, solo che lo facevano non in inglese ma nel classico dialetto partenopeo. Una esibizione, per me, fedelissimo dei Beatles, assolutamente blasfema ed irriverente anche se per certi versi esilarante ed originale. Dopo aver bevuto una aranciata acquistata al chiosco di bibite e tamponati i morsi della fame, ci accodammo alla lunga fila che stazionava davanti al botteghino. Il concerto pomeridiano era fissato per le 16 ed erano tanti i ragazzi, come noi, in attesa di acquistare il biglietto. All’improvviso la fila si risvegliò dall'apparente torpore nel quale sembrava essersi addormentata come un serpente che riscaldatosi al sole scivola velocemente sulle rocce. Il botteghino aveva appena aperto i battenti e tutti volevano impossessarsi, al più presto, del prezioso lasciapassare. Ad un certo punto, cominciò a spargersi la funesta voce che i biglietti per lo spettacolo erano esauriti. Alla terribile e devastante notizia ci assalirono, come morsi di una belva feroce, lo sconforto, la rabbia e la delusione. Restammo comunque testardamente in fila. Sarebbe stata, per noi, una disgustosa beffa non poter ascoltare dal vivo i nostri beniamini dopo tutte le disavventure affrontate lungo il viaggio. Purtroppo l’incubo divenne realtà; i biglietti c’erano ma erano rimasti solo quelli per le poltronissime o per alcuni palchi al costo proibitivo di cinque mila lire ciascuno, una cifra pazzesca per l’epoca, roba da nababbi. In realtà ero in possesso di quella somma che era quanto restava delle seimila e cinquecento lire di cui disponevo alla partenza da Monopoli ma non potevo utilizzarla perché con essa mi sarei assicurato il ritorno a casa. Insomma una situazione che avrebbe ispirato a chiunque un immediato harakiri. Impotenti e pieni di amara delusione assistemmo all’apertura delle porte e alla marea di raggianti giovani che, come un fiume in piena, invase l’ingresso del teatro. Agli sfigati privi di biglietto come noi, non rimaneva altro che ascoltare dall’esterno le urla gioiose dei fan e qualche raro ed impercettibile suono. Dovevamo accontentarci della consapevolezza che, in quel momento, i nostri amati Beatles erano a poche decine di metri da noi. Sconsolati e rassegnati ci sedemmo sul marciapiede di fronte al teatro con le spalle poggiate allo zaino, in attesa di un miracolo che, eravamo certi, non sarebbe mai avvenuto. Erano le 20 e 30 circa, quando due ragazze piuttosto impacciate e nervose si fermarono nei pressi del teatro. Sembravano attendere l’apertura delle porte per lo spettacolo serale che si sarebbe tenuto di lì a poco. Erano molto carine ma continuavano a guardarsi intorno con circospezione, come se avessero paura. Non avendo null’altro da fare e giustificati dal fatto che i nostri ormoni giovanili scorazzavano impazienti come cavalli imbizzarriti, tentammo l’approccio. Erano sorelle, la più piccola si chiamava Sabrina e aveva 14 anni , indossava una minigonna a piegatine, in tessuto scozzese, con prevalenza di rosso e una camicia bianca, mentre Giulia di anni ne aveva 18, indossava jeans aderenti, una maglietta di colore verde pistacchio e una piccola borsa a tracolla dello stesso colore. Ci confessarono che i Beatles erano la loro passione, ed avevano acquistato i biglietti per corrispondenza, dalla rivista” Ciao Amici”. Dopo qualche minuto di piacevole conversazione, le due ragazze sembrarono più rilassate, evidentemente dialogare con noi le aveva in qualche modo rasserenate. I loro genitori, piuttosto conformisti, almeno così ci confidarono, non apprezzavano la musica pop e le due sorelle, per assistere al concerto, avevano fatto credere loro di essere state invitate a casa di un’amica di scuola per la sua festa di compleanno. Lo schiaffo che arrivò rabbioso e improvviso sulla faccia di Federico lo colse di sorpresa. Contemporaneamente, una mano simile ad una tenaglia afferrò il braccio di Sabrina strattonandola e facendole perdere quasi l’equilibrio. Giulia, spaventata, cercò di proteggersi facendosi scudo con il mio corpo. Il povero Federico non riusciva a rendersi conto se lo avesse investito un elefante o travolto un tram. In realtà era un energumeno violento e rabbioso che ce l'aveva con noi e gridava: “ Sporchi capelloni, drogati, fannulloni, debosciati. Vi faccio a pezzi. " E afferrò Federico alla gola mentre rivolto a Giulia urlava: "Vieni immediatamente qui! " Poi alitando sulla faccia dello smarrito Federico e volgendo il suo truce sguardo verso me grugnì: "Sparite idioti o vi faccio a pezzi “. Era il becero padre delle due terrorizzate ragazze. Stringeva fortemente il braccio della povera Sabrina che, per il dolore, faceva delle smorfie che le deformavano il suo bel visino mentre indirizzava, alla spaventata Giulia uno sguardo che avrebbe fulminato persino un tirannosauro. Mentre trascinava via le due povere fanciulle, Giulia pose rapidamente nella mia mano i loro preziosi biglietti del concerto. Rimasi colpito e commosso dal gesto di quelle graziose e sfortunate ragazze. Mentre le vidi andar via, provai un pungente rancore nei confronti di quel genitore becero, insensibile e fascistoide. Giulia abbozzò un sorriso ed io la salutai agitando la mia mano con immensa gratitudine, fino a che lei e la sorella sparirono inghiottite dall’auto di quel padre padrone che le portò via. Una marea umana ci spinse nel teatro e, quasi fluttuando ci ritrovammo in galleria. Il frastuono provocato dalle urla era assordante e la visione del palco, dall’alto della galleria, non era delle migliori, tuttavia traboccavamo felicità per essere lì in quel momento. Le urla si attenuarono solo quando apparve sul palco la bella Rossella Como che presentò, insieme al comico Lucio Flauto, i gruppi che si esibirono in attesa dell'evento principale, il concerto dei Beatles. Suonarono, Guidone e gli Amici, Fausto Leali, i New Dada e Peppino di Capri. Per la verità questi musicisti non suscitarono nei presenti, me compreso, grande interesse perché eravamo lì solo per John, Paul, George e Ringo. Finalmente, dopo una lunga pausa, iniziò la seconda parte dello spettacolo e l’avvenente Rossella, in un improvviso quanto surreale silenzio annunciò: “ Ed ecco a voi… i favolosi… Beatles“. Il boato che seguì all’apparizione dei “Fab four” fu assordante ed emotivamente coinvolgente. I battiti del mio cuore pulsavano all'impazzata e galoppavano nel mio cervello come il cavallo di William Cody lanciato a spron battuto nella prateria. Era terribilmente eccitante appartenere a quella marea di ragazzi che, come un mantra, citavano all'unisono i nomi dei nostri comuni beniamini. Ringo e la sua batteria era arretrato rispetto agli altri, mentre Paul, con il suo arcinoto basso a forma di violino, era posizionato a sinistra del palco. Al centro c’era George, che durante il concerto si avvicinava spesso al microfono posto dinanzi a Paul per cantare insieme a lui. Sulla destra, un po’ isolato dagli altri, il grande John. Riuscii a sentire in maniera decente solo l’inizio del brano di apertura del concerto, che era uno dei pochi brani del repertorio non scritto dai Beatles ma che, sin dai loro esordi, rappresentava la sigla di apertura delle loro esibizioni. Si trattava di “Twist and Shout”, di Medley e Russell. In seguito le voci e il suono degli strumenti erano per così dire “soffocati” dall’affetto urlante dei fan scatenati. I Beatles sembravano come pesci in un acquario. Muovevano le labbra ma ascoltarli cantare era praticamente quasi impossibile. Solo quando ringraziavano o annunciavano, in un incerto italiano, il titolo di un loro brano, riuscivamo a percepirne la voce. L'eccitazione era generale. Alcune ragazze torturavano i loro capelli con le mani, altre piangevano, altre ancora urlavano fino a farsi gonfiare le vene del collo. Una ragazza, poco distante da noi, era immobile, sembrava in estasi poi crollò svenuta per l’emozione o per il caldo decisamente eccessivo. Fu portata fuori dalla galleria a braccia, passando sulle teste degli spettatori. Questo era l’effetto della reale beatlesmania per nulla differente da quella rappresentata nel film di Lester “ Ha hard day's night“. Il caos era pazzesco, tuttavia qualche brandello di canzone si riusciva a percepire come accadde per “And I Love Her“, “Yes it is“ e “I’m a loser“. Terminato il repertorio stabilito, i Beatles guadagnarono rapidamente le quinte sparendo alla nostra vista. Il pubblico però non accennava ad andarsene e continuava a reclamare la loro presenza. Qualcuno tentò persino di salire sul palco, subito fermato dagli addetti alla sorveglianza. Il tanto atteso, ma purtroppo breve magico rito laico, era definitivamente terminato. Noi che eravamo in galleria fummo sconfitti dall’insopportabile caldo e dalla polvere che faceva lacrimare gli occhi e bruciare la gola. Rapidamente come eravamo entrati, guadagnammo l’uscita. All’esterno centinaia di ragazzi e ragazze non accennavano ad allontanarsi dal teatro, nella segreta, ma improbabile speranza, di ottenere l’autografo dei favolosi quattro musicisti e magari poterli toccare e stringere loro la mano. Per la verità era anche il nostro desiderio ma ormai la mezzanotte era stata superata da un bel pezzo e vigili urbani e carabinieri tentavano, invano, di convincere i più tenaci fan a tornarsene a casa. Improvvisamente si affacciarono all’esterno del teatro due addetti al servizio d’ordine che stringevano tra le mani alcuni pacchi di quelle che sembravano essere delle cartoline e che immediatamente lanciarono per aria. Alcune di esse planarono nella nostra direzione. Tutti si protesero verso quelle svolazzanti farfalle. Io fui velocissimo e raccolsi, strappandola quasi dalle mani di una indemoniata ragazza, quel cartoncino. Scoprii, con meraviglia, che rappresentava una bellissima foto dei Beatles impreziosita nientemeno che dai loro autografi. Raggiungemmo, la stazione Termini come reduci di una terrificante ma vittoriosa battaglia, desiderosi però di tornare al più presto a casa e raccontare la magia del momento che avevamo vissuto. Alla stazione acquistammo i biglietti e qualche ora dopo, eravamo sul treno proveniente da Milano e diretto a Lecce. Federico aspirava il fumo della sua ennesima sigaretta, mentre osservava estasiato la foto dei nostri comuni beniamini. Io mentalmente rivedevo, ogni fotogramma del concerto; poi, stanco ma felice, mi addormentai. Mesi dopo, mentre svolgevo gli esami di Stato, Federico mi informò che il nostro amico Marco, in quello stesso giorno, convolava a nozze con la sua amata Fiorella. Da tempo era impiegato alle poste di Isernia e viveva in casa con i suoceri. Paolo, suo fratello, si era trasferito a Londra e suonava la chitarra in un gruppo musicale con il quale aveva inciso persino un quarantacinque giri e, ormai faceva parte a pieno titolo di quel movimento artistico definito swinging London. Qualche anno dopo a Bari ero in corso Cavour davanti alla sede della SIAE e con mia grande sorpresa e piacere mi venne incontro una persona che non mi sarei mai immaginato d'incontrare. Era Marco tornato a Bari per far visita ad alcuni suoi parenti. Ci abbracciammo calorosamente come avrebbero fatto vecchi reduci della prima guerra mondiale anche se molto più modestamente eravamo stati compagni di una pur memorabile avventura giovanile. Mi raccontò del suo matrimonio, del suo lavoro di direttore alla Posta Centrale di Firenze e sopratutto che era diventato papà di due splendide bambine dai capelli rossi alle quali, come ninna nanna, cantava “Here, There and Everywhere“ di Lennon, Mac Cartney e spesso raccontava loro, come fosse una favola, del nostro avventuroso viaggio, artefice del suo magico incontro con mamma Fiorella. Rammentava, con tenerezza, che se erano nate, un po’ lo dovevano anche ai magnifici quattro moschettieri della canzone pop, i Beatles.

3° classificato: “Clochard: la triste storia di Joaquim Fernandez”
Di: Claudio Marengo da Alba (Cn)
Motivazione: amaro compendio di una storia vera, sorta di parabola umana dalle umili origini al periodo dell’affermazione ad alti livelli nello sport fino alla caduta e al degrado e alla morte nella miseria della banlieue.
“ClochArd” – La triste storia di Joachim Fernandez
(liberamente ispirato ad una storia vera)
Il Casamance a dicembre è ancora ingrossato dalle piogge, le piogge della stagione delle piogge. Le piogge, meravigliose piogge, le piogge maledette piogge…anche quelle di danaro e di successo. Il Casamance scorre in Senegal, nella sua parte meridionale: scorre in terre piatte, spesso paludose e le sue acque sono attraversate da piccole imbarcazioni di pescatori, che attraccano poi su sponde ricche di vegetazione; piroghe e natanti sulle quali marinai primitivi dalle fragili onde tirano su pesci dal sapore fangoso. Dove sei, Casamance? Dove siete, pescatori? Dove sei, amore mio? Dove sei, figlio mio? Diosanto…Qui fa freddo, fa tanto freddo!
Questo enorme serpentone d’acqua, dopo aver attraversato chilometri di nulla, bacia l’Atlantico con un estuario che se lo sognano in Europa…l’Europa che ci ha “scoperti”, l’Europa che ci ha dominati, talvolta aiutati, più spesso sfruttati. Vabbeh, sono passati anche secoli, da quando quell’ “italiano” che non sapeva ancora di essere italiano venne a farci visita e per qualche cavallo ne prese quasi cento, di nostri amici e fratelli. “Sciavi” li chiamava, chissà…fra quei cento, magari c’era pure qualcuno della mia famiglia. Che bello, il Senegal! Sì, anche a dicembre. Ed era il 6 dicembre del 1972 quando mamma mi diede la vita: donna bellissima, mia madre…forse fu lei la musa di Senghor, “donna nuda, donna nera”. Che tempi, gli anni della nègritude! Tempi in cui non eravamo più “sciavi”, ma uomini liberi, alla ricerca di noi stessi, della nostra cultura, della nostra storia, delle nostre radici. Radici. Penso alle radici e mi vengono in mente quelle profonde degli alberi, che scavano la terra, penetrano nel suolo profondo, arrivando fino al cuore. Ma che spesso non riescono da esso ad uscire. Prigionieri della propria libertà. Siamo stati anche questo, noi africani, noi senegalesi. Radici. Meraviglioso limite. Senghor ci aveva avvertiti:”La vera cultura è mettere radici e sradicarsi”. Certamente, non farsi sradicare, ma sradicarsi. Ci siamo riusciti? Spesso ho mangiato le radici. Le mie radici. Non c’era molto altro, negli anni 70 a Ziguinchor, a meno che tu non fossi abbacchiato coi francesi. E i miei di abbacchiarsi coi francesi, almeno con quei francesi, lì in Senegal per amore del denaro (amore che avrei conosciuto anche io, maledetto me!), non ne avevano proprio voglia. Se loro sono venuti qui…ma perché non andiamo noi là? Addio Senegal, addio Casamance, addio Senghor. Il mio viaggio inizia qui, da ragazzino ti lascio, materna mia terra, ma tornerò. Tornerò. Giuro! Bordeaux. Gli zii abitano qui. Mamma e papà sono rimasti in Senegal: le radici non pagano più di un biglietto di sola andata per il sogno. C’è il mare, poco distante. E’lo stesso oceano che ho lasciato anni fa. Questo mi rincuora. Certo, è tutto diverso: palazzi, traffico, uffici, automobili, gente che va di corsa (ma dove andrà così di fretta?!) e io che vado a scuola. Da solo. Non ho molti amici qui, anzi, quasi nessuno. Ma anche io avrei “paura” ad andare in giro con me stesso: sfioro il metro e ottanta e non ho neanche 18 anni, grosso, robusto, un armadio. Incuto timore. Ma qualcosa di delicato ce l’ho anche io. Sì, i piedi. Sarà per le tante corse sulle rive del Casamance, sarà per merito della mia bella mamma, ma i piedi li so usare. E non solo per camminare, ma anche per tirar calci al pallone. Lui sì, che è mio amico: silenzioso, pacifico, ubbidiente, educato…come me. E i miei piedi. Anche altri si sono accorti dei miei piedi. Un tizio qui dice di allenare i ragazzini della squadra della città e mi ha convinto a seguirlo. Ora sono nelle giovanili, li chiamano i “Girondini”. Chissà perché, ma mi piace. E io piaccio a loro. Gli anni passano e io continuo a crescere in altezza e nel fisico. Il tizio e i suoi colleghi, li sento parlottare un giorno… Dicono cose del tipo:”Il ragazzo deve crescere”, “Deve farsi le ossa”, etc. Mi mandano in un’altra società, dove posso migliorare la mia tecnica e le mie qualità possono avere tempo di esprimersi.
Sedan. Freddo. Dio mio che freddo! Le mie lunghe gambe spesso attraversano questa poltiglia bianca che qui chiamano “neve”: mai vista prima! Ti ghiaccia la testa, finanche i pensieri sono ghiacciati. Ti ghiaccia il corpo! E i piedi? Mamma mia, mi dolgono da morire. Non bastano calze e calzini, sono irrimediabilmente freddi. Quei piedi che bagnavo in acque torbide, ma calde adesso spesso riposano dinanzi al timido calore di un camino. Però i piedi continuo a saperli usare. Il mio mister è un tipo in gamba, si chiama Michel Leflochmoan: non ho ancora vent’anni e tiro calci con Delmotte e De Neef, gente da decine e decine di match nella serie A francese. Il Sedan è al momento in seconda serie, ma per me è un sogno giocare tra i professionisti! Il mister mi manda in campo una quarantina di volte e io non me la cavo affatto malaccio. Segno anche un gol! Io che fino a pochi anni fa pescavo sulle rive di un fiume senegalese. E anche i guadagni non sono male. Sembra girare tutto nel verso giusto adesso. Angers. Altra stagione in seconda serie. Città splendida, patria di quel Bodin che disprezzava “l’abbondanza di oro e argento” (Jean, parlavi di me?). Anche qui c’è l’acqua. Non è l’oceano, ma un fiume. La Maine. E’destino. E’sempre il destino che manovra le nostre vite. O almeno la mia. O almeno così mi piace pensare, quanto meno per scaricarmi la coscienza dai miei errori, dalle mie responsabilità. Qui mister Guesdon mi utilizza spesso, gioco abbastanza da mettermi per bene in mostra. E anche qui segno un gol. 27 partite. Il sogno continua.
Bordeux. Parte II. Erano prestiti e si sa come funziona nel mondo del calcio. Ti mando lì, là…nella speranza che tu possa esplodere. Beh io il mio l’ho fatto. E anche benino. Sulla panchina del Bordeaux c’è un serbo, Slavo Muslin. Uno che da giovane giocava in difesa. Come me. Ed è stato bandiera della gloriosa Stella Rossa Belgrado. Mi inserisce nella seconda squadra. Ma per lui sono invisibile. Rimango tra le riserve e solo talvolta posso assistere (non partecipare, assistere) agli allenamenti della prima squadra. E sapete chi c’era in quel Bordeaux di metà anni 90? Lui. La classe cristallina, talento puro, luce del calcio. Lui. L’immenso Zinedine Zidane. Ha 23 anni, come me e gioca come mai avevo visto fare. Accarezza il pallone come si fa con una bella ragazza. E con lui in rosa c’è qualcuno che conoscerete sicuramente, almeno di nome: Lizarazu, Dugarry, un’olandese che si farà valere tanto, Witschge, e anche un certo Prunier che giocherà nella prestigiosa piazza di Napoli, seppur poco e male. Ma capita. Ci sta. E’ una bella squadra davvero. Spesso li vedo dalla tribuna. Ma i miei occhi sono solo per Zizou. Come fa, mi chiedo in continuazione. Dai mister, chiamami. Dai, mister…almeno una convocazione, anche solo in allenamento, anche solo in panchina. Ma lasciami giocare con Zizou, con Christophe, con questi grandi campioni. Dai, mister. Niente. Poi succede. Sì, ragazzi…succede. E’inizio novembre del 1995, non potrò mai dimenticare quei giorni: alcuni difensori non sono disponibili, tra infortuni e squalifiche e lo slavo viene da noi, nelle riserve. Parla col nostro mister, chiede, chiacchiera e poi mi indica. E’fatta. Sono convocato e non per andare in panchina: signori, gioco titolare il match dell’8 novembre (dopo il mio compleanno, festeggio anche ogni 8 novembre!) a Lens. Il Lens di quel Bolì che porterà sul tetto d’Europa il Marsiglia, il Lens di quel Laigle che a Genova, sponda Sampdoria, lascerà ottimi ricordi, il Lens di altri volti noti come Dehu e del mio vecchio amico Delmotte. Il nostro 11 di partenza: Huard, io, Croci, Dogon, Prunier, Lizarazu, Toyes, Dutuel, Witschge, Grenet e Bancarel. Finirà 0-0. Io gioco tutto il match. Loro non segnano, io faccio un figurone! Muslim si complimenta, i compagni mi abbracciano. Certo, non abbiamo vinto, ma è un buon pari, fuori casa. E dopo l’esordio nella serie A francese, arriva anche quello in Europa: ottavi di finale di Coppa Uefa contro il Betis Siviglia, di quel Robert Jarni che addirittura indosserà la maglia della Juve. All’andata s’è vinto per 2-0, il ritorno lo giochiamo con noi ragazzi in campo. Prima del match, arrivano i giornalisti e mi chiedono se ho timore, paura e io rispondo, con semplicità, con ovvietà:” Loro hanno le magliette e noi abbiamo le magliette. Loro hanno le scarpe e noi abbiamo le scarpe. Perché aver paura?”. La mia dichiarazione fa il giro del paese. Passiamo in vantaggio con Zidane (un lob da 35 metri! La classe, dicevo…), ma veniamo rimontati. Perdiamo, ma passiamo ugualmente il turno. Io gioco ancora una volta tutti i 90 minuti e mi becco pure un giallo! Fa nulla! Torno fra le riserve con altro spirito, nella speranza di una nuova chance. Che arriva dopo pochi giorni. Andiamo a giocare a Nantes e di fronte ho Pedros e Cauet, altri due che hanno conosciuto l’Italia. Sarà mica questo il mio destino? Va male, molto. Ne prendiamo due, doppietta di N’Doram. C’è Zidane in campo e per me è già una vittoria. Io non brillo, ma comunque ancora una volta gioco tutto l’incontro. Dopo l’entusiasmo, arriva il limbo. Passano i giorni, le settimane, i mesi e io ritorno fra le riserve aspettando nuovamente la chiamata da Rohr (un tedesco subentrato a quell’antipaticone di Muslim, che sta al Bordeaux come Facchetti all’Inter), ma non arriva. Arriva l’inverno più cupo della mia vita, anzi…ne vivrò altri peggiori, sicuramente, ma questo è veramente triste. Dimenticato. Mi rispolverano a marzo. Ed è sempre in occasione della Coppa Uefa. E’ un’impresa improba: il Milan di Capello all’andata ci ha uccellato due volte a San Siro. Ehi, il Milan di Capello, capito? Sì, quello di Baggio, Weah, Donadoni, del mio mito Vieira, Baresi, Maldini…è il gotha del calcio. Meglio in giro non c’è. A Bordeaux, nella partita di ritorno, siamo destinati a fare gli agnellini, le vittime sacrificali. Poi qualcuno o qualcosa (il destino?) decide che le cose debbano andare diversamente: dopo un’oretta di gioco siamo sul 2-0 per noi. Zidane e Dugarry si trovano a meraviglia e i totem rossoneri fanno una figuraccia. E’la notte del Bordeaux, è la nostra notte. Dugarry (che, ironia della sorte, diverrà rossonero poco dopo) la mette nuovamente dentro. Siamo sul 3-0, Davide surclassa Golia, la storia si ripete. Io sto in panchina. E’già tanto esserci. Esulto ad ogni gol, corro ad abbracciare chiunque. Poi a 5 minuti dalla fine, quando i milanisti premono, quando Weah spaventa il nostro Huard più volte, quando il sogno sta per diventare incubo perché basta una rete loro e siamo fuori dalla Coppa….quando c’è tutto questo, mister Rohr mi dice: ”Scaldati che entri!”. Io? Io, mister? Ma sei sicuro? Anche se solo per pochi minuti, fosse anche un solo secondo, io devo marcare George Weah? Fu così: esce Tholot e io vado lì dietro a fare diga, a fare resistenza, a fare linea Maginot. Quando il turco Cakar emette tre fischi esplode la gioia, l’impresa è compiuta. 3 – 0 al Milan! Impensabile, anche per il più folle dei folli! C’è ancora la Coppa Uefa e andiamo a giocare a Praga, contro il sorprendente Slavia di Poborsky (italiano anche lui, l’incubo degli interisti). Dopo 8 minuti il nostro Christophe ci porta in vantaggio. Da qui è solo catenaccio. Che dura fino alla fine, con me a dare una mano lì dietro negli ultimi minuti. Vinciamo uno a zero. Stesso risultato del ritorno, ma io in Europa non giocherò più. Mai più convocato. E i miei amici girondini volano in finale. Un traguardo inimmaginabile solo fino a pochi mesi prima. Certo, il Bayern è uno squadrone e noi giochiamo l’andata senza i nostri due alfieri, Zizou e Christophe, squalificati. Perdiamo 2-0, ma ormai siamo abituati alle rimonte, no? La storia si ripete no? No, stavolta no. Al ritorno i tedeschi (che tanto crucchi non sono visto che hanno in campo Klinsmann, Papin, Matthaus, Sforza e Ziege, manovrati sapientemente da Kaiser Franz Benckebauer) ce ne danno 3. La vincono loro la coppa, ma noi siamo la felice sorpresa del torneo. E io? Io sono ritornato un po’ nell’ombra, ma pochi giorni dopo la disfatta europea ritorno in prima squadra. Ci sarà ancora spazio per me? Sono in campo nella partita di ritorno del mio esordio: in casa contro il Lens. E va come all’andata. Identico. 0-0. Partita scialba, ma io non demerito e dopo meno di un mese Rohr mi manda in campo ancora una volta da titolare e per tutto il match contro il PSG di Djorkaeff, idolo della Milano nerazzurra, e Dieng, incubo della Genova doriana. Ancora pari, ma per 2-2. Rohr mi dà nuovi compiti: ricordate la storia dei piedi? Tranquilli, ho sempre freddo, ma i piedi sono sempre delicati e il tedesco dalla panchina spesso mi incita ad avanzare palla al piede, ad impostare, a dare il via alla manovra girondina. Non mi ci vedo mica male, a centrocampo. D’altronde l’ho detto, Vieira è il mio idolo. La mia stagione al Bordeaux si chiude con mezzo match giocato a fine campionato contro il Lille, a giochi fatti, un match senza particolari obiettivi, vinto facilmente. E ora? Mi confermano, mi daranno via? In prestito? Mi vendono. Definitivamente. E io accetto, il contratto è ottimo. Soldi, tanti. Caen. Sul mare. Anche se ritorna il freddo e non è Bordeaux, né tantomeno il calmo oceano africano. Vento, pioggia e spesso tempeste dominano le mie giornate. Qui finalmente ho possibilità di giocare titolare e in prima serie, seppur in una squadretta senza troppe pretese, anzi una sola: salvarsi. Segno un gol, gioco 29 incontri, faccio coppia con Gallas che da qui poi supererà la Manica (ci vuole poco…) e farà fortuna in Inghilterra. Ma ormai divento spesso anche perno del centrocampo. Intanto, io la mia fortuna me la sono costruita e me la costruisco tuttora. Rimango un tipo chiuso, taciturno, parlo poco, con mia moglie non va granché bene. Aspetta un bambino. Ma qualcosa non va. Non sono sereno, non mi sento sereno. I soldi non mancano e anche le pressioni: i primi li spedisco spesso anche a casa, giù in Senegal…partono freddi e arrivano caldi. Le seconde le tengo per me. Il Caen retrocede. E mi vende. Udine. Di me qualcuno si ricorda ancora. E’Alberto Zaccheroni. E’lui che mi vuole ad Udine. La fortuna torna a girare. Il destino torna a girare. Io torno a girare. Il freddo lo troverò sempre sulla mia strada e anche quello del Friuli non scherza! Ma è la seria A. A 25 anni è il massimo. Posso ripartire e dal meglio del meglio: Juve, Inter, Milan, Roma…mi confronterò con queste squadre. Non vedo l’ora! E l’ora arriva subito: 31 agosto del 1997, arriva la Fiorentina di un mostro come Batistuta e di un altro piedino fatato (io che ho visto all’opera quello di Zizou me ne intendo…), cioè Rui Costa. Al 72esimo siamo sul 2-1 per noi. Si deve difendere questo vantaggio. Zac richiama Paolino Poggi e mi manda in campo. E’l’80esimo, è il mio esordio. Devo fare muro e sono cose che so fare. Purtroppo non avevo mai incontrato un fenomeno come Batigol: in 10 minuti ci fa due reti. Vincono i toscani. Io rimedio una figuraccia. I 10 minuti più terribili della mia vita. I 600 secondi che mai avrei voluto vivere. Zac (qui lo chiamano così) dopo poco troverà la quadra: l’Udinese diventerà un treno in corsa; è una squadra di provincia eppure quell’anno farà cose favolose. Davanti c’è un tedescone che la butterà sistematicamente dentro: si chiama Oliver Bierhoff. Dietro, una difesa rocciosa. Arrivano a viaggiare nelle parti alte della serie A, ma Zac, trovato l’incantesimo, non ha tempo né voglia di concedere spazio (e prendersi rischi) a giovani e sperimentazioni di varia natura. E seconde chance. Per lui non esisto più. Mi cedono. Ho fallito. Che botta, ragazzi!
Monza. Tra la nebbia. A stento riesco a vedere i miei piedi, tanto è fitta! I miei piedi…che fine hanno fatto, dov’è finita quella grazia che li accompagnava?! E’ la serie B. Inizio con mister Radice e chiudo con mister Frosio, in mezzo c’è spazio anche per mister Bolchi. 6 occhi e nessuno che guarda me. Mi incupisco sempre più. Mia moglie sparita. Mio figlio idem. Non ho notizie da mesi. Non vedo vie d’uscita, poi con questa nebbia…che vuoi vedere?! Sto sempre solo. Certo, mi alleno ma non gioco nemmeno un minuto. Sto per fare le valigie, ma il Monza mi tiene ancora un anno. La nebbia aumenta. La disperazione pure. Mi convocano spesso, ma il campo lo vedo appena 5 volte e mai da titolare. Prestazioni sottotono. Mi lascio definitivamente andare. Ma almeno torno in Francia: il Monza mi gira al Milan che mi gira al Tolosa
Tolosa. Non c’è molto da dire. Sono ritornato in Francia per cercare mia moglie e mio figlio, ma di me non ne vogliono sapere. Gioco pochi minuti. La luce è lontana. Vado via. Ripartire dalla Scozia.
Dundee. Cosa trovo? Ovviamente freddo e pioggia. Pioggia e freddo. Fuori e dentro me. Solo, 7 partite. Nulla da dichiarare all’aeroporto. Direzione? Indonesia! Malang. Solo il nome rispecchia come mi sento. La squadra si chiama Persema. Mai sentita. Ma pagano. Poco, ma pagano. Ho giocato con Zidane, contro Baresi, calcato il campo della serie A…e mi ritrovo a 29 anni a scontrarmi contro tizi dai nomi impronunciabili: Nugroho, Rusdiana, Munawar…Un campionato ai limiti del dilettantismo. Merito questo? Forse sì. Qui almeno fa caldo, tanto caldo, troppo caldo. E c’è un mare di gente che parla una lingua a me del tutto ignota. La solitudine rimane, inalterata. Torno al gol. Gioco due partite. Ormai sono un ex giocatore. Meglio lasciare. Domont. Porte di Parigi. Banlieu, insomma. Freddo, freddissimo. E’ gennaio. Mi aggiro per il mercato rionale. Qualcuno mi offre un caffè caldo, qualche ortaggio, del pane e ogni tanto qualche sorriso. In fondo alla strada, sì quella che porta fuori dal paese, c’è un container abbandonato. La mia casa, qualche coperta, un fornellino e i pochi spiccioli che racimolo elemosinandoli ai passanti che ne hanno pochi di più. Indosso quel che trovo, mi lavo dove posso, mangio quando vogliono…quelli che mi danno due soldi all’angolo della strada. In Francia li chiamano “clochard”. Io sono uno di loro. Invisibile fra gli invisibili. Fantasma fra i fantasmi. Io, che il mio nome veniva annunciato dagli altoparlanti degli stadi europei. Io, che il mio nome è andato sui cartellini degli arbitri e negli archivi dei giornali sportivi più importanti del pianeta. Io sono questo ora. Com’è successo? Perché è successo? Dov’è Zizou? E Dugarry? Freddo, fa freddo, troppo freddo. Non la reggo più questa vita, questa storia, questo freddo…il container è completamente ghiacciato e la fiammella del piccolo fuoco acceso con due legnetti si sta spegnendo. Basta. Finisce qui. Triplice fischio. Buio.
Joachim Fernandez verrà trovato cadavere il 19 gennaio del 2016. Morto assiderato. Viveva da senzatetto ormai da anni. In paese era conosciuto come il classico barbone che non dà fastidio, sempre buono, anche se solo e taciturno. Come aveva vissuto. La sua salma è stata rimpatriata pochi giorni dopo. In Senegal.

Testi segnalati:
“L’abito azzurro” di Francesco Maria Mosconi da Ivrea (To)
“Un novembre a Parigi” di Filippo Radogna da Matera
“Con la coda dell’occhio” di Gabriele Andreani da Pesaro
“Due panchine” di Pietro Sesia da Torino
“Il biglietto” di Gianluca De Marchi da Torino
“La panchina gialla” di Piko Cordis e Luciana Censi da Ascoli Piceno
“Rumore di fusa” di Rita Graziani da Novara

Sez. poesie in lingua piemontese

Commento generale
Sia nella sezione poesia sia in quella di prosa sono stati presentati lavori di buona qualità, sia come temi trattati sia come forma e anche come scrittura. Il grande numero di autori che scrivono in parlate caratteristiche dei loro territori ha reso improponibile esprimere un giudizio sulla grafia utilizzata. È comunque positivo che non vi siano testi drasticamente insufficienti e che la fantasia sia stata sovente utilizzata per cercare dei temi che esulino dalle abituali nostalgie o argomentazioni sfruttate e scontate.

3° classificato: Maria Luisa Cantone da Trecate (No) con : “Lüna Pina”


“Lüna Pina”

Stasira, ’ndà ciél
l’èa ’ra lüna pina.
I dişu ch’a porta béch
mì, m’è ’na matalìna
i cröda ai pruerbi di vécc.
Cura facia bèla tunda
i öcc chi buşgu a’ ciél
ara buca a sméa ch’a ghigna
cunturnà da stöl lüşént
lè, dra nòcc l’è ’ra rigina.
I ciamaru cui culór püsè béj;
rusa, gialda, vérda e d’argént.
I murós, i guardaru incantà
intônt ch’i başasu suta i piônt
tacà i purtó, in més dì prà.
Quônt ch’a riva pö cul ténp
che rusa e gròsa m’è ’n balóch
talment l’è basa,che tè pòda
fìch tuchèra cunt i möch.
Che delüsióch suma pruà
quônd dü òjmi sü’ra lüna
inu şbarcà; suma gnü a savé
insì, che dumà
sas e póvra inu truà
Propi st’an ch’ i ricoru i cinquônt’ an
i bütuma in discusióch
se da buch inu sbarcà
o s’l’ è stai un’invensióch
Ma nüati che ’ra lüna
i guardumara dra tèra,
i vidümara uncó misterioşa e bèla.
Traduzione:

“Luna Piena”

Stasera, nel cielo
c’è la luna piena.
Si dice che porta bene.
Io, come una bambina,
credo ai proverbi dei vecchi.
Con la faccia bella tonda,
gli occhi che bucano il cielo,
la bocca sembra che rida,
contornata da stelle lucenti
lei della notte è la regina.
Viene chiamata con i colori più belli:
rossa, gialla, verde e d’argento.
Gli innamorati la guardano incantati
mentre si baciano sotto gli alberi,
dentro ai portoni e in mezzo ai prati.
Quando arriva poi quel tempo
che rossa e grossa come un pallone,
è talmente bassa che si può
perfino toccarla con le mani.
Che delusione abbiamo provato
quando due uomini sulla luna
sono sbarcati; siamo venuti così a sapere
che solo sassi e polvere hanno trovato.
Proprio quest’anno che ricorrono
i cinquant’ anni,
mettiamo in discussione
se veramente sono sbarcati
o se è stata un’invenzione.
Ma noi che la guardiamo
dalla terra, la vediamo ancora
misteriosa e bella.

Motivazione:
Giusta l’occasione per ricordare lo sbarco dell’uomo sulla luna in occasione del cinquantenario e rinnovarsi di considerazioni circa la delusione, a suo tempo provata, nello scoprire che quell’algido astro delle nostre notti non è fatto che di sassi e polvere. Le romantiche immagini e i sogni sgretolati da una realtà rivelata, forse i dubbi che ancora agitano le discussioni non sono altro che un tentativo di mantenere vive quelle illusioni.
Qualche dubbio sui segni grafici di una parlata non troppo comune.

3° class. a pari merito: “La luera” di Mary Massara da Marano Ticino (No)

La Luera

Splendôo dla piana, chilò ancheuj
ël santé an méss dl’argòrda:
anté ij me seugn is lasso argòji
in masséit comé fiôo ‘d barda.
Dl’alfora ël dondonèe dla bròja,
mé’ n cangéll ël còr l’arbutava:
ël santé sòlif an méss dla fòja,
stòrji dël temp e gent al cuntava.
Dla baggiorda col vérs selvaigo,
ombra ‘d luf la fava pôora:
la luera sotta sarmenti d’aigro,
na sfris d’ongiun tacà na bòra.
Al prim lusôo dë smeurti stèli,
sal santé teint pass ancôo:
rabbiòs ël broggièe dij fameli,
is nevo ‘n òbbia ij cacciadôo
Splendôo dla piana, chilò ancheuj
sal santè tutt bianch ‘d zevro:
spur ël volaighé béll d’ argòji,
poisia ‘d na bòccia ‘d vedro.
Traduzione:
La Luera

Splendore della radura, qui oggi
il sentiero in mezzo all’agostano:
ove i mii sogni si lasciano cogliere
in mazzetti come fiori di bardana.
Di primavera l’ondeggiare della segale
come un giglio rosso il cuore rifioriva:
il sentiero soleggiato in mezzo alla foglia,
storie del tempo e gente raccontava.
Della grande fame quel verso selvatico,
ombra di lupo faceva paura:
la fossa sotto frasche d’acero,
uno sfregio d’unghia su di un tronco.
Al primo luccicore di pallide stelle,
sul sentiero tanti passi ancora:
rabbioso il verso delle femmine,
si andavano incontro i cacciatori.
Splendore della radura, qui oggi
sul sentiero tutto bianco di gelo:
puro il nevischiare bello da cogliere,
poesia di una boccia di vetro.
Motivazione:
Ricordo di un tempo lontano, quello in cui i lupi spaventavano con presenze di selvatico e di ferocia, ferocia non inferiore a quella di chi tendeva infida la trappola. Emozioni di chi ripercorre quei passi, ricalca quelle orme, alla ricerca di momenti lontani, ma mai dimenticati perché le tracce sono ancora lì, pronte a raccontare la loro storia anche se camuffata da un’aria di fiaba.
Qualche dubbio sui segni grafici di una parlata non troppo comune, buone le rime e metrica non perfetta.

2° Classificato: Livio Rossetti da Novara con: “Na carèssa ’ncora”

Na carèssa ’ncora

Int on bèl di d’està con tanto sól,
për la mè nòna mai dismentigà,
l’eva rivà la lètra dal comun:
cuj fieuj mòrt partigian ’gh va riesumà.
I hin fai on monoment për cuj fieuj-lì,
così che tuti i pòdan ricordà
che costi-chì i hin lotà për n’ideal,
i hin dài la vita për la libertà.
Insi mè nòna l’è ciapà ij mantin,
cuj bèj polid, ancora mai doprà
e tuti ’nsèma soma ’ndai con le,
a ciapà sù cuj òss dal temp disfà.
S’ha ’nginugià davanti al beugg già fai,
int on silensi ch’al pijava ’l fià.
Le, vun për vun cuj òss l’è ciapà ’n man
e vun për vun dasiòt a j’ha netà.
Nissun gh’ha dì dë fà pussè dë prèssa.
Ël temp për le, për tuti, a s’ha fermà.
L’amor për col fieu pèrs… l’è mai finì
e finalment l’aveva ritrovà.
Da j’eucc mia na làgrima a sgotava.
Tut col dolor i avévan già sugà.
Peu s’ha girà e i sôn vist on soris,
l’aveva finalment acaressà.
L’è miss tuti cuj òss int la cassèta
e ’nt ël fopôn dasiòt a l’ha portà.
A l’ha stringiù, come la fà na mama
e… për na vòlta ’ncora a l’ha cunà.
Traduzione:
Una carezza ancora

In un bel giorno d’estate con tanto sole,
per la mia nonna, mai dimenticato,
era arrivata la lettera dal comune:
quei ragazzi morti partigiani bisognava riesumare.
Hanno fatto un monumento per quei ragazzi lì,
così che tutti possano ricordare
che questi hanno lottato per un ideale,
hanno dato la vita per la libertà.
Così mia nonna ha preso i tovaglioli,
quelli belli puliti, ancora mai adoperati
e tutti insieme siamo andati con lei,
a raccogliere quelle ossa dal tempo disfatte.
Si è inginocchiata davanti al buco già fatto,
in un silenzio che toglieva il fiato.
Lei, una per una quelle ossa ha preso in mano
e una per una lentamente le ha pulite.
Nessuno le ha detto di fare più in fretta.
Il tempo per lei, per tutti, si è fermato.
L’amore per quel figlio perso… non è mai finito
e finalmente l’aveva ritrovato.
Dagli occhi non una lacrima scendeva.
Tutto quel dolore li aveva già asciugati.
Poi si è girata ed ho visto un sorriso,
l’aveva finalmente accarezzato.
Ha messo tutte le ossa nella cassetta
e al cimitero adagio lo ha portato.
Lo ha stretto, come fa una mamma
e… per una volta ancora l’ha cullato.
Motivazione:
Una situazione sconvolgente quella narrata in questa poesia, quella di una madre che deve assistere alla riesumazione del corpo del figlio, ucciso nella guerra partigiana. Tuttavia la pietà di questo momento si trasforma, miracolosamente, grazie a quell’amore che solo una mamma riesce a nascondere in se, in un rincontrarsi. Un’altra insperata opportunità per una carezza mancata a suo tempo.
Scritta in una parlata del Piemonte orientale, riesce, pur senza l’aiuto delle rime, a trasmettere sensazioni e sentimenti con un grande coinvolgimento emotivo.

1° Clasificato
Anna Maria Molino da Piovà Massaia con: “ La masca”
La masca

Da quand mia fomna è për sèmpe ‘ndaita via,
ant la mia ca a j’è na masca a feme companìa,
as fà nen voghe, ma as sent, bòja s’as sent,
pì che na companìa peuss di c’a l’é ‘n torment.
Ij cotej a vòlo: tajo salada, tomàtiche e povron
e tuta la vërdura për fé cheuse lë mnestron,
ant la bronsa ‘l cassul a gira për sò cont,
a mesdì precis, an s’la tàula a l’è tut pront.
A cor la scoa, as bato tapiss e strass,
as giro da soj anche cussin e matarass,
ant ël bagn a fà andé la lavatriss,
centrìfuga a mila, a-i fà sauté bolon e vis.
Tabussa e roja ant ij tirèt dla scrivanìa,
ant ël còfo am mës-cia tuta la lingerìa,
gòlfin e giache am boton-a ‘d travers,
caussèt e mudande am gira da l’invers.
Quand i vag via, al camposanto o al mercà,
am set an màchina, ‘l motor l’é già ‘nviarà.
Zanzarin e mosche a scapo, a vòlo fòra,
fin-a ‘l gat a l’é andà a vive da mia nòra.
La sèira, ch’am cog, as fà anche ringrassiè,
perché ch’am giuta, perché ch’as dà da fé,
mi i pòrto passiensa, sorid-o, la saluto con la man,
a-j dago la bon-a neiut e l’arvogh-se a l’indoman.
I dev dì ch’i son abituame a sa stran-a presensa,
e ormai peuss pròpi pì nen fène sensa,
am viv ansema da quand mia fomna è ‘ndaita via,
pì che ‘n torment, dev pròpi dì ch’a l’è na companìa.
Traduzione:
Il fantasma

Da quando mia moglie è per sempre andata via (morta),
nella mia casa c’è una masca (un fantasma) a farmi compagnia,
non si fa vedere, ma si sente, altroché se si sente,
più che una compagnia posso dire che è un tormento.
I coltelli volano: tagliano insalata, pomodori e peperoni,
e tutta la verdura per far cuocere il minestrone,
nella pentola il mestolo gira per conto suo (da solo),
a mezzogiorno preciso (in punto), sul tavolo è tutto pronto.
Corre la scopa, si battono tappeti e stracci,
si girano da soli anche cuscini e materassi,
in bagno fa viaggiare la lavatrice,
centrifuga a mille, le fa saltare bulloni e viti.
Bussa e rimesta nei cassetti della scrivania,
nella cassapanca mi mescola tutta la biancheria,
golfini e giacche mi abbottona di traverso (spaiati),
calzini e mutande mi gira al rovescio.
Quando vado via, al cimitero o al mercato,
mi siedo in macchina, il motore è già avviato.
Zanzare e mosche scappano, volano fuori,
perfino il gatto è andato a vivere da mia nuora.
La sera, che mi corico, si fa anche ringraziare,
perché mi aiuta, perché si da da fare,
io porto pazienza, sorrido, la saluto con la mano,
le do la buona notte e l’arrivederci all’indomani.
Devo dire che mi sono abituato a questa strana presenza,
e ormai non posso più farne senza,
vive con me da quando mia moglie è andata via (morta),
più che un tormento, devo proprio dire che è una compagnia.

Motivazione: Quella che a tutta prima pare una storia di fantasia, poco per volta si rivela per quello che è in realtà: una poesia d’amore. Amore per una compagna di vita che il destino ha allontanato, ma la cui presenza eterea, sia pure reale in certe interpretazioni, la mantiene presente in una forma assai più concreta dei soli ricordi nella memoria. Scrittura buona e forma che la mancanza di costanza nella presenza delle rime rende un po’ meno scorrevole.



Sez. narrativa in lingua piemontese

4° classificato N.1/B “Il chiodo” di Pietro Baccino da Savona
4° classificato N. “Son passati 100 anni” di Renzo Aliberti da Canelli (At)
4° classificato N. 3/A Il miracolo di S. Gaudenzio” di Luigi Ceresa da Novara
4° classificato N. 5/B “primi passi, prime marachelle” di Luciano Milanese da Poirino (To)

3° classificato «Antrames a cel e tèra» di Attilio Rossi da Carmagnola (To)
Antrames a cel e tèra

A-i era, mach un pòchi d’agn fà, na bela, ma cita, famijòta, ch’a vivìa dzora a un ëd coj bej brich ëd la Langa, andrinta a soa modesta tnùa ‘n pien solì, ch’a fasìa ‘ndé, con amor e gòj, col grassios autin. Pare Giuspinòt, mare Cichinòta e soe doe masnà, Gioanin e Michinòta, a dovravo, pien d’orgheuj, tut ël temp ch’a l’avìo a disposission, dzortut, për fé vnì sempe pì bel, col antich autin, vej bisò ‘d famija. Na casòta a la bon-a, d’un color ross viv, a jë spetava ariosa për disné e sin-a e ‘dcò tute j’àutre vòte ch’a sentìo dabzògn d’arpòs e d’arlass, piassà pròpi ‘nt ël pòst pì àut ëd col montruch soasì : gelosìe d’un verd brilant e pòrte maròn scur ch’a-j dasìo ‘n sens ëd rudiëssa, ma ‘dcò, squasi a l’istess temp, ëd noblëssa, coma ch’as costumava pròpi drinta a coj vej castej ëd le famije dij nòbij ch’a l’avìo vivù, për un temp longh, ma, belavans, stasend-je mach d’istà, an cole piasose tère. Gioanin e Michinòta ch’a l’avìo ‘ncora mach l’età për frequenté la scòla media e, parèj, ëd cit ritaj ëd temp a disposission, ma ‘dcò, a l’istess temp, un gran piasì ‘d giuté ij sò, për fé ‘n manera d’arlasseje pì ch’a podìo; e pròpi për lòn as fasìo ‘n quatr për fè ‘n pressa a fé ij travaj dë scòla e a studié, për esse sempe pì present! Tut ansema, la cita famija, as portava anans bastansa bin ij sò travaj: ant la scòla cole doe masnà as la gavavo con profit, e peui cola vigna a vëddìa, squasi tuti j’agn,cole vis motobin carià.
Peui a la sèira, quand ch’as trovavo tuti quatr setà d’antorn a la tàula, për mangé sin-a ‘nsema, fin-a la gòj a l’era sempe cogià ‘nsima a cola bela tovaja a fior, e as mës-ciava bondosa al përfum dël pan fresch e a tute le còse bon-e da spicassé che a fasìo soa bela figura lì dzora a col bel tapiss fioragià| D’ògni sòrt ëd vërdure ch’a vnisìo da col òrt dacant a ca, compagnà da coj bej euv fresch ch’a rivavo bondos, arlegrà dal còro dle galin-e che a cantavo pròpi soens e, për finì, un bel baron soasì e sërnù, dle tante qualità ‘d piante da fruta, ch’a fasìo coron-a e fin-a da sfond, da na part a l’autin, e da l’àutra al gròss tòch d’òrt che Cichinòta as curava con tant piasì e con tuta soa passion, e ‘dcò con l’istessa manera dij sò doi arbut, come soens chila, për blaghé, a costumava memorié sò fieul e soa fija! A tocava dì che cola tèra a l’era pien-a ‘d veuja ‘d fé e a-j dasìa tante sodisfassion: le fatighe dle tante ore ‘d travaj a passavo sensa ringret e ‘l bel calor ëd la famija a fasìa ‘l rest: le giornà a scorìo sempe pien-e ‘d piasì e ‘d soris lassand ant ël cheur ëd cole person-e ‘n seren ch’a j’arpagava dij sudor butà! Cost a l’era ‘l quàder ëd la situassion ëd cola bela crica d’amis, ch’as vorìo na bin ëd l’ànima, e che a j’ero gropà ‘nsema da na gròssa veuja ‘d dësversé ‘l mond, se chiel, për cas a l’avèissa pa virà coma ch’a vorìo lor! Teston e goregn ël giust dëdnans a le tante dificoltà dla vita: vis-a-dì na famija model!
Con ël passé dj’agn e con ël chërse dle masnà le còse a ‘ndasìo sempre mej: ij nòstri cit, come ch’a-i ciamavo lor, a l’avìo finì, tuti doi le superior, e, parèj, adess, a podìo giuteje tant ëd pì, pròpi squasi a temp pien, fasend ëdcò bin atension a pì nen feje fé tròpe gròsse fatighe, a coj doi pòvri vej, come ij giovo a l’avìo piàit ël vissi ‘d ciamé sò pare e soa mare. Soa casòta che, con ël temp, a l’avìa pijàit dij color un pòch pì smòrt, adess a-j ciamava na bela polidà! Ma specialment ël tòch pì vej a-j disìa, e ‘nt j’ùltimi temp pròpi tant soens, ch’a l’era giumai rivaje l’ora d butelo a pòst: torna a l’onor dël mond!!! Pijand a travajé col sò amis ch’a fasìa ‘l murador, a l’avìo fin-a la dossa possìbilità dë spende cheicòs ëd meno, dasend-je na bela man a chiel: parèj, a l’avrìo ‘dcò podù vëdde, fin-a mej, lë scori dij travaj, controland pass a pass tut còsa ch’as fasìa ‘d divers da prima e decidend, vòlta për vòlta, tute le cite modifiche da fé, për avèj na ca sempre pì bela e ch’a pensèissa a deje ‘n pòst motobin pì adeguà a le famije, ch’a sarìo stàite fàite dai giovo, sensa l’òbligh ëd sërchesse ‘n pòst neuv.
Tute coste còse da fé a-j lassavo pì nen pensé a gnente d’àutr, ma, ansema, a-j dasìa fin-a ‘n gròss piasì ‘l vëdde che, di për di, soa ca a pijava sempe na facia pì bela: ij travaj adess a j’ero squasi rivà a la fin e prest a l’avrìo podù tiré ‘l fià e arposesse ‘n pòch!!! Ma dòp arcordand-se pròpi bin, che cola paròla, andrinta a soa famija, a l’era mai costumasse e, për lòn, pa dovrasse tròp soens e che sòn a vorìa dì, al massim, ch’a l’avrìa mach travajasse...quèiche ora ‘d meno!!!
Tant a sarìa pa mai stasse sensa travaj, përchè a bastava mach vardesse ‘ntorn për podèj sente che cola campagna a ciamava sempe e soens a vos bin àuta, e sòn pròpi përchè gnun, fasend ël ciòrgn, a disèissa ch’a l’avìa nen sentù!!!
Ël vin ëd cola tèra a smijava ch’as fèissa tuti j’agn pì bon, ma a l’avìa ‘dcò pròpi un brut vissi: col ëd nen goernesse, ma nen përchè a vnisèissa brusch: a së spatarava, për maleur, la vos ëd coma ch’a l’era bon, e j’amis as portavo soens a soa ca, sempe con na neuva scusa, për podèjlo tasté!!! Mi i penso che l’ùnica solussion possìbila a sarìa stàita cola dë scapé da ca për podèjlo goerné!!! Ma la vita, quand che tut a smija ch’a vada tròp bin, at riserva sempe ‘d sorprèise, ma, ël pì dle vòte, nen tròp bele e parèj, Giuspinòt e Cichinòta a son vnùit tuti e doi malavi, a l’han tribulà col pòch e col pro, e dòp pòch temp a l’han dovù saluté, lassand ant ël dëspiasì soa famija, pòchi di da un a l’àutr. Cola famija ‘nt ël temp a l’era dventà ‘n pòch pì gròssa, përchè Gioanin e Michinòta, fasse pì grand, a j’ero peui sposasse e adess a l’avìo ‘dcò già fin-a doi sfergnolòt a pr’un ch’a corìo për cola cort!!!
Coj doi, ancora pa tròp vej, a j’ero pròpi stàit ciamà për nòm da Nosgnor che, da soe part, a vorìa cò avèj na vigna bela come cola lì e a l’avìa nen trovà gnun ëd mej, për fela, che cole doe përson-e che ansema, an vita, a j’ero sempre ‘ndàite tant d’acordi e che Chiel, për gnun-a rason al mond a sarìa mai përmëttusse ‘d dividi! Për lòn a l’avìa pijaje a soa ca, e ‘ndrinta a soa vigna!
Da col pòst lor a vardavo soens giù, ansema a Nosgnor, sërcand ëd fé ‘n manera che cola soa famija a l’avèissa fortun-a, bomben che lor a fùisso pì nen lagiù a travajé l’autin. La vigna dël Paradis a l’era diventà bela come cola che lor a l’avìo avù ‘n tèra: nen pì bela ma mach uguala. E tut sòn përchè lor, d’acòrdi con Nosgnor, për pa feje gnun tòrt a soe masnà, a podìo pa fela pì bela: a sarìa stàit come sbërfié coj giovo che ‘ncheuj a la travajavo con passion!!! As podìa nen feje ‘n dësdesi parèj, dòp che lor a l’avìo patì ‘l gròss dolor d’avèj perdù sò pare e soa mare ‘n pòch temp: sòn pròpi mach per nen buteje ‘ncora ‘d pì ‘d cativ-imor! Përchè a sarìa stàit pròpi tròp!!! Le famije ‘d Gioanin e ‘d Michinòta, ëdcò grassie a tut ël gròss travaj fàit andrinta a la ca, an coj agn passà con pare e mare, për butè bin a pòst col rùstich, adess as përmëttìo ‘d vive tuti ‘nsema, davzin, andrinta a col pòst diventà motobin pì gròss: përchè sòn a l’era dabon ël pì bel agiut për fé ‘n manera ch’a fussa, sempe, possìbil avèj quaidun a goernela.
Ancora adess cola vigna, për chi ch’a l’ha la fortun-a ‘d vëdd-la, a l’é pien-a ‘d cola blëssa ‘d na vòta e sòn përchè, dzorapì a coj ch’a la travajo da sota, a-i é ‘dcò në sguard anteressà e tënner fàit da coj doi ch’a l’han pa dësmentià cole doe famije!!!
Peui a-i é Nosgnor che adess a fà ‘d tut për fesse përdoné d’avèj-je portà via tuti doi squasi ansema, e vardand giù, soens, con euj speciaj, tute le sante sèire a-j manda soa benedission!!!
Cole doe vigne adess a son gropà bin ës-ciasse, tant che ‘ndrinta a sò cheur a viagio sempe ansema e Nosgnor a capiss bin còsa ch’a l’ha fàit për avèj-ne una mach Soa e pròpi l’istessa!
Dòp, për lòn, a l’ha ‘dcò butaje ansema, ma ‘ndrinta a ‘n leu special che Chiel a l’ha sërcaje a pòsta. Antrames a cel e tèra!!!
Traduzione:
Tra cielo e terra

C’era, soltanto pochi anni fa, una bella e piccola famigliola, che viveva sopra ad uno di quei graziosi cucuzzoli della Langa e dentro alla sua piccola tenuta, in pieno soleggiamento, Coltivava, con amore e gioia, la sua deliziosa vigna. Papà Giuseppino, mamma Francesca ed i loro due bambini, Giovanni e Domenica, usavano, pieni d’orgoglio, tutto quel tempo che avevano a disposizione, soprattutto, per far diventare sempre più bella, quella vecchia vigna, antico gioiello di famiglia. Una casetta semplice, di un color rosso vivo, li aspettava ben arieggiata per pranzo e cena, e pure per tutte le altre volte che sentivano bisogno di riposo e di rilassamento, situata proprio nel luogo più alto di quel crinale raffinato: le imposte di color verde brillante e le porte marrone scuro, le davano un senso di rudezza, ma pure, quasi allo stesso tempo, di nobiltà, come si usava in quei vecchi castelli delle famiglie dei nobili, che avevano vissuto, per tanto tempo, ma purtroppo, vivendo in quei luoghi solamente d’estate. Giovanni e Domenica, che avevano solo l’età per frequentare la scuola media, avevano pochi ritagli di tempo a disposizione ma, allo stesso tempo, provavano un enorme piacere nell’aiutare i loro genitori ,per fare in modo di abbellire la vigna più che potevano: proprio per questo si facevano in quattro per fare in fretta i loro compiti ed a studiare per essere sempre più presenti. Tutto sommato, la piccola famiglia, portava avanti abbastanza bene i suoi lavori: nella scuola i due ragazzi se la cavavano con profitto, e poi quella vigna presentava, quasi tutti gli anni, le viti sempre decisamente cariche d’uva. Poi di sera, quando si sedevano tutti e quattro attorno alla tavola, la gioia era sempre mollemente sdraiata sopra a quella bella tovaglia a fiori, e si mescolava al profumo del pane fresco ed alle molte cose buone da mangiare che facevano bella figura sopra alla tovaglia fiori. Ogni tipo di verdura proveniva da quell’orto accanto alla casa, accompagnata dalle uova fresche che giungevano numerose, rallegrate dal coro delle galline che cantavano proprio sovente e , per finire, quella varietà delicata e scelta delle tante qualità di piante da frutta che fungevano da corona e da sfondo, da una parte alla vigna e dall’altra a quel vasto pezzo d’orto, che Francesca curava con tanto piacere e con tutta la sua passione, allo stesso modo dei suoi arbusti (gemme), come sovente lei,per vanteria, usava ricordare suo figlio e sua figlia! Bisognava dire che quella terra era piena di voglia di fare e le regalava tante soddisfazioni: le fatiche delle molte ore di lavoro passavano senza rimorsi e tutto il bel calore della sua famiglia faceva il resto: le giornate scorrevano sempre piene di piacere e di sorrisi lasciando nel cuore di quelle persone un sereno che le ripagava dei sudori messi! Questo era il quadro della situazione di quella bella combriccola di amici, che si volevano un bene dell’anima, legati ed uniti dalla voglia di rovesciare il mondo, se questo non si fosse girato nel senso che pretendevano loro! Testardi e coriacei il giusto dinnanzi alla tante difficoltà della vita: come a dire una famiglia modello! Con il passare degli anni e col crescere dei ragazzi le cose andavano sempre meglio: i nostri piccoli, come ormai erano abituati a chiamarli loro, avevano finito, tutti e due, le superiori, ed ora potevano aiutarli molto di più, proprio quasi a tempo pieno, facendo pure bene attenzione a non far fare ai loro vecchi, (come quei giovani s’erano abituati a chiamarli), troppe grandi fatiche. La casetta, con l’usura del tempo, aveva abituato l’occhio a colori più tenui, ed ora chiedeva una bella ripulita! Specialmente il pezzo più vecchio ripeteva, e negli ultimi tempi proprio assai sovente, che era ormai arrivata l’ora di rimetterlo a posto: nuovamente all’onore del mondo!!! Prendendo a lavorare, per abbellire la casa, quel loro amico muratore, usufruivano perfino della dolce possibilità di spendere qualcosa in meno, dando una bella mano a lui: così avrebbero anche potuto vedere meglio lo scorrere dei lavori, controllando passo a passo tutto quello che si sarebbe fatto di diverso da prima, decidendo, di volta in volta, tutte le piccole modifiche da fare, per avere una casa sempre più bella, che pensasse a dare un posto più adeguato alle famiglie che avrebbero, in futuro, potuto costruirsi i giovani, in modo che essi non avessero l’obbligo di cercarsene una nuova. Tutte le cose da fare non li lasciavano più pensare ad null’altro, ma, assieme, davano anche il grande piacere di vedere che, giorno per giorno, la loro casa prendeva un volto più bello: i lavori adesso erano quasi giunti alla fine e presto avrebbero potuto tirare il fiato e riposarsi un po’!!!
Ma poi ricordandosi proprio bene, che quella parola, dentro alla loro famiglia, per abitudine, non era mai stata adoperata troppo sovente, e questo voleva solo dire che, al massimo, si sarebbe lavorato... qualche ora di meno!!! Tanto non si sarebbe mai restati senza lavoro, perché bastava solo guardarsi attorno, per poter sentire che quella campagna chiamava sempre, e pure sovente con voce ben alta, e questo proprio perché nessuno, facendo il sordo, dicesse che non l’aveva sentito!!!Il vino di quella terra sembrava che fosse, di anno in anno, sempre più buono, ma aveva pure il brutto vizio di non conservarsi, ma non perché diventasse improvvisamente acidulo: ma soltanto perché si spargeva, per sfortuna, la voce di quanto era buono, ed allora gli amici giungevano troppo sovente a casa sua, sempre con una scusa nuova, per poterlo assaggiare!!!
Penso che l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di fuggire di casa, per poterlo conservare!!! Ma il destino della vita, quando sembra che vada tutto troppo bene, riserva sempre delle sorprese, il più delle volte non troppo belle e così Giuseppino e Francesca si sono ammalati tutti e due, e dopo aver tribolato parecchio e, soltanto dopo poco tempo, hanno dovuto salutare la loro famiglia, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Quella famiglia nel frattempo era diventata un pochino più grande, perché Giovanni e Domenica si erano nel tempo sposati ed avevano avuto, anche loro, due piccolini ciascuno che correvano per il cortile!!! Quei due, malgrado non fossero ancora troppo vecchi, erano proprio stati chiamati per nome da Nostro Signore che, dalle sue parti, voleva avere una vigna bella come quella e che non aveva trovato nessuno migliore, per farla, di quelle due persone che insieme, in vita, erano sempre andate d’amore e d’accordo e che Lui, per nessuna ragione al mondo, mai si sarebbe permesso di dividere! Per questo li aveva presi in casa sua e dentro alla sua vigna!!!
Da quel luogo essi guardavano sovente amorevolmente giù verso la terra, insieme a Nostro Signore, cercando di fare in modo che quella sua famiglia avesse tanta fortuna, malgrado loro non fossero più laggiù a lavorare la vigna terrena. La vigna del Paradiso era diventata bella come quella che avevano avuto in terra: non più bella, ma uguale, e solo perché, d’accordo con Nostro Signore, per non dare un dispiacere e non schernire quei ragazzi che oggi la lavoravano con passione!
Questo perché non dovessero a subire dispetti così cattivi, dopo avere provato il dolore d’aver perso padre e madre, e non metterli così ancora più di cattivo umore! Perché sarebbe proprio stato troppo! Le famiglie di Giovanni e Domenica, anche grazie al lavoro fatto per mettere a nuovo la loro casa, in quegli anni passati con padre e madre, adesso si permettevano di vivere vicini, tutti assieme, dentro a quel luogo diventato molto più grande; perché questo era davvero un grande aiuto rendendo così possibile che ci fosse sempre qualcuno a sorvegliarla. Pure adesso, per chi ha la fortuna di vederla, quella vigna è piena della bellezza di una volta e questo, perché oltre a coloro che la lavorano là sotto, c’è anche uno sguardo interessato e tenero che viene da quei due genitori, che non si possono dimenticare quelle due famiglie!!!
Poi c’è Nostro Signore che adesso fa di tutto per farsi perdonare per averglieli portati via tutti e due e quasi assieme, e guardando giù sovente e con occhi speciali, tutte le Sante sere, gli manda anche la sua benedizione.
Quelle due vigne ora sono legate molto strettamente fra di loro, tanto che nel profondo del Suo cuore viaggiano sempre assieme e Nostro Signore comprende bene cosa ha fatto per averne una solo Sua e proprio uguale!!!
Poi, per quello, le ha pure messe assieme, ma dentro ad un luogo speciale, che Lui, appositamente, ha cercato. Fra cielo e terra!!!
Motivazione:
Una storia che si può definire in controtendenza. Nella maggior parte dei casi molte storie sono costellate da disgrazie o avvenimenti negativi, in questo caso l’autore ci offre una storia veramente «a buon fine». Una storia dove le cose vanno tutte per il loro verso e i personaggi esprimono i valori migliori dell’umanità, si vuole sperare che questo sia di buon auspicio.
Buona la scrittura, forse con periodi un po’ troppo lunghi.





2° classificato a pari merito
«Dësmentioma nen e lassoma nen dësmentié» di Gianantonio Bertalmia da Carmagnola (To)
Dësmentioma nen e lassoma nen dësmentié
Ël gròss càmion a l’era fërmasse sla piassa dë dnans al negòssi dël papà ’d Samuele. Mi, Samuele e Pùles, la cagnin-a ’d Samuele, i stasìo giùgand an sla piassëtta e i soma fërmasse sbaruvà. Ij soldà, armà e bauland paròle ch’i capìo nen, a j’ero sautà giù dal càmion. A j’ero intrà ’nt ël negòssi dël papà ’d Samuele e dòp ëd quàiche minuta a j’ero surtì scortand ël papà e la mama ’d Samuele ch’a resìo doe gròsse valis. A l’avìo faje monté, possognandje, sël càmion e alora Samuele, con le lerme a j’euj, a l’era corù ’ncontra a sò pare e a soa mare. Un soldà a l’avìa ’mbrancalo e a l’avìa campalo sël càmion ansema ai sò e a d’àutri pòvri dësgrassià sensa nòm, trist, demoralisà e rassegnà. Peui ’l gròss càmion a l’avìa ciapà për via Marconi e, an mes al baulé disperà ’d Pùles, a l’era sparì ’n cola desolà e grisa periferia. Sla piassa i j’ero restaje mi, Pùles e l’amèra solitùdin dij seugn scarpisà. Quand ch’i j’era tornà a ca, i l’avìa ciamaje a mé pare përchè col càmion a l’avèissa carià Samuele e ij sò genitor. Mé pare a l’avìa dime che Samuele e ij sò genitor, second la lege, a j’ero ’d na rassa sbalià e a l’avìa dime ’d nen speteje përchè a sarìo mai pì tornà. Mi i j’era butame a pioré e chiel a l’avìa ’mbrassame disend-me che mi i j’era ’ncora tròp cit për podej capì cole crudele atrocità dla vita.
Ël negòssi dël papà ’d Samuele da col moment-lì a l’era stàit sarà con la saranda tirà giù, top guardian d’un sepolcro sombr.
Ma Pùles a l’avìa mai abandonalo.
I l’avìa sercà ’d portela a ca mia ma chila a vorìa nen savèj-ne dë sté lontan dal negòssi. A stasìa di e neuit a la cocia dë dnans a cola saranda bassà a speté, con passiensa, ël ritorn ëd Samuele. Tute le sèire i-j portava quaicòs da mangé, alora chila a s’aussava e a ’ndasìa a dé na sbircià ’n prinsipi ëd via Marconi. As setava ’n mes a la stra e a vardava a l’orisont se për cas a fussa comparìe col brut, gròss càmion ch’a l’avìa portà via ij sò padron. Peui, delusa, a tornava a cocesse dë dnans a la saranda sota a la cita cuerta ch’i l’avìa portaje.
La guèra a l’era finìa quand che na matin i l’avìa sentù Pùles ch’a baulava ’nrabià. I j’era calà ’d corsa ’n piassa e i l’avìa vëddù che ’l negòssi dël papà ’d Samuele a l’era torna duvert. Dë dnans a la pòrta a-i era n’òm che, con na gròssa ramassa ’n man, a sangiava ’n manera violenta Pùles për fela slontané. Coma ch’a l’avìa vëddume Pùles a l’era corume ’ncontra e mi i l’avìa pijala ’n brass. I j’ero setasse s’na banchin-a e mi i l’avìa sercà dë spiegheje ch’a podìa nen sté dë dnans al negòssi durant ël di, ma che a l’avrìa podù torné a deurme dë ’d neuit. Pùles a smijava ch’a l’avèissa capì mie paròle e a l’era slongasse sota a la banchin-a. Ma a la sèira, quand ch’i j’era calà për porteje na scudela dë mnestra, Pùles a-i era nen, né davzin a la saranda, né sota a la banchin-a. I l’avìa ciamala pien ëd disperassion, i l’avìa sercala për tuta via Marconi, për tuta la sità.
Ma Pùles da col di-lì i l’avìa mai pì vëddula
Fòrse a l’era ’dcò chila ’d na rassa sbalià!
La mia a peul smijé na conta banal, ma mi i l’heu mai dësmentià. I l’heu mai dësmentià Samuele e Pùles, amis ëd la mia infanzia, i l’heu mai dësmentià ’l baulé ’nrabià dla lenga ’d coj soldà, i l’heu mai dësmentià le làcrime ’d Samuele e ’l baulé disperà ’d Pùles.
Ël përdon a l’é ’n sentiment nòbil ma, come ch’a dis Norberto Bobbio: “Dësmentioma nen e lassoma nen dësmentié”.
Traduzione:
“Non dimentichiamo e non lasciamo dimenticare”

Il grosso camion si fermò sulla piazza davanti al negozio del papà di Samuele. Io, Samuele e Pulce, la piccola cagnolina di Samuele, stavamo giocando sulla piazzetta e ci fermammo spaventati. I militari, armati e abbaiando parole incomprensibili, saltarono giù dal camion. Entrarono nel negozio del papà di Samuele e dopo qualche minuto uscirono scortando il papà e la mamma di Samuele che reggevano due grosse valigie. Li fecero salire, spingendoli, sul camion e allora Samuele, con le lacrime agli occhi, corse incontro ai suoi genitori. Un militare lo abbrancò e lo buttò sul camion insieme ai suoi genitori e ad altri poveri disgraziati senza nome, tristi, abbattuti e rassegnati. Poi il grosso camion imboccò via Marconi e, in mezzo all’abbaiare disperato di Pulce, sparì in quella triste, grigia periferia. Sulla piazza rimanemmo io, Pulce e l’amara solitudine di sogni calpestati. Quando tornai a casa, chiesi a mio padre perché quel camion aveva caricato Samuele e i suoi genitori. Mio padre mi disse che Samuele e i suoi genitori, secondo la legge, erano di una razza sbagliata e mi disse di non aspettarli perchè non sarebbero mai più tornati. Mi misi a piangere e lui mi abbracciò dicendomi che io ero ancora troppo piccolo per capire queste crudeli atrocità della vita. Il negozio del papà di Samuele rimase chiuso con la serranda abbassata, cupa custode di un buio sepolcro. Ma Pulce non lo abbandonò mai. Cercai di portarla a casa mia ma lei non volle saperne di stare lontana dal negozio. Stava giorno e notte accucciata davanti a quella serranda abbassata ad aspettare, con pazienza, il ritorno di Samuele. Ogni sera le portavo qualche cosa da mangiare, allora lei si alzava e andava a dare una sbirciata all’inizio di via Marconi. Si sedeva in mezzo alla strada e guardava all’orizzonte se per caso fosse apparso quel brutto, grosso camion che aveva portato via i suoi padroni. Poi, delusa, tornava ad accovacciarsi davanti alla serranda sotto alla piccola coperta che gli avevo portato.
La guerra era finita quando un mattino sentii Pulce che abbaiava arrabbiata. Scesi di corsa in piazza e vidi che il negozio del papà di Samuele era di nuovo aperto. Davanti alla porta c’era un uomo che, con una grossa scopa in mano, colpiva violentemente Pulce per farla allontanare. Appena Pulce mi vide mi venne incontro e io la presi in braccio. Ci sedemmo su una panchina e io cercai di spiegarle che non poteva stare davanti al negozio di giorno, ma avrebbe potuto tornare a dormire di notte. Pulce sembrò comprendere le mie parole e si sdraiò sotto alla panchina. Ma alla sera, quando scesi per portarle una ciotola di minestra, Pulce non c’era, né vicino alla serranda, né sotto alla panchina. La chiamai disperatamente, la cercai per tutta via Marconi, per tutta la città. Ma Pulce da quel giorno non la vidi mai più. Forse apparteneva anche lei ad una razza sbagliata!
Il mio può sembrare un racconto banale, ma io non ho mai dimenticato. Non ho mai dimenticato Samuele e Pulce, amici della mia infanzia, non ho mai dimenticato l’abbaiare arrabbiato della lingua di quei soldati, non ho mai dimenticato le lacrime di Samuele e l’abbaiare disperato di Pulce.
Il perdono è un sentimento nobile ma, come dice Norberto Bobbio:
“Non dimentichiamo e non lasciamo dimenticare”.
Motivazione:
Una storia dell’ultima guerra, una come tante altre, piena di cattiveria e di repressione. Tuttavia questa storia è l’occasione per ribadire, come recita il titolo, un pensiero di Norberto Bobbio che è al tempo stesso un monito e una raccomandazione. In questo caso alle vicende umane si aggiunge un animale, un cane, che rimane anche lui vittima inconsapevole degli avvenimenti che lo coinvolgono. Dai comportamenti umani, narrati nel racconto, a quello del cane ecco nascere un quadro che ci deve far riflettere e meditare. Ottima la scrittura nel complesso.
2° classificato a pari merito N° 4 /C - «Scarpon bleu» di
Luigi Lorenzo Vaira da Sommariva del Bosco (Cn)

Scarpon bleu.

Vintesinch ëd Novèmber dël 2018. Ancheuj a l’é la giornà che ʼnt bon-a part dël mond as fan ëd manifestassion contra chi ch’a maltrata e patela le fomne; nò speté na minuta, i son nen ëspiegame bin: contra j’om ch’a fan ëd violensa a le fomne, përché a më smija ëd capì che s’a fusso quàich madame, madamin o magara dle tòte a carchess-je ʼn tra ʼd lor, lòn-lì a farìa nen ësgiaj a gnun. Mi i son ël prim a condané costi comportament përché patlé na fomna a l’é na ròba pròpi da viliach e bele che ʼnt mia vita i sia trovame vàire vòlte ʼnt situassion anté ch’i l’avrìa avù tant pì car avèj da discute con n’òm, magara fin-a për desse doe scopass e peui rangé sùbit la question a la mòda dij mascc, dnans a ʼn cichèt, i son mai solament përmëttume d’aussé la vos con na fumela. Mai na vòlta manch ant tuti coj ani ch’i l’heu travajà ʼnt n’asienda ʼndoa ch’a-i ero tranteut fomne e mach mi sol òm. Quaidun a rijerà da sota ai barbis ma i peuss assicureve ch’a-i era pròpi gnente da sté alégher, feve cont che l’adressa a l’era ʼn via 8 ëd mars, pròpi coma ʼl di dla festa dle fomne e che mie coleghe a j’ero tute feministe sfegatà. Mach a caté le mimose për tute i l’heu arzigà d’andé a rabel vàire vòlte e dòp ëd des ani passà ʼn mes a cole farinele, che ʼn sël travaj a l’han famne peui pròpi ʼd tuti ij color, a l’é già tant s’i son ëstàit bon a nen cambié sponda sercand-me ʼn moros con ël barbaròt. Comsëssìa giornà come coste a son motobin ʼmportante, quand ch’i sentoma a dì chʼa l’é capitaje quaicòs ëd brut a na fomna ʼl prim pensé a l’é che la midema ròba a podrìa capiteje a na nostra seur, a na fija o përché nò fin-a a na mama e alora ʼl sentiment a sarìa col ëd calé ʼn piassa con un lignòt e fé giustissia da nojàutri, ma a servirìa a gnente d’àutr se nen a fene arzighé la galera. L’ùnica ròba giusta da fé a l’è cola ʼd sensibilisé tuti an manera che cost problema da doman a ven-a nen butà ʼnt ël canton ëd la dësmentia e, për giuté la memòria, ij promotor ëd costa giornà a l’han decidù ʼd pijé a model l’ideja ʼd n’artista messican-a “Elina Chauvet” ch’a l’ha ʼnventà costa forma ʼd protesta: buté fòra ʼd ca dle scarpe da fomna piturà ëd ross. Minca pàira dë scarpe a veul significhé na fomna maltratà e ʼl ross a deuv arcordé ʼl color dël sangh ëd cole pòvre dòne.
Fin-a sì i soma tuti d’acòrdi e ògnidun a podrìa conté na stòria bruta ch’a l’ha lesù ʼn sël giornal o sentì magara a la radio, sèmper naturalment a rësguard ëd violense o bele mach ëd maltratament patì da dle fomne për man dij sò òm o moros. Lòn che bin pòche përsone a sarìo ʼn gré ʼd conté a son tute cole vicende ʼnté che a seufre a son nen le fomne ma l’àutra metà dël cel, cola che tuti as penso ch’a sià la part pì fòrta dla cobia. Eh già… pròpi parèj, a smija nen possìbil ma sossì a capita motobin pì da soens ëd vàire ch’i soma dispòst a chërde, però gnun a lo dis, magara përchè ch’a l’han onta ʼd felo savèj, pròpi coma che na volta a capitava për le fomne. J’òm a l’han tut da amprende da le fomne che, për mè cont, a son lor cole fòrte, nen noi; pì fòrte e ʼdcò pì svice tant a l’é ver che ch’i ch’as buta a rusé “legalment” con na fomna a l’ha bin bin pòche speranse ʼd vagné contut ch’a peussa avèj tute le rason dël mond. Un moment fa’ i l’heu mansionà la data dl’eut ëd mars, ël di dla mimosa, ebin i son squasi sicur che gnun a sà che da pì o meno vint ani a-i é ʼdcò la giornà dj’òm ch’a dròca al disneuv ëd novèmber. A l’è na festa pòch sentìa, fàita squasi sicurament për fejë ʼl vers a cola dle fomne; nopà as treuva nen un di ch’a sià ʼl corispondent mascolin dël 25 ëd novèmbre. Vardand an sla ragnà as treuva la giornà contra la violensa a le masnà, cola contra i maltratament a j’ansian e fin-a contra j’animaj, ma dj’òm a smija ch’a-j na fasa gnente a gnun. Forsi sossì a l’è për via che j’òm a ʼncalo nen a buté ʼn piassa soe tribulassion e comsëssìa a l’han ancora talment rispet për le compagne che pitòst ëd feje fé quàich bruta figura dnans a tuti a l’han pì car sté ciuto e buté giù brusch, magara për na vita ʼntera. J’ani dle lòte feministe ch’a rivendicavo parità ëd dirit a son nen tant distant, ma adess a sarìa squasi ʼl cas ëd torna calé ʼn piassa për buté na frisa d’ordin an favor ʼd coj bonomass che mach për ël fàit d’esse nassù mascc a smija ch’a siò ij responsabij ëd tut lòn ch’a capita. J’òm ch’a patisso di tòrt da le morose o pes ancora da le fomne ch’a l’han marià, bin da soèns as compòrto coma coj ansian vitime dj’ambreuj, as vërgògno lor al pòst ëd chi ch’a fà col gest da viliach.
Tre o quatr ani fa’ parland con dij colega, tuti mal marià, i son ëvnù a conossensa ʼd soe malaventure e i l’heu pròpi avù la conferma che ʼl proverbi: “guai a chi ch’as ʼncaprissia ʼd rende giusta la giustissia” a l’é nen mach na manera ʼd dì. Tuti a l’avìo avù dij problema, ma la stòria ch’a l’ha fame pì sgiaj a l’é stàita cola ʼd Rico, un fieul, ansi n’òm ëd quarantequatr ani che, prima d’esse trasferì ʼd repart, a l’era stàit mè avzin d’ufissi pròpi ʼnt ël period pì brut ëd soa vita. Rico, ël nòm i l’heu baratajlo ʼn manera che gnun a peussa arconòss-lo da già che tut sò calvari a l’ha contamlo ʼn pòch da genà, a l’era, o mej a l’è ancora, na përson-a dle pì brave ch’a-i sio ʼn sla facia dla tèra. Mi e chiel i soma intrà ʼnt nòstra asienda squasi ʼnt l’istess moment pì ʼd vinteut ani fa’ e da col di nostre cariere a l’han marcià paralele: prima ovrié peui técnich dël repart colaudeur e a la fin responsabij ëd le vendite. N’ufissi con doe scrivanìe e doe cadreghe a l’era dventà nòstra sconda ca e ambelelì i passavo bon-a part ëd nòstra vita squasi sensa parlesse ʼn tra ʼd noi se nen për question ëd travaj. Mi i lʼavìa la prima metà dla stansia, sùbit tacà a l’uss, e chiel cola pì distanta, con la cadrega pogià a la muraja e la scrivanìa ʼn facia a la pòrta. Adess, dòp d’esse stàit anformà ʼd cola ch’a l’era soa situassion famijar, im rend cont dël përchè ant j’ùltim temp la madamin ëd le polissie a bërbotèissa sèmper ëd nen podèj ramassé da bin sota a la scrivanìa ëd Rico; a disìa che col monsù a smijava ch’a fussa portasse mesa vardaròba pròpi là sota. An efet col bonomass a l’era ʼnt ël moment forsi pì brut ëd la vita: Lena, soa fomna, a l’era ʼncaplinasse ʼd n’àutr òm e donca chiel, pòch për vòlta, a l’era slontanasse da ca. Coma ch’a fussa possìbil na facenda përparèj Rico a podìa nen ëspieghess-lo; a l’é vera che j’anteressà a son sèmper j’ùltim a savèj coste ròbe, ma Lena a l’era mai stàita na fomna coma ch’ an piaso a nojàutri mascc… “càuda”, për capisse sensa ʼndé ʼnt ël volgar, donca ch’a podèissa avèj na relassion con n’àutr òm dòp ch’a j’ero ani e ani ch’as avzinava pì nen al sò, a smijava na bestialità da nen chërde. Për maleur tut lòn che ij colega, an grignand, a l’avìo dije vàire vòlte visadì che: chi ch’a mangia nen ant ëcà a veul nen dì ch’a meuira ʼd fam, a l’era dventà realtà. Lena a l’avìa sèmper considerà sò òm un gran travajeur, ma bon a gnente d’àutr; chila a l’avrìa vorsù avèj dacant në scritor, un poeta, na përson-a ch’a la portèissa a teatro o magara a fé dle gite ʼn montagna e Rico nopà a l’era mach sèmper con la testa ʼnt l’ufissi opurament ampegnà a fé ʼd manutension a cola ca che ij doi a l’avìo catà con ij sò miser profit. Për fela curta, sensa vorèj deje la colpa a un o a l’àutra, cola cobia a l’era dësblasse contut che gnun dj’amis o dij parent a fussa ancorzuss-ne. Rico a l’era ʼndàit via da ca ma a l’avìa seguità a buté ij sòld an sël cont an banca da ʼndoa che tant chiel che la fomna, chila pì che tut, a pijavo për fé la spèisa e për jë bzògn ëd cola che sèmper meno a smijava a na famija. Ij doi fieuj, giumaj grand, ch’a studiavo ʼn sità, a stasìo via dij mèis anter e la ca donca a l’era restà tuta a disposission ëd cola dòna che përparèj a l’avìa carta bianca për scontré, pròpi ambelelì, sò neuv spasimant.
E Rico? Rico a l’avìa fin-a onta ʼd dì lòn ch’a l’era capitaje e arlongh a la giornà a vivìa coma sèmper: an ufissi fin-a a sèira tard, peui però quand’ ch’a rivava l’ora ʼd sin-a nopà che ʼndé a ca a stasìa lì a mangé ʼn sànguiss an sla scrivanìa. Minca tant, quand ch’ a l’era nen da sol, Rico a fasìa finta d’andé via, ma dòp ëd na cobia d’ore a tornava ʼnt l’ufissi për serché ʼdeurme quàich ora cogià ʼn sla scrivanìa. Gnun dij colega a l’era mai sdass-ne che col òm a passava le neuit an sël travaj fin-a ʼnt ël sinch ore ʼd matin për peui lavesse ʼnt ij bagn ëd l’asienda, seurte për fé colassion al bar e torna intré timbrand la catolin-a pontual ansem a j’àutri. Col gest ëd timbré la cartolin-a tute le sèire fasend finta ʼd seurte a-j peisava ʼn sl’anima coma na pera da mulin; tuti ij di sèmper pì tard, tant che ʼl cap ufissi a l’avìa fin-a rusaje pensand che col òm as fërmèissa për fé dle maròche. A mi sol, adess ch’a l’é lassasse ʼndé a feme dle confidense, Rico a l’ha contame vàire ch’a j’ero longhe cole ore slongà ʼn sla scrivanìa con la tëmma che la guardia dla neuit a podèissa ancorzisse ʼd soa presensa quand che ël son ëd sò cheur a smijava ʼn tanbòrn ch’a-j martlava ʼnt j’orije e ʼl respir a-jë vnisìa sèmper pì afanà.
Cola ch’a l’avrìa dovù esse na sistemassion provisòria nopà a l’era dventà squasi normala përché l’ùnica rèndita sicura për la famija, ch’a l’avìa già sèmper tribulà a rivé a la fin dël mèis, a l’era pròpi mach la paga dl’ òm e chiel, për conseguensa a sarìa mai stàit an gré ʼd pagesse ʼl fit ëd n’alògg decoros. Quand chʼa j’ero mariasse Lena a l’era nʼanfermera genèrica, ma bele ch’a fusso tanti ani ch’a travajava pì nen, sò òm a chërdìa che dòp d’avèj otnù ʼl divòrsi a sarìa torna ampiegasse, miraco ʼn sfrutand cola specialisassion ch’ a l’avìa pijà frequentand un cors, pagà da Rico naturalment, quand che, con ij fieuj già grand, la fomna a së stufiava a sté a ca. Chi ch’a viv dë speransa dësperà a meuir, a dis ël proverbi, donca l’avocat che ij doj a l’avìò pijà ʼd sòcio, për vansé dij sòld e fé në strument sempli, a l’avià dit che le spèise a sarìò stàite a divise ʼnt tra ʼd lor conforma a j’ero le possibilità finansiarie e ʼl giudes, na fomna cò chila coma l’avocat, a l’avìa giuntaje dël fer a la ciòca an precisand che ʼl tren ëd vita dla madama e dij fieuj a tocava ch’a fussa sèmper istess. Cola sentensa a l’era stàita na massà sensa sens. Lena a l’avrìa poduje passé la neuit ai malavi o fé le pòste, se a vorìa nen pròpi serchesse ʼn travaj fiss, ma col-lì a smijava esse sò ùltim pensé tant, con col papé ʼn man, chila a l’era tranquila. L’ùnich agreman che l’òm ansistend a erà stàit bon a oten-e a l’era col ʼd dovré chiel la vitura pì gròssa.
-J’euj ëd Rico, sèmper pì ross man a man ch’am contava soa stòria, a tribulavo a traten-e le lerme -
Tuti ij di a disné, ant la mensa asiendal, Rico as ampinìa la pansa pì ch’a podìa ʼn manera d’arsiste fin-a a l’indoman e vansé ʼd fé sin-a. N’òm ëd quarantequatr ani a l’era rivà a la mira ʼd patì la fam për avèj an sacòcia ij sòld ch’a-j servìo a porté ʼn piòla ij sò doi matòt na vòlta minca quindes di. Lòr, ij fieuj, an vëddend sò papà sèmper pì strafognà a j’ero smonosse d’andè ʼnt ëcà da chiel a mangé, për capì s’a l’avèissa avù dabzògn ëd na man, magara për buté d’ardriss, ma Rico a disìa che la stansia dël portié che ʼl padròn ëd la bòita a l’avìa fitaje, a l’era tanto cita ch’ a bastavo sinch minute per butela a pòst, belavans la vrità a l’era che manch pì ʼnt l’ufissi a durmìa pì nen. Cola vitura famijar, che Lena a l’avìa lassaje, a l’era dventà soa cusin-a, vardaròba e stansia da let. Minca dì a tocava tramuvela ʼnt un parchegg diferent për nen dé ʼnt l’euj, për nen fé pen-a e tut sossì conservand na dignità vrament ùnica.
Sicurament Rico gnun a l’è mai arzigasse a patlelo përchè ch’a l’é grand e gròss, ma tut lòn ch’a l’ha soportà a l’é stàita na forma ëd violensa nen meno grama ʼd cola che ʼd sòlit i s’anmaginoma, na forma d’ingiustissia legalisà che bin da ràir a ven svantà ʼnt le piasse contut ch’a sia giumai comun-a a tanti monsù.
Për fortun-a nen tute le fomnè as compòrto coma Lena, ansi la pì gran part a son bin diferente da chila e la giornà dël 25 ëd Novèmber a deuv arcordene a nojàutri òm che lor a son la ròba pì pressiosa ch’i l’oma, tutun a l’indoman ëd cola data, da fianch a le scarpëtte rosse i podrìo ëdcò buté quàich pàira dë scarpon, magara bleu, parèj, giusta për fé capì a tuti che ʼnt nòstr pais as peul esse tratà pes che ij delinquent sensa avèj fàit mai gnente d’àutr che ʼl pare d’famija.
P.S.
Col mè colega adess a sta motobin mej përchè a l’ha trovà na compagna neuva – coma ch’as dis adess – a viv pì tranquil e finalment tuta cola rumenta ch’ a-i era sota soa scrivanìa a l’é portass-la a ca la fomna dle polissìe… ansem a Rico.
Traduzione:
Scarponi blu.

Venticinque Novembre 2018. Oggi è la giornata in cui in buona parte del mondo si fanno delle manifestazioni contro chi maltratta e picchia le donne; anzi aspettate un attimo, non mi sono spiegato bene: contro gli uomini che fanno violenza alle donne, perché mi pare di capire che se fossero delle signore, signorine o magari delle ragazze a malmenarsi tra loro, quel fatto non farebbe senso a nessuno. Io sono il primo a condannare questi comportamenti, perché picchiare una donna è un gesto proprio da vigliacco ed anche se nella mia vita mi son trovato più volte in situazioni in cui avrei preferito dover discutere con un uomo, magari anche per scambiarci due schiaffoni e poi sistemare subito la questione alla maniera dei maschi, davanti ad un bicchierino, non mi sono mai nemmeno permesso di alzare la voce con una femmina. Mai una volta, neppure in tutti quegli anni in cui ho lavorato in un’azienda nella quale c’erano trentotto donne ed un solo uomo, io. Qualcuno riderà sotto ai baffi ma posso assicurarvi che non c’era proprio niente da star allegri; figuratevi che l’indirizzo della ditta era via otto marzo, proprio come il giorno della festa della donna e che le mie colleghe erano tutte femministe sfegatate. Solo per comprare le mimose per tutte loro ho rischiato più volte di finire sul lastrico e dopo dieci anni passati tra quelle “birbantelle”, che sul lavoro me ne han combinate di tutti i colori, è già tanto se sono stato in grado di non cambiare sponda cercandomi un fidanzato con il pizzetto. Comunque giornate come questa sono molto importanti, quando sentiamo dire che è accaduto qualcosa di brutto ad una donna il primo pensiero è che la medesima cosa potrebbe capitare ad una nostra sorella, ad una figlia o perché no ad una mamma ed allora il primo sentimento sarebbe quello di scendere in piazza con un randello e farci giustizia da soli, ma non servirebbe ad altro che farci rischiare la galera. L’unica cosa giusta da fare è quella di sensibilizzare tutti, in modo che questo problema da domani non venga riposto nel dimenticatoio e, per aiutare la memoria, i promotori di questa giornata hanno deciso di prendere a modello l’idea di di un artista messicana “Elina Chauvet” che ha inventato questa forma di pròtesta: mettere fuori di casa delle scarpe da donna verniciate di rosso. Ogni paio di scarpe vuole significare una donna maltrattata ed il rosso deve ricordare il colore del sangue di quelle poverette.
Fin qua siamo tutti d’accordo e ciascuno potrebbe raccontare una brutta storia che ha letto sul giornale o sentito alla radio, sempre naturalmente riguadanti violenze od anche solo maltrattamenti patiti da donne per mano dei propri mariti o fidanzati. Ciò che ben poche persone sarebbero in grado di raccontare sono tutte quelle vicende in cui a soffrire non sono le donne ma bensì l’altra metà del cielo, quella che tutti pensano sia la parte più forte della coppia. Eh già… proprio così, sembra impossibile, ma questo capita molto più sovente di quanto siamo disposti a credere, però nessuno lo dice, magari per la vergogna di farlo sapere, proprio come una volta accadeva per le donne. Gli uomini hanno tutto da imparare dalle donne che, per conto mio, sono quelle forti, non noi. Più forti ed anche più scaltre tant’è vero che chi inizia una controversia legale con una donna ha ben poche speranze di vincere sebbene possa avere tutte le ragioni del mondo. Un attimo fa ho menzionato la data dell’ 8 marzo, il giorno della mimosa, ebbene sono quasi certo che nessuno sa che da più o meno vent’anni c’è anche la giornata degli uomini che cade al diciannove di novembre. È una festa poco sentita, creata quasi sicuramente per fare il verso a quella delle donne; invece non si trova un giorno che sia il corrispondente maschile del 25 novembre. Cercando su internet si trova la giornata contro la violenza sui bambini, contro i maltrattamenti agli anziani e perfino contro gli animali, ma degli uomini pare proprio che non importi nulla a nessuno. Forse questo è perche gli uomini non osano mettere in piazza le loro tribolazioni e comunque hanno ancora talmente rispetto per le compagne che piuttosto di far fare loro una qualche brutta figura di fronte a tutti, preferiscono tacere ed ingoiare il boccone, magari per una vita intera.
Gli anni delle lotte femministe che rivendicavano parità e diritti non sono molto lontani, ma ora sarebbe quasi il caso di scendere nuovamente in piazza per mettere un po’ d’ ordine in favore di quei poveracci che per il solo fatto di essere nati maschi pare che siano i responsabili di tutto quanto accade. Gli uomini che subiscono dei torti dalle fidanzate o peggio ancora dalle mogli spesso si comportano come quegli anziani vittime di inganni, si vergognano loro per chi ha compiuto quel gesto da vigliacco.
Tre o quattro anni fa, parlando con dei colleghi, tutti mal maritati, sono venuto a conoscenza delle loro disavventure ed ho avuto proprio la conferma che il proverbio:
“guai a chi si incapriccia di render giusta la giustizia” non è solo un modo di dire.
Tutti avevano avuto dei problemi, ma la storia di Enrico, un ragazzo, anzi un uomo, di quarantaquattro anni che, prima di essere trasferito di reparto, era stato un mio vicino d’ufficio proprio nel periodo più brutto della sua vita. Enrico, il nome gliel’ ho cambiato in modo che nessuno possa riconoscerlo poiché mi ha raccontato tutto il suo calvario con un po’ di vergogna, era, o meglio è ancora, una persona delle più buone che ci siano sulla faccia della terra. Io e lui siamo entrati nella nostra azienda quasi nello stesso momento, più di ventotto anni or sono e da quel giorno le nostre carriere hanno marciato parallele: prima operai, poi tecnici del reparto collaudatori ed alla fine responsabili delle vendite. Un ufficio con due scrivanie e due sedie era diventato la nostra seconda casa e lì passavamo buona parte della nostra vita quasi senza parlare tra noi se non per questioni di lavoro. Io avevo la prima metà della stanza, vicino all’uscio e lui quella più distante, con la sedia appoggiata al muro e la scrivania davanti alla porta. Adesso, dopo essere stato informato di quella che era la sua situazione famigliare, mi rendo conto del perché ultimamente la signora delle pulizie borbottasse sempre che non poteva scopare bene sotto alla scrivania di Enrico; diceva che quel signore pareva si fosse portato un armadio di panni proprio là sotto. Effettivamente quel pover uomo attraversava il momento forse più brutto della sua vita: Maddalena, sua moglie, si era invaghita di un altro uomo e pertanto lui, poco per volta, si era allontanato da casa. Come fosse possibile una cosa del genere Enrico non poteva spiegarselo; è vero che gli interessati sono sempre gli ultimi a sapere queste cose, ma Maddalena non era proprio mai stata una di quelle donne come piacciono a noi maschi… “calda”, per capirci senza andare sul volgare, dunque che potesse avere una relazione con un altro uomo dopo che erano anni che non si avvicinava più al suo, pareva una bestialità da non credere. Per sfortuna tutto ciò che i colleghi, ridendo, gli avevano detto tante volte vale a dire che: chi non mangia in casa non significa che muoia di fame, era diventato realtà. Maddalena aveva sempre considerato suo marito un gran lavoratore, ma buono a null’altro; lei avrebbe voluto avere accanto uno scrittore, un poeta, una persona che la portasse a teatro o magari a fare delle gite in montagna ed Enrico invece era solo sempre con la testa in ufficio oppure impegnato nei lavori di manutenzione di quella casa che i due avevano comprato con i suoi miseri profitti. Per farla corta, non volendo dar la colpa all’uno o all’altra, quella coppia si era disfatta senza che nessuno degli amici o parenti se ne fosse accorto. Enrico era andato via di casa ma aveva continuato a depositare i soldi sul conto in banca dal quale tanto lui che la moglie, lei soprattutto, attingevano per fare la spesa e per le necessità della famiglia. I due figli ormai grandi, che studiavano in città, non tornavano per dei mesi interi e quindi la casa era rimasta completamente a disposizione di quella donna che così aveva carta bianca per incontrare, proprio lì, il suo nuovo spasimante.
Ed Enrico ? Enrico, che aveva perfino vergogna di quel che gli era accaduto, durante la giornata viveva come sempre: in ufficio fino a tarda sera, poi però quando arrivava l’ora di cena, anziché andarsene a casa restava lì a mangiare un panino sulla scrivania. Ogni tanto, quando non era da solo, Enrico fingeva di andarsene ma dopo un paio di ore tornava in ufficio per cercare di dormire qualche ora sdraiato sulla scrivania. Nessuno dei colleghi si era mai accorto che quell’ uomo trascorreva le notti sul lavoro fino alle cinque del mattino per poi lavarsi nei bagni aziendali, uscire per far colazione al bar e rientrare timbrando puntualmente il cartellino con gli altri. Quel gesto di timbrare il cartellino tutte le sere fingendo di uscire gli pesava come una macina da mulino: tutti i giorni sempre più tardi tanto che il capo ufficio lo aveva addirittura rimproverato pensado che si fermasse per fare del lavoro in proprio. A me solo, adesso che si è lasciato andare a farmi delle confidenze, Enrico ha raccontato quanto erano lunghe quelle ore passate coricato sulla scrivania con il timore che il guardiano notturno potesse accorgersi della sua presenza quando il cuore pareva essere un tamburo che gli martellava nelle orecchie ed il respiro gli si faceva sempre più affannato. Quella che avrebbe dovuto essere una sistemazione provvisoria era invece diventata quasi normale perché la sola rendita sicura per la famiglia, che aveva già sempre tribolato ad arrivare a fine mese, era proprio solo la paga di quell’uomo e lui, per conseguenza, non sarebbe mai stato in grado di pagarsi l’affitto di un’ appartamento decoroso. Quando si erano sposati, Maddalena era un’infermiera generica, ma nonostante fossero anni che non esercitava più, suo marito credeva che dopo aver ottenuto il divorzio si sarebbe nuovamente impiegata, anche sfruttando la specializzazione che aveva preso frequentando un corso, pagato da Enrico naturalmente, quando, con i figli già garndicelli, la donna si annoiava a stare in casa. Chi vive di speranza disperato muore, dice il proverbio, quindi l’avvocato che i due coniugi avevano assoldato in società, per risparmiare qualche soldo e fare un contratto semplice, aveva detto che le spese sarebbero state divise tra loro a seconda delle possibilità finanziarie ed il giudice, anche lei una donna come l’avvocato, aveva rincarato la dose precisando che il tenore di vita della signora e dei figli doveva essere sempre lo stesso. Quella sentenza era stata una mazzata senza senso. Maddalena averebbe potuto fare assistenza ai malati o fare le pulizie, se non si fosse voluta cercare un lavoro fisso, ma quello pareva essere l’ultimo dei suoi pensieri tanto, con quel foglio in mano, lei era tranquilla. La sola agevolazione che l’uomo insistendo era riuscito ad ottenere era quella di poter usare lui l’autovettura più grande.
- Gli occhi di Enrico, sempre più arrossati a mano a mano che mi raccontava la sua storia, faticavano a trattenere le lacrime .
Tutti i giorni a pranzo, nella mensa aziendale Enrico si riempiva la pancia più che poteva in modo da poter resistere fino al giorno successivo evitando così la cena. Un uomo di quarantaquattro anni era giunto al punto di patire la fame per avere in tasca i soldi che gli servivano per portare in trattoria i suoi due ragazzi, una volta ogni quindici giorni. Loro, i figli, vedendo il padre sempre più trasandato, avevano proposto di incontrarlo nella sua nuova casa, anche per capire se avesse bisogno di una mano magari per mettere in ordine, ma Enrico diceva che la stanza del portinaio, che il proprietario della ditta gli aveva affittato, era tanto piccola che bastavano cinque minuti per sistemarla, purtroppo la verità era che non dormiva nemmeno più in ufficio. Quell’ auto familiare, che Maddalena gli aveva lasciato, era diventata la sua cucina, il suo armadio ed anche la stanza da letto. Ogni giorno occorreva spostarla in un parcheggio diverso per non dare troppo nell’ occhio, per non far pena e tutto questo conservando una dignità davvero unica.
Di certo nessuno si è mai arrischiato a picchiare Enrico perché lui è un uomo grande e grosso, ma tutto ciò che ha sopportato è stata una forma di violenza non meno cattiva di quella che solitamente ci immaginiamo, una forma di ingiustizia legalizzata che raramente viene sventolata nelle piazze sebbene ormai sia comune a tanti uomini. Per fortuna non tutte le donne si comportano come Maddalena anzi la maggior parte sono ben diverse da lei e la giornata del 25 novembre deve ricordare a noi uomini che loro sono la cosa più preziosa che abbiamo, tuttavia, il giorno successivo a quella data, di fianco alle scarpette rosse potremmo mettere qualche paio di scarponi, magari blu, così, giusto per far capire che nel nostro paese è possibile essere trattati peggio dei delinquenti senza aver mai fatto altro che il padre di famiglia.

P.S.
Quel mio collega ora sta molto meglio perché ha trovato una nuova compagna – come si usa dire adesso – vive più tranquillo e finalmente tutta quella roba stipata sotta la sua scrivania se l’è portata a casa la donna delle pulizie… insieme ad Enrico.
Motivazione:
Viviamo in un’epoca di grandi contraddizioni, di grandi cambiamenti e di grandi campagne mediatiche. Fra queste una è sempre sulla cresta dell’onda ed è quella delle violenze verso le donne, realtà purtroppo quasi quotidiana, ma l’autore, in questo racconto ci porta a considerare un’altra realtà, forse meno reclamizzata ma non per questo meno degna di attenzione e solidarietà. La violenza reciproca fra gli esseri umani non conosce ostacoli ed è solo il fato e anche la forza intrinseca agli individui che può portare a delle soluzioni positive.
La scrittura è buona con solo degli errori veniali, ottimo lo stile e la narrazione.


1°classificato
«Franceschin da Viebolche» di Denis Piantino da Mottalciata (Bi)
Franceschin da Viebolche
La " Valmòss", ch'a l'è un-a dëj valade pù bèle dël Bielèis e nen da meno dëj pù famose val d'Oropa val dël Serv e val ëd l'Elv, la part da la sitadin-a 'd Cossà e la rampia su fin-a Trivé anté ch'a j'è la bèla e turistica vista dla "Panoramica Zegna". Combinassion con ël prum ëd gené dël 2019 la stacce na fusion con 4 pais: Valmòss, Moss S.Maria, Trivé e Soprana con circa 11000 abitant ch'a j'an ciamalo Valdilana. Naturalmente, tanme tute 'l ròbe, con quaj masnajada polémica e nen da pòch. Franceschin da Viebolche, l'avgnìa pròpi da là. Lo ciamavo Cicòto për via dël sò vissi ch'a-j piasìa ògni tant quaj cichetin ëd grappa. Viebolche l'è sla provincial anté che 'l bivi dla strà (da lì forse 'l nòm) a divid ij diression: a la dricia për Trivé e l'àuta për Mòss Santa Maria. Scinquanta mèter dal bivi sla snistra andand an su, j'era n'osterìa. Pròpi lì davsin ës trovava la baita 'd Cicòto, ĝiù për la riva ch'a costegiava na strajola ch'a la finissìa an 'na frassion pù sota. La ĝent a disìa ch'al fussa n'orfanèl abandonà dinta na scista as jë scalin davanti 'l porton ëd na gesa 'd Borgsesia anlupà con na querta 'd lan-a pròpi al di 'd san Fransësch, dal qual probabilmet j'avo gavà 'l nòm ch'a j'èjo daje. L'èja trovà sa baita tuta drocheri che 'l padron, ormai vecc, l'ava dàila sensa dovèj paghé un centesim ëd ficc a pat ch'a l'èjsa rangiala 'n brisinin. Cël nen con pròpi tanta preòcopassion e men che meno pressa, l'ava taconà 'n pòch ël cop cambiand quaj lòsa e sistemà 'l camin che ormai al tirava gnanca pù su 'n sospir. Dinta an col vecc baiton j'era anco na taula vegia, tuta gamolà, che con quat ciòv arĝiolent l'ava taconala a la "viva 'l previ". Un sciuch 'd castigna bel gròss l'era la soa cadrega, sensa spalera, che però l'ava butaje sora un tòch ëd coverta 'd lan-a mesa taconà tame fussa 'n cusin, ch'a l'ava tròvà dinta 'n sach arsujà dij ratte. Ël lecc l'era la ròba pù 'd valor ch'a-j fussa la dinta. Gnun ch'a sèjsa me ch'a l'era rivà beli li, gnanca 'l padron a lo sava nen. L'era un lecc ëd na piassa con na litera 'd nos un pòch gamolà ma anco bèla. Tròp bèl confront a tuta l'àuta ròba. Cicòto l'ava pròcurase na pajassa da na fomna ch'a l'era nen pròpi 'n "tipo" ansi, disumlo pura: bastansa brutin-a ĝià "grandin-a" e da marié, ch'a la stava lì visin an cambi d'un travajòt un pòch particolar. Forse j'èjo capì la proveniensa 'd col lecc. Oltre a cola pajassa an seguit l'arìa peu rivaje fin-a n'armari picinìn due cadreghe e quaj vira fin-a un piat ëd polenta e lacc, sempe grasie a coj travajòt (l'era la soa passion principal) che ògni tant l'andava fèje a cola "blëssa" ch'as ciamava Malia. Sensa sté voghe 'l tut me ch'as dì da sempe: "na man a lava l'àuta". L'ava facc-se fin-a amis d'un monsù ch'a la stava a la frassion Bonde, un pòch pù sota d'anté ch'a l'èja la baita. Ës t'òmo l'era padron d'un mòtocar -Falcon Guzzi- ch'a lo dovrava për andé còje vinasce ant ij pais ch'a favo 'l vin sle colin-e fin-a Massran , Ëlson-a e Lòscio. Cicòto l'andava svens ajutelo a dëscarié e ampinì ij lambich che col òm dòp avèj viscà 'l feu, al fava buje tut ël temp necessari për distilé cola essensa ch'a l'era la grappa. Ës qui l'era 'l motiv e la mira che ògni tant al dovìja travajé: për podèj vagnese na botin-a 'd grappa, portròp la soa seconda granda passion. Quand ch'a l'era libër ëd si impegn piasos, con la soa biciclëtta mèsa scasà con ël pòrtapach e ij fren a bachëtta, ma mèch pù un fonsionant però (me ch'al fava quand ch'al calava ĝiù për cole strà an disceisa e brute 'me ch'a j'ero antlora sensa amplachèse da quaj part j'è gnun ch'a lo sà, al dovìa esse pròpi n'equilibrista) l'andava sempe a Valmòss anté cha j'era 'l pont ëd ritròv ansema j'àucc tre amis. Pròpi an facia al comun sla piassa principal dël pais, che ĝià antlora grassie ij tancc stabiliment ch'a travajavo la lan-a la stava diventand ël ters pù important centro dël Bielèis, j'era la tratorìa Italia. Un local che vist la centralità dël pòst, l'era sempe frequentà da tanta ĝent e an quasi tute j'ore dël di. As lì l'era 'l artreuv, la ca-mare, la tan-a ëd coj quat amis ch'a j'avo batesaje coj dla "crica dl'ungia 'ncarnà ". L'era na combricola ch'a l'ava formase an quat e quatr'òt sensa régole né avocat, e che ormai l'era diventà n'istitussion baravantan-a, pròpi për dila con doe paròle 'me ch'a l'è. Aj favo gnente 'd mal, scio qui për esse sincer venta dilo sùbit për nen visché dëj brut pensé ò difidensse sospetose a tuta la ĝent, ma a-j n'era sempe 'd coj-la ch'a piavo ij distanse, anche se peu a la fin j'avrìo facc part fin-a lor ben volentè a sa squadra ch'a l'ava mèch la mira da passess-la ben n'alegria. J'avo an comun ci pù ci meno na particolarità importanta, purtròp fin-a ancheu' quaj vira sempe anco 'd mòda: a j'èjo pròpi nen tanta vòja 'd travajé. L'era 'l lor garon d'Achille ò, s'av pias anco pù, la lor debolëssa. Për lor bastava fé 'l minim dël minim dl' indispensàbil, vivìo a la giornà, a la bon-a, as preòcopavo gnanca na frisa 'd l' indoman. L'èjsa fin-a drocaje 'l mond, con la calma d'un beu j'avrìo savù trové la manera da schiviélo e sensa agitese tant. Cicòto ch'a l'era l'ultim dla crica, l'ava pòca scòla,pen-a pen-a ch'a l'era bon scrive 'l sò nòm, ma l'era un gran bel giovnòt. Un ëd coj tipo che tante fomne j'avrìo facc ij carte faose për podèj avej ij soe atension. E scio li cëll, anche se smiava an pòch un bonòm (o fòrse a lo fava mèch crëdde) l'ava capilo, e 'l perdìa mai l'ocassion da buté an pratica sa soa vocassion particolar. Ma an cola anada balorda an tute 'l manere,për ël Bielèis dal 1968, dòp la seconda metà d'otober l'ava ancomincià na piovera ch'a la piantava pu nen li. Ij teren ormai ambibià d'aoa da fé paura ancominciavo a perde consistensa e frané ant ij fòs e torent fin-a quand, ant la nòcc dal 2 november, la Stron-a con la soa bura la portava distrussion e mòrt an tuta la valada. Mèch ant la zona dla Valmòss la fòrsa dl'aoa la spassava via ca, fabriche, negòssi e magasin pesc che un bombardament. Dòp coj tre di d'infern longh ël percors dla Stron-a j'avo quintà 58 mòrt. Col aoa cativa, cola che për agn tuta tranquila l'ava dacc da vive, sta vira l'èja colpì tan'me na maledission tut ël Bielèis con ben 72 mòrt an total tra òmni fomni e masnà. A j'è dëj moment ant la vita ch'as podrà mai trové dëj rispòste precisi a tancc përchè. Ma la vita la continua, l'è na regola dla natura. Dòp ël brut pruma ò dòp a-i ven sempe ël bel. Smija nen da crëdde dòp na ròba dësgrassià a pò nassi quasi sempe na ròba positiva. La ricostrussion da afrontè, për tornè a me ch'a l'era, la portà a fé riaussé ij mànij a tucc, comprèis ij nòss amis dla crica. Pròpi lor ch'a j'èjo mai stacc tant amant dël travaj, smijavo dj'àuti person-e, gnanca pù l'ombra 'd que ch'a j'ero prima. Cicòto antant an mes cola disperassion general l'ava fin-a rivaje un colp ëd fortun-a: Tavio, col omo ch'a l'andava ajuté ampinì ij lambich l'èja passà a miglior vita e, vist ch'a l'ava gnun parent visin, con un testament l'ava lassaje tut a cëll. L'era nen pòca roba: n'atività ben anviarà 'd distilassion ëd grappa, na ca con al sò stàbil dausin anté ch'a j'era ij lambich e fin-a 'n bel pòch ëd sòd. Tavio Garbasc l'era n'omo sol ca l'ava mai mariasi anche se quajdun a disìa ch'a l'èjsa stacc un pòch ansema cola Malia. L'ava sempe travajà tant e, për fortun-a dal nòss amis Cicòto, l'ava facc-se un gran ben, col ben che a la fin l'ava usufruìne cëll anche grassie a la soa disponibilità 'd quand ch'a l'andava ajutelo ampinì ij lambich. As pò di ch'al fussa dìventà n'industrialòt. L'ava fin-a slargà l'asienda e tënsion: l'èja frequentà jë scole seraj për tre agn. L'era pù col pòvre maron tan'me na vira, ormai l'era diventà an gamba sia ant al sò misté che tame përson-a: l'era ben vist e rispetà da tucc. Antant l'ava cognosu na bela fomnin-a marià con n' òm ch'a l'era sempe cioch ch'al la maltratava fin-a. Purtròp (ò për fortun-a) l'èja armanù vidova, e Cicòto dòp pòch temp l'ava compagnase con gran armonia. Cël e Luisa ant ël gir ëd pòich mèis j'avo diventà na cobia invidiàbil, a lo ajutava fin-a ant l'asienda anté che antant l'ava butaje 'l nòm "Distileria Tavio", për visese sempe ëd col brav òm ch'a l'era stacc, sensa anfesne, col ch'a l'ava daje 'l posson për esse la person-a ch'a l'era diventà. An pu con l'ajut ëd Luisa l'ava atressase fin-a për prodùe mel che la riussìa vende ant ij negosi dla valada e an Valsesia su fin-a Varal. Ant ël gir ëd tre anade për la gran domanda dël mërcà l'ava triplicà ij buss d'ev e catà na sentrifuga për la smieladura dëj tlé. Tut col ben ch'a l'ava savù fése l'èja meritass-lo, l'era un brav òm, e mai l'avrìa podù dimentichese d'anté ch'a l'avgnìa. Për as fatto qui l'ava andà fin-a ant na gesa 'd Borgsesia për voghe s'al podìa savej quaj notissia 'n pòch precisa sora cola fomna ch'a l'ava butalo al mond. La fortun-a l'ava compagnalo. L'èja stacc andirisà, dòp divers tentativ, d'andé a parlé con un vecc preve che ormai l'ava ritirase ant ël santuari 'd Varal. Don Selmo, un vegiòt un pòch maloreus ma anco lucid e con tanta bon-a memòria, l'ava visase anco 'd col fatt ëd quarant agn pruma quand ch'a l'era prior dla gesa 'd San Pero.
Con nen tròpa insistensa col preve l'ava spiegaje che soa mare, portròp dòp n'eror ëd gioventù, l'ava stacia arfudà da la soa famija ( mentalità nen pròpi rara an coj temp ) mandà via da ca e obligà a rangiese an tut. J'era gnun-e colpe da fèje a cola pòvre fija, anvece da ajutela l'ava dovù subì n'onta 'd n'umiliassion ch'a l'avrìa portass-la për sempe ant la soa vita. L'avrìa mai podù alvé 'l so picinin da sola, cisà me ch'a-j pianĝia 'l cheur quand ch'a l'ha dovù lasselo sla scalinà 'd cola gesa. Don Selmo l'ava fin-a visase che, portròp, forse për colpa 'd col gran dolor mai passà, l'ava vgnù malavia e dòp un ses mèis ant ël sanateuri l'era mòrta sensa gnun davsin. Cicòto anformand-se ben antè ch'a l'era starà l'ava portaje an bel mas ëd reuse rosse. Me ch'a l'arìa piasuje cognòss-la. L'arìa brasciala, sensa ciameje gnente. Mèch ringrassiela ch'a l'ava dacc-je la vita. Cola vita che cëla l'ava nen podù godess-la. Për tancc motiv, ò forse për gnun. L'ava trovà cola tomba, na cros ëd bosch, gnanca un lumin. Almeno 'l cognòm, la foto, gnente, mè 'l nòm: Rosa. Poĝià cole reuse sor col riàuss ëd tèra sabiosa e, dòp avèj rangiaje ben cole preje bianche sël bòrd, al s'ava pu que fé se nen lasseje sora cola cros na lacrima ' d malinconìa e un ricord...col ch'a l'èja mai podu avèj.
Col brut moment dl'aluvion ch'a l'ava portà distrussion e mòrt ant la valada l'era stacc an quaj manera na ciav për fé marové tanta ĝent e cambià ant ël profond fin-a cël, forse anco pù che j'àucc. J'agn a passavo, tante ròbe j'ero cambià ò jë stavo cambiand, portròp nen pròpi an mej. Cola bèla valada un pòch sarà e strencia ma pien-a 'd travaj ch'a l'era l'orgheuj 'd tuta la zona, sa stava pian pianin slinguand tan'me la fiòca al prim so d'avrilanda. An tuta l'Italia la crisi as fava sente an tucc ij setor, sensa stè li a scerché un motiv, na rason ò na colpa da dejé a quajcòs ò a quajdun ch'as sarìa gnanch a ci punté 'l di con precision. Mèj fërmesi ant un dùbit inossent ò magari ant la convinsion ch'a dovìa andé 'me ch'a l'è andà, con na san-a rasegnassion ant ël pensè che dòp an temp a-j no ven sempe n'àut. Speroma.


Motivazione:
Storia di un personaggio assai curioso e particolare con una vita a due facce, prima sfaccendato e un po’ ubriacone e poi, dopo una disgrazia che mette in ginocchio la sua terra, eccolo diventare persona lavoratrice e persino con dei sentimenti assai nobili. Il tutto con descrizioni di luoghi e di un modo di vivere che ormai non c’è più, ma che l’autore ci fa rivivere con immagini vivide e reali.
La grafia, probabilmente della parlata biellese, porta a suoni e lemmi particolari, caratteristici e genuini.



Sez. Libri
La giuria propone un premio per Guido Ferrari da Ceriale (Sv) per la sua costante partecipazione annuale
4° classificato Nicola Piovesan Da Vicenza con: “Primo” (Documentata biografia di un autore di teatro dimenticato)
4° classificato Paola Dell’Anna da Carmiano (Le) con: “ Blu è il colore del cielo”
(Un romanzo che scorre come un film)

4° classificato Alessandra Cinardi da Roma con. “Vita e la coppa della resurrezione”
4° classificato Francesca Rivolta da Monza con. “ La mia terra promessa”
(La drammatica epopea di una famiglia altoatesina d’origine ebraica, tra leggi raziali, guerra e Kibbutz)
3° classificato Raffaele Guadagnin da Feltre (BL) con: “Cronache di Fulgenzio Draconzio”
Tra echi calviniani e provocazioni alla Stefano Benni, una divertita storia per ragazzi di goni età, che parodia il genere fantasy tanto in voga
2° classificato Cinzia Sabrina Soria da Canelli (At) con. “ Il destino non c’entra”
Drammatica storia di incomprensione familiare e di emarginazione, di amoree d8i malattia. Finale tragico, ma delicato, addolcito dai ricordi e da una significativa qualità di scrittura. Autrice astigiana)
1° classificato Enrica Mambretti da Lurago d’Elba (Co) con: “ Limpida è la sera”
Un mondo in cui adulti e adolescenti, spesso scambiandosi i ruoli, si parlano e si confrontano, finendo per conoscersi e crescere insieme. Bella storia di formazione intergenerazionale, scritta con garbo e consapevolezza stilistica.



PREMI SPECIALI offerti dall’Associazione : “La poesia salva la vita” a
Questi ragazzi che fanno parte di un gruppo della Comunità S. Giuseppe
“Sereni orizzonti 1” Seguiti dalla volontaria Vittoria F. che ha raccolto le loro poesie
Davide Beniamini – Michele Caristi – Francesco Valeriotti.
Targa Sarah Bergoglio ad Antonio Mozzo da Asti con la poesia: “Uniti per sempre”
Segnalazione di merito
Angelo De Marco da Messina con il racconto: “La mia first lady”
Benito Patitucci da Cosenza con la poesia: “Inversione di ruoli”
Bianchi Sergio da Parma con il racconto: “Il violinista di ponte vecchio”
Caterina Uricchio da Milano con il racconto: “Il passerotto e la leonessa”
Corrado Dell’Oglio da Torino con la poesia: “Il buon sentiero”
Flavia Fiore da Bari con la poesia: “Non sollevo alcun sollievo”
Franco Matacchioni da Lodi con la poesia: “Farfalla Monarca”
Liliana Agostinelli da Macerata con il racconto: “La cavalcata degli gnomi”
Marco Crivellaro da Verona con il racconto: “Faceva freddo sul fronte orientale”
Paolo Pera da Canale d’Alba (Cn) con: “Commedia di Vittorio Alfieri”
Tatiana Foschini da Cossato (Bi) con: “ln viaggio attraverso le note dell’anima”

Menzione d’onore

Ivano Chiavarino da Cuneo con la poesia: “H 20”
Alessandro Inghilterra da Genova con la poesia: “Adesso so di te”
Salvatore Maenza da Torino con la poesia: “Il mostro”
Anna Maria Riva da Cuneo con la poesia: “Solo 3 su 400 son tornati”
Varello Anna da Torino con la poesia: “La mia solitudine”
Enrico Trapasso da Vico Valensia con la poesia: “Un uomo grida e piange”
Flavio Provini da Milano con la poesia: “Non chiedermi i volti delle emozioni”






2 Targhe offerte dal Presidente del Consiglio Comunale di Asti Dott. Giovanni Boccia che le Consegna
Gastaldi Carretto Ines da Bardineto (Sv) con il libro per bambini:
“animali, fate e gnomi”
Ellebori M. Antonietta da Viterbo con il libro: “Lo scrigno”
3 Targhe offerte da LIONS Club “Vittorio Alfieri” di Asti consegnano la Presidente Dott.ssa Roberta Pistone e dott.Federico Cirone
Gino Iorio da Calvi Risorta (Ce) con la poesia: “Non ti ho mai detto”
Massimo Mezzetti da Roma con la poesia: “Esprimiti”
Targa alla memoria di: Laura Astuni da Genova per il libro:
“Linguaggio di farfalla”.
Mancata prematuramente. Laureata in giurisprudenza ha svolto la sua carriera presso il Ministero della Giustizia. Ha scritto alcuni libri, molti sono stati premiati. Uno in particolare: “L’amore deragliato” in cui affronta il tema doloroso della violenza sulle donne che ha avvinto e commosso la giuria.
E’ presente la famiglia, ringraziamo la presidente del LIONS Club dott.ssa Roberta Pistone, che ha voluto offrire questa targa alla memoria di Laura.

A questo punto non ci resta che ringraziare tutte le autorità che hanno presenziato, la Provincia di Asti per averci ospitato, la città di Matera per il Patrocinio - l’editore Lorenzo Fornaca - Saclà - Reale – C.R. Asti – Banca d’Alba – – Il Lions club di Asti “Vittorio Alfieri” – La giuria - Il Presidente del Consiglio Giovanni Boccia - CSV per il valido sostegno ed volontari oggi presenti.










 

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