NEWS

 

 

03/10/2017

16° CONCORSO NAZIONALE DI POESIA E NARRATIVA VITTORIO ALFIERI

 

Cerimonia di Premiazione della 16° edizione del Concorso Nazionale di poesia e narrativa "Vittorio Alfieri"
organizzato dall'Associazione culturale di Volontariato ONLUS:
"La poesia salva la vita"

Hanno partecipato al concorso oltre 230 autori provenienti da molte regioni d'Italia ed anche dall’Estero.

La giuria formata da docenti ed esperti qualificati.

Presidente Dott. Salvatore Leto – Laurea in semiologia, è tra i fondatori e presidente del Cine circolo Don Bosco, insegnante di Lettere nei licei astigiani, poi direttore del Teatro Alfieri, direttore di Astiteatro, sin dalla nascita del Festival, co-fondatore di feder festival e vice presidente Nazionale.
Professor Davide Ghezzo è docente di materie letterarie e latino nei licei, e di scrittura giornalistica per l'università. Ha pubblicato una ventina di volumi tra narrativa, saggistica, poesia e antologie e manuali scolastici, attinenti la modalità fantastica della letteratura, conseguendo numerosi premi e riconoscimenti. Tiene incontri e conferenze sulle tematiche dell'insolito e della spiritualità.
Dott. Giorgio Enrico Cavallo – Laureato in lettere moderne, giornalista, poeta, torico, docente università delle tre età.

Prof. Claudio Calzone Da sempre appassionato di poesia, storia, musica e letteratura fantastica, Ha pubblicato due libri di poesie: romanzi e racconti, ha partecipato con un lungo racconto.
Ha tenuto conferenze su temi letterari, storici ed esoterici.
Prof. Antonio Lepore – Laureato in lettere moderne è docente di materie letterarie presso l’istituto Superiore: “A. Castrignanò” di Asti, è docente di letteratura italiana presso l’Università delle tre età di Asti. Giornalista, pubblicista , ha scritto per periodici e riviste specializzate d’arte e letteratura, è autore di libri di poesia, di critica letteraria e d’arte, è direttore editoriale di spettAttore.

Dott. Paolo Raviola – Laureato in giurisprudenza, esperto in comunicazioni, autore di 5 libri sulla storia e la cultura locale, ex capitano del Palio di Asti, direttore di 5 giornali-


La sez. poesia in lingua italiana
4°) Bitozzi Mario da Udine con: “Natale altro” Assente
4°) Olivi Valentina da Venezia con: “In viaggio per la vita”
4°) Pittaluga Ileana da Novara con: “L’inutilità di una strofa studiata”
4°) Lavazza Camilla da: Mantova con: “Mondi fatti a mano” alla quale facciamo molti auguri per il recente matrimonio
4°) Aprile Giuseppe da Cuneo con: “Tutto sconfigge il tempo”
4°) Bianco Giuseppe da: Napoli con: “Gli ulivi”
4°) Cappella Anna da Caserta con “Notturno di Dafne”
***
3°) Mezzetti Massimo da Roma con: “Vetrata”
Motivazione:
Lirica impregnata di malinconia, costruita su opposizioni figurali e concettuali, fortemente allusive all'elemento liquido, col senso umorale e vitalistico che ne deriva.
Nella pensosa contrapposizione tra un aldiquà umanizzato e un aldilà naturale, si crea un gioco di specchi che rimanda il senso della finitudine umana.
Vetrata
Lacrima la vetrata,
s'appanna il desiderio
rinasce la trasparenza.
C'è una foresta
affacciata ad una finestra,
sui rami d'acqua
beve la brevità del tempo
lasciando le radici
dissolte nel pensiero.

2°) Galli Giovanni da Cuneo con: “Complice da passeggio un legno” Motivazione:
Testo di raffinata concisione, articolato su una gamma lessicale preziosa e impegnativa che tratteggia la numinosa bellezza della natura.
Il richiamo all'ermetismo è temperato da un gusto di sintagmi chiusi da parole piane e dall'uso della prima persona verbale che personalizza e soggettivizza l'intento poetico.
Complice da passeggio un legno

Su tappeti
d’ispide faggiòle
corteggio
‒ ghiandàia ancòra ‒
indeiscènti achèni.
Di nero
barro
‒ lucente ‒
copritrici turchesi.
Poliglòtta ciarlièro.
Garrulus glandarius…
Reale un nìbbio
‒ simulàto ‒
riprende (stizzìto) il cielo.

Ghiandaia. s. f. Uccello appartenente alla famiglia dei Corvidi, in cui il poeta ‒ panicamente ‒s’identifica. Ha un piumaggio variopinto dove predomina il bruno-rosato, con le ali che mostrano un’ampia macchia bianca e le copritrici d’un turchese intenso barrate di nero. Predilige i frutti delle querce. Del tutto particolare è la sua capacità di imitare i richiami di molte specie di volatili, fra cui i rapaci, dote che sfrutta per allontanare i competitori dalle fonti di cibo.


1°) Di Dio Francesco da Cosenza con la poesia: “A volte”
Motivazione:
La poesia lascia trasparire un desiderio di annullamento e di cancellazione della sofferenza, oltre il quale si intuisce tuttavia una volontà di riscatto e di riproposizione personale e sociale. La visione si proietta in uno spazio onirico, irreale ma insieme sfondo possibile di un nuovo scambio con un segreto interlocutore affettivo.
A volte

A volte ho voglia di
dissolvermi nel vento
per non tornare non tornare mai più.

A volte, ho solo voglia di
svanire in un sogno
e perdermi, perdermi per sempre.

A volte mi smarrisco nel nulla
e non sono, non sono più.

Se a volte, ma solo a volte
non mi trovi… Tu.
Tu cercami in un sogno

Là io ci sarò.



Segnalazioni di merito per la poesia in lingua italiana
Carla Parodi da Calosso (At) con: “La mente mia”
Salvatore Pidone da Como con: “ Padre”
Corrado Dell’Oglio da Torino con: “ Per sempre”
Giovanni Cianchetti da Torino con: “L’assenza”
A. Maria Deodato da Palmi (RC) con: “Dentro il burca”
Nunzio Buono da Pavia con: “Se rimani”
Milani e Tonelli da Genova con: “Uomini senza storia”
Frassi M. Grazia da Cremona con: “Con la nuova pioggia”
*Alessandro Bacci da Firenze con: “Come una croce da portare”
*Paci Stefania da Firenze con: “Amore”
*Iolanda Tirotta da Reggio C. con: “Fiele dolce...di una vita amara”
*Angelo Pilotti da Caserta con: “ Amor malato”
*Franco Matacchioni da Lodi con: “ Dietro l’angolo”
*Francesca L. Piccione da Trapani con: “ Per Valentina”
Sez. narrativa in lingua italiana
4°) Bergantino M. Grazia da Benevento con: “Un misterioso incontro tra signore”
4°) Caiano Franca da Asti con: “Come un sospiro d’autunno”
4°) Alberganti Bruno da Vercelli con: “Una vita legata ad una rosa”
4°) Rossi Attilio da Carmagnola (To) con: “ I sogni non si spengono mai”
4°) Pomina Genoveffa da Savona con: “Punto di non ritorno”
4°) Perri Rolando da Cosenza con: “La rosa canina”
4°) Cuminetti Carla da Asti con: “ Il dono”

3°) Colombo Pierangelo da Lecco con: “Il vecchio e il canarino”
Motivazione:
Una celebrazione asciutta senza enfasi, del lavoro, del sacrificio e anche del rispetto per ciò che si è conquistato con fatica, nei campi e altrove.
Il vecchio e il canarino
Mani fiacche e tremule muovono le ruote della sedia a rotelle, venuta a supplire gambe stanche e fragili. L’odore di stantio aleggia nell’aria, assieme allo scricchiolio della gomma sul pavimento. Un raggio di sole, insinuandosi nella fessura dell’imposta, squarcia la penombra incendiando il pulviscolo; una lama che traccia sul pavimento una meridiana di luce, orologio solare che, scivolando sul cotto, palesa l’inesorabile fluire del tempo. Minuti strazianti per il vecchio che, vagando per la stanza, accarezza ogni ricordo che vi aleggia. Non c’è angolo, oggetto, graffio sui mobili che non rievochi malinconie di una vita lontana. Ricordi passati in rassegna in un ultimo saluto, prima d’essere reciso dalle proprie radici. Sfiancato, attende la resa come un soldato certo della disfatta.
Una guerra contro la solitudine iniziata con il mesto addio a Manuela: vita, gioia, amore. Otto interminabili anni a sopportarne l’assenza, i più lunghi degli ottantatré vergati nelle ossa.
I ricordi sono le armi affilate con cui respingere gli assalti della solitudine, in una casa dove tutto parla di lei, compagna di vita, bella e fragile come una farfalla. Amore a cui non ha perdonato il torto d’essersene andata prima di lui. Ora teme che, partendo, non abbia abbastanza spazio nella testa per contenerne i ricordi, accumulati come tesori. Teme di scordarne la voce squillante, il luccichio cristallino degli occhi, la pelle vellutata.
Getta un’occhiata all’angolo della credenza, dove rigide scatole di farmaci hanno occupato quello che fu da sempre il posto delle MS senza filtro, pacchetto morbido. Il pensiero, però, rimbalza fra le pareti come la pallina di un flipper, attirato da quella maledetta valigia in camera. Un vortice da cui non riesce a sottrarsi. Ricordi atavici di quando, da bambino, era minacciato: “Se continui così, ti spedisco in collegio!”. Ironia della sorte, toccherà a suo foglio rinchiuderlo in una casa di cura.
Scivolato dalla sala verso la cucina, con gesti quotidiani, prepara la moka del caffè. Dal giorno dell’infarto, quando il cuore crepandosi ha iniziato a fare le bizze, non può berne. Un precetto del medico seguito scrupolosamente, ma non ha mai rinunciato al rito di mettere la moka sul fornello: adora sentire il borbottio della macchinetta, l’aroma spandersi per la casa rendendola viva; rassicurato dal calore amaro stretto nel palmo della mano. A salutarne il rito, saltellando fra una bacchetta e l’altra, il canarino che colora l’aria della cucina con il proprio cinguettio. «Gran brutta roba la vecchiaia» replica il vecchio. «Che ne pensi, Zabaione?» Lo guarda teneramente.
Dono dell’unico nipotino, l’uccellino doveva essere un compagno il cui canto avrebbe scacciato la malinconia del nonno; una voce che riempisse il silenzio della casa. «La vecchiaia è un rampicante che ti si attorciglia addosso con lentezza» professa. «Senza che te ne accorgi, ti avvolge soffocandoti come le spire di un cobra; rallenta i muscoli, rimbambisce la testa, intorpidisce gli occhi e ti appesantisce.
Ti fa tornare bambino. Vedrai che fra qualche tempo mi metteranno anche il pannolone». Sorride amaro. «Ma se mi lamento io, che vado dove sarò curato e riverito» prosegue, «tu cosa dovresti dire? Non sai nemmeno che fine ti spetta. Nessuno ha tempo per curarsi di te.
Non c’è anima che possa trovare indulgenza e trattarti come un essere vivente. Acqua e becchime ogni due giorni, spazzare la gabbia una volta la settimana, vuoi mettere che impegno?» Stringe forte i pugni per il senso d’impotenza. «Zabaione, che nome assurdo. Soltanto Nicolas poteva affibbiartene uno del genere. Ricordo ancora quando, raggiante, è entrato da quella porta reggendo la gabbietta. Aveva quattro anni allora, ti ricordi?
Si metteva sempre sulle mie ginocchia fingendo di guidare il camion del babbo, mentre io facevo ruotare queste mie gambe per tutta la casa. Per fortuna, ho sempre avuto le braccia forti, da carpentiere, non come queste». Batte a mani aperte le cosce. «Che sono diventate molli come gambi di sedano appassito. E pensare che mi arrampicavo sulle impalcature come un gatto».
Il canarino, inclinando la testa, fissa il vecchio con l’occhio destro e ribatte cinguettando. «Povero Zabaione. Se potessi, ti porterei con me a Villa dei Cedri». Sospira. «Chissà perché gli ospizi hanno sempre questi nomi da vivaio? Villa dei Tigli, delle Querce, delle Betulle o Fronde Ghiandose. Non credo, però, ci sia una Villa dei Cipressi, né tantomeno Villa dei Crisantemi: espliciterebbe l’idea del precimitero. Ma tu che ne sai di alberi? Sei nato fra le sbarre.
L’unica foglia che vedi è l’insalata che ti metto io. Gli alberi ti fanno paura, ecco la verità».
Si burla. «Ricordi quando Nicolas ti ha aperto la gabbia? Disse di non averlo fatto apposta, ma poi, un giorno, mi confessò la verità: voleva regalarti l’esperienza di posarti su di un albero, anche se di Natale. E tu? Da buona ‘aquila’ quale sei, hai scagazzato per tutta la sala, ti sei posato su ogni mobile senza degnare d’uno sguardo quel povero abete spelacchiato». Ridacchia. «È stato divertente, però, vedere tutti rincorrerti per acciuffarti e rimetterti in gabbia.
E io a sentirmi in colpa per aver riso il giorno di Natale senza la mia Manu». Gli occhi tornano a inumidirsi. «Avresti dovuto conoscerla: l’avresti amata. Lei era un tozzo di pane bianco nella carestia, una sorgente fresca nella siccità, un riparo sicuro nella buriana, un’altalena in una gabbietta come la tua. Lei era speciale: energia per la vita, come un raggio di sole la cui luce s’infrange sul corpo illuminandolo, mentre la sua energia vi penetra riscaldandolo e infondendogli una forza straordinaria. Lei mi ha fatto accettare la vita dopo l’incidente. Ah, ma non pensare sia stato tutto rose e fiori. Quante discussioni, specie su Matteo: era una madre apprensiva. Dicono che l’amore non è bello se non è litigarello, quindi, se contassimo tutti i bisticci, il nostro non era bello, ma meraviglioso. Vivere assieme è stato un racconto scritto di getto, a cui non cambierei una sola virgola, anche se sbagliata».
Sospira. «Mi manchi» sussurra nell’aria. Un nodo alla gola ne soffoca il respiro e, singhiozzando, scoppia in un pianto dirotto.
Lo lascia sfogare: l’emozione d’abbandonare casa e ricordi è ingovernabile. «Meglio sfogarsi ora» confida, «che davanti a Matteo. È già abbastanza mortificato: non è facile nemmeno per lui.
Ha una famiglia a cui badare, il lavoro e i debiti.
Non merita altri pensieri. Ci manca solo un vecchio frignone fra i piedi. Lo so che gli spiace chiudermi là dentro, ma cosa può fare? Sono vecchio e mi serve una balia, ma una badante costa troppo: la pensione basta a mala pena per me. Venderà la casa e pagherà la retta dell’ospizio». Sospira. «Chissà chi verrà ad abitarci?»
Si guarda attorno, senza capacitarsi dell’idea. «Ricordo quando l’abbiamo comprata: era il tempo in cui i sogni facevano il tiro alla fune con i debiti. Ma allora eravamo giovani e forti.»
Guarda trasognato le pareti della cucina, i ricordi si fanno vividi.
Una catapulta che lo proietta a quel pomeriggio dove, entusiasti, stavano tinteggiando casa. Lei era bellissima: i lunghi capelli legati in una crocchia, le goccioline di tempera bianca che le disegnavano minuscole lentiggini sulle guance, mentre il sorriso innamorato sprizzava entusiasmo. Il sole entrava dalla finestra. Sfiniti dal lavoro, si erano presi una pausa, mentre dalla radio la voce di Battisti alleviava la fatica. La sala era ancora deserta, solo un tappeto persiano tessuto a Busto Garolfo.
Si amarono stesi sul quel tappeto, come fosse la prima volta, con un trasporto tale da farsi un tutt’uno, un solo respiro, un solo pensiero. Forse minuti, forse per ore: il tempo s’era annullato.
Il cinguettio del canarino ridesta il vecchio. Ed è proprio in quel limbo fra la realtà e il sogno, che, inebriato, crede di percepire il profumo di mughetto: il preferito della compagna. Istintivamente si volta verso la porta, pervaso da un brivido. Allunga il braccio, stendendo la mano verso qualcosa che solo il pensiero può percepire. Una sensazione di pace che l’avvolge come uno scialle, riscaldandolo. «Per fortuna, non hai le orecchie grosse come le mie». Torna verso la gabbia. «Così senti solo un terzo delle panzane che sparo, il resto scivola via come gocce d’acqua sulle piume.
Volevo salutarti e, invece, ti sto triturando gli zebedei con discorsi tristi. In fondo, vado in una casa di riposo camuffata da Grand Hotel. Manu diceva che la vita non è altro che una villeggiatura in questo mondo. Gli ospedali sono gli aeroporti: c’è chi arriva con un vagito e chi parte con un biglietto di sola andata, ma è comunque un viaggio e un viaggio ha sempre una meta. Peccato, però, che io abbia paura di volare». Sospira. «Tu, invece, non hai paura di volare, spero.
Sai cosa ti dico? La libertà è un dono prezioso, non va sprecato. Quando io ero libero tu eri in gabbia, e ora che io sarò rinchiuso è giusto che ti faccia dono della mia libertà».
Posata la gabbia sulle ginocchia, il vecchio si dirige verso la finestra socchiusa. Entusiasta come un ragazzino, la spalanca respirando profondamente l’aria; apre poi la porticina della gabbia con mano tremante. Il canarino, passato lo smarrimento iniziale, afferra l’istinto e, con un colpo d’ali, vola sul davanzale. Il piccolo pennuto sembra voltarsi a dare un’ultima occhiata al vecchio con gli occhi pieni di lacrime, ma con un sorriso enorme. Poi, spiegando le ali, balza dalla finestra volando nell’aria fresca di maggio.
Il vecchio sente il cuore palpitare; distende le braccia seguendo le ali dell’amico. Il trasporto dell’emozione è tale che gli pare di sentire l’aria afferrarlo per le braccia e sollevarlo; si fa leggero, così etereo da spiccare il volo.
«Io sarò a Villa Cedri!» urla, con voce rotta dall’emozione.
«Vienimi a trovare, se vuoi. Se invece vai da lei, ricordale che l’amo». E, con un ultimo sorriso, chiude gli occhi.
2°) Rainero Pietro da Acqui T. (Al) con: “Don Chisciotte Senzapancia”
Motivazione:
Arguta rivisitazione di un classico della letteratura spagnola con un imprevedibile conclusione che riconduce alle contraddizione dei nostri tempi
Don Cosciotto e senzapancia
Quel pezzo di petto di pollo che, fritto a mezzogiorno, transita tra due catene ininterrotte di organi, passando tra laringe e faringe, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelle, vien, quasi ad un tratto, compresso, e prende corso e figura di esofago, tra una trachea davanti, e un ampio polmone dall’altra parte; e il cardias, che ivi sfiora il fegato, par che renda ancor più sensibile questa trasformazione, e segni il punto in cui l’esofago cessa, e il vasto buco ricomincia, per pigliar poi il nome di stomaco dove le pareti, allontanandosi di nuovo, lasciano il cibo distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e nuovi seni.
E proprio quel cibo, quel pollo di cui dicevamo, è causa, insieme ad altre vivande, con il passar del tempo ed il ruotar delle clessidre, di un gonfiore del corpo dell’uomo goloso il quale, pian piano, diventa obeso. Come nel caso di specie, del nobil Cervantes di Saavedra, il quale viveva e mangiava (per forza, non si mangia per vivere?) qualche secolo fa nell’assolata Ispagna.
Spendeva, infatti, molta parte della sua rendita per mangiar bue e maiale quasi tutti i giorni, carne con salsa il più delle sere, pecora il sabato, tacchino di venerdì, con l’aggiunta di qualche piccioncino alla domenica. Essendo il nobiluomo così grasso (pardon, così ben messo), gli fu affibiato un adeguato soprannome: Don Cosciotto. Amava vestir con un saio di prezioso panno di lana, calzoni e pantofole di velluto. Non dovendosi guadagnare il pane (e la carne) col sudore della fronte, si dedicava a ciò per cui era destinato un cavaliere del suo lignaggio: l’esercizio della caccia e la lettura di libri che riportavano gesta cavalleresche. E con gran dedizione si applicava al lavoro di Cavaliere, girovagando in cerca di fanciulle da proteggere, draghi da uccidere, maghi e streghe da rendere inoffensivi. Ovviamente possedeva pure un magro cavallo di nome Ronzinante ed aveva un servitore chiamato Senzapancia.
Senzapancia…non è, per caso, che quel nomignolo derivasse dalla magrezza del suo corpo, dal viso affilato per i consueti digiuni e borbottii dello stomaco? Avete indovinato! Era magro magro magro, costantemente alla ricerca di cibo che non si faceva però, ahimè, raggiungere. Il suo padrone, in verità, non gli passava un gran ché di salario; insomma, al suo buon servitor Senzapancia l’idalgo Don Cosciotto non elargiva molta… mancia! Eppure, e questo per far colpo sul popolino, sulla considerazione della gente più povera e sui suoi simili, egli sempre allungava ai malcapitati di passaggio, attento però a non sfiorar neppure il questuante, una, non tanto congrua, offerta. Da qui il soprannome suo completo: Don Cosciotto della mancia !!
Tanto dunque era largo, rotondo e sazio l’uno, quanto l’altro si ritrovava secco, alto ed emaciato, quasi come a ricalcare la costituzione di Ronzinante, neanche lui poi tanto alimentato da Don Cosciotto. Lo spettacolo che si presentava agli occhi di chi vedeva transitar i due era, a dir poco, irreale: un nobile, rivestito di armatura, elmo in testa e lancia in mano, grasso grasso anziché no, in groppa ad un povero cavallo sofferente più lungo che largo, e subito dietro, cavalcando un asino di bassa statura, uno scudiero rinsecchito, più alto che largo, triste e silenzioso. Le avventure che i due attraversarono, in lungo ed in largo per tutta la Spagna, in quei tempi non tanto lontani, sono così numerose che mi occorrerebbe un indice con tanto di capitoli numerati, dal primo al centesimo, forse. Ma io, che oggi non ho molto tempo da dedicarvi, voglio comunque raccontarvene una.
E questa avvenne un dì sull’estremo promontorio di Fisterra, di faccia all’Atlantico, là dove il vento soffia con decisa violenza sulle rocce che cadono a strapiombo nell’oceano, sui prati pieni d’erba e sulle pecore e capre che la brucano, sui tetti delle piccole case colorate.
Era ormai quasi l’ora dell’imbrunire e il nostro, in compagnia del fedele servo, era, al solito, in cerca di nobili imprese da portare a termine. Stavano giusto, i due, discutendo dell’ineguagliabile cortesia con cui alcuni caprai li avevano accolti la sera prima, di come certi pezzi di capra bolliti erano stati trasportati dalla pentola al loro stomaco, e di quanto le pelli di pecora avevano poi dolcemente cullato i loro sogni che, in quel mentre, videro trenta o quaranta mulini a vento disseminati in quella pianura, e come Don Cosciotto li ebbe visti, disse al suo fido scudiero: “La fortuna va guidando le nostre cose meglio di quel che potessimo sperare: vedi quei trenta, o poco più, smisurati giganti. Penso di battagliare con loro così da ammazzarli tutti. Con le loro spoglie ci faremo ricchi, poiché questa è buona guerra ed è anche gran servigio sbarazzare da tanto cattiva semenza la faccia della terra” “Quali giganti?” chiese Senzapancia, rimasto quasi senza parole. “Quelli” rispose il padrone “che vedi laggiù, con le braccia lunghe, che taluni ne sembrano avere quasi di due leghe” “Guardate” lo avvertì il servo “che quelli che si vedono laggiù non son giganti, bensì mulini a vento, e quel che sembrano braccia sono le pale che, girate dall’aria, fanno andare la macina del mulino” “Si vede bene che non sei pratico in fatto d'avventure” rispose Don Cosciotto “quelli sono giganti . Se hai paura, scostati di lì e mettiti a pregare mentre io vado a combattere con essi una fiera e impari battaglia” Così dicendo, egli spronò Ronzinante, senza badare a quel che gli gridava lo scudiero per avvertirlo che, indubbiamente, quelli che stava per assalire erano mulini a vento e non giganti. Ma egli era così certo delle sue convinzioni da non udire le grida del suo servitore, né, per quanto già fosse molto vicino, s'accorgeva di quel che in realtà erano; anzi andava gridando:
“Non fuggite, gente codarda e vile; ché è un cavaliere solo colui che vi assale” Si levò frattanto un po' di vento, e le grandi pale cominciarono ad agitarsi. Avendo visto ciò, Don Cosciotto disse: “Per quanto agitiate più braccia di quelle del gigante Briareo, per quanto possiate essere più scaltri del Cavaliere della Bianca Luna, me la pagherete” Così dicendo, ben difeso dal suo scudo e con la lancia in resta, mosse all'assalto, incitando Ronzinante al gran galoppo, e attaccò il primo mulino che gli era dinanzi.
Ma, nel dare un colpo di lancia contro la pala, questa fu fatta roteare con tanta furia dal vento che mandò in pezzi la lancia e si trascinò dietro di sé cavallo e cavaliere, il quale andò a rotolare molto malconcio per il campo, sotto lo sguardo stupito e perplesso di alcune pecore. Gli accorse in aiuto Senzapancia, di gran carriera sull'asino suo, trovando, quando giunse, che Don Cosciotto non si poteva muovere, tale era stato l’urto con il terreno.
“Non ve l'avevo detto io di badare bene a cosa facevate, che non erano se non mulini a vento?”
“Calmati, caro scudiero” rispose Don Cosciotto “io penso, e così è per vero, che quel dotto Cavaliere degli specchi, malefico mago, ha cambiato questi giganti in mulini per togliermi il vanto di vincerlo, tanta è l'inimicizia che ha con me; ma alla fin fine, poco varranno le sue male arti contro la bontà della mia spada”
Il buon Senzapancia non commentò. Aiutò il padrone a rimettersi in sella, con gran rincrescimento di Ronzinante, anche lui malconcio per la botta subita, saltò sul suo asino e si rimise in cammino, a debita distanza dal nobiluomo.
Però, cammin cammina, certe associazioni di idee continuavano a ronzare nella mente del povero scudiero: mulini a vento, buona guerra, cavaliere degli specchi, verdi paesaggi, energia del vento… Finalmente, sulla via di Triacastela, arrivò improvvisa l’illuminazione! Tutto acquisiva finalmente un senso. Il suo padrone non era quello sprovveduto che cercava di far credere, quel mezzo mentecatto alle prese con missioni impossibili e arcane, anzi il suo comportamento seguiva una logica ferrea. La logica di chi, ricco e potente, governa il mondo. La logica di chi tutti i santi giorni può permettersi caviale, arrosto di cinghiale e pezzi di petto di pollo.
Di chi non è senza pancia e senza un filo di grasso, ma invece sfonda le bilance. Ora capiva! Si era sbagliato: quelli non erano mulini a vento con macine per frantumare il grano, ma per produrre energia pulita, energia eolica, verde, verde come i prati sui quali sorgevano quei tanti mulini. Troppi mulini! Troppi per chi, come Cervantes di Saavedra, possedeva azioni in società che importavano dalla vicina Africa gas e metano. Quei mulini, così numerosi, erano di industriali come il cavaliere degli specchi, nemico giurato dell’idalgo Cervantes. Specchi di centrali solari, evidentemente.
Ed il suo padrone aveva tentato di distruggerli, quei mulini così minacciosi. Era in corso una lotta tra ricchi, come sempre, tra cavalieri della Trista Figura. Ed egli, Sanchez Pancia detto Senzapancia, povero in canna, non poteva certo cambiare il mondo, non poteva ribellarsi a quello stato di cose, non avrebbe neanche mantenuto l’impiego, ottenuto la paga, avuta la sua… mancia!
Non fece intuire al suo signore, quella notte prima di mettersi a letto, cosa stava pensando. Lo aiutò invece a togliersi l’armatura e l’idalgo, riconoscente, gli disse: “Mio fido scudiero, oggi mi hai ben servito. Tieni, te lo sei meritato” E gli allungò una sola, semplice peseta.
1°) Borghi Stefano da Milano con: “Il volto di mia madre”
Motivazione:
Una prosa scarna utilizzata con efficacia per dipingere, senza indulgere a facili sentimentalismi, i graffi della vita sull’anima della protagonista
Il volto di mia madre
Sento il rumore dei miei passi rimbombare nell’edificio vuoto, avanzo con una sorta di timore che non mi so spiegare. Mi è sempre piaciuto rifugiarmi qui, nell’angolo di questa chiesa. C’è una bella luce che filtra e i vetri colorati luccicano, tanto che gli angeli dipinti sulle pareti sembrano prendere vita e ballare.
Venivo qui anche da bambina. Ogni volta che mio padre mi picchiava, io scappavo e mi nascondevo dentro il confessionale. A volte aspettavo che il parroco chiudesse la porta della chiesa, per uscire e dormire sulle panche. Mi piace il silenzio della chiesa, l’odore che vi si respira, il tremolare della luce delle candele. Stavo spesso con la testa all’insù ad ammirare la volta, a guardare tutti quei Santi che fanno capolino tra le nuvole.
A furia di fissarli mi sembravano vicini e allungavo le mani convinta di poterli toccare. Abbassavo gli occhi solo quando incontravo il volto di Dio. Non ho mai parlato con Lui. Mi piaceva molto venire in chiesa quando si celebrava un matrimonio. Aspettavo in un angolo che la sposa facesse il suo ingresso, ogni tanto lo faccio anche adesso. Ogni volta che ne vedo una penso alla madre che non ho mai conosciuto. Anche lei si è sposata in chiesa e mi chiedo cosa ha provato in quel giorno e se lo ha mai indossato, un abito così bello.
E’ morta di parto, non ho nemmeno un ricordo di lei. Solo una fotografia in bianco e nero, tutta stropicciata, dai bordi ciancicati; la fisso per ore, ma quando chiudo gli occhi non riesco a tenere a mente quel volto. La sua immagine fugge e non torna, nemmeno in un piccolo pezzo di sogno. Mio padre invece me lo ricordo bene, ricordo i suoi occhi di ghiaccio e la sua mano sempre pronta a colpirmi, fino a riempirmi la bocca di sangue. L’unico sorriso che mi ha strappato è stato quando l’ ho visto morto sul suo letto.
Non so cosa sia l’amore o forse lo confondo, eppure ho dormito in tanti letti con uomini sempre diversi. Da ragazzina mi bastava un pasto consumato in compagnia, una camicia pulita da indossare al mattino, la sensazione di possedere qualcosa, per andare a letto con loro. Poi, crescendo, ho provato a cercarlo l’amore, ma il passato te lo porti sulla pelle, come un marchio. Non ho mai avuto un amore mio: solo in affitto, oppure in prestito, mentre mi venivano sopra, io voltavo lo sguardo e immaginavo la fotografia della moglie chiusa nel comodino e mi chiedevo cosa ci fosse i quei cassetti e dentro il grande armadio che arredava la stanza. Mi scoprivo gelosa della loro intimità. Ho venduto le mie notti, ma ho avuto in cambio solo soldi spiegazzati, rantoli frettolosi e qualche colazione offerta con gli avanzi della sera prima in attesa di un taxi che mi riportasse in un posto qualsiasi. Mai nessuno che dalla tasca tirasse fuori una parola di speranza o uno sguardo che valesse come un “resta qui.” Di tanto in tanto ho rubato, per vivere ho fatto ogni cosa. I soldi mi sono serviti per comperarmi un lavoro onesto e poco altro. La strada però mi ha sempre raggiunto, ripreso, come una madre che comprende le tue necessità. Da lei me ne sono andata spesso, non fa per me la sua ninna nanna. Non ho mai avuto una casa che profumava di buono, un bagno con un vaso di sali colorati appoggiati a bordo vasca, la musica che riempie l’aria e ti fa sentire leggera e un tappeto morbido per poggiare i piedi nudi. Non ho mai avuto uno specchio milleluci e delle creme per rendere morbida la pelle. Nella stanza dove vivo, c’e’ solo il necessario e una lampadina che manda poca luce. Sull’unica poltrona che possiedo dorme il mio gatto; a volte penso che sia lui il mio padrone. Consumo cibi freddi, spesso in piedi e odio la domenica, dove il tempo sembra rallentare, costringendo i pensieri a fare capolino. Allora vado al solito bar e bevo, fino a quando i pensieri non affondano dentro il liquore e i commenti degli uomini diventano voci lontane, fino a dissolversi e non sentirli più.
Mi scivolano addosso. Qualcuno arriva sempre a prendermi la mano e a portarmi via. Quando mi sveglio sono sempre in un posto diverso, con la bocca cattiva, un puzzo di sudore addosso che non riconosco e la testa che mi scoppia. Mi dico “domani andrà meglio”, ma il domani è uguale a tutti gli altri giorni. Forse è colpa mia. Oggi il tempo è bello, mi piace sedermi sulle panchine del parco e lasciarmi scaldare dal sole. Osservo le persone che mi passano vicino, abbassano lo sguardo e allungano il passo, voltandosi di tanto in tanto. Mi piace guardare le ragazze, quando il vento muove le loro gonne e scopre un poco le gambe. Sono così belle. Penso che potrei anch’io essere come loro, e muovermi dentro quelle gonne leggere inseguendo un sogno. Mi piacerebbe poter comprare e non essere comprata. Gli uomini mi guardano curiosi, alcuni sembrano leggermi i pensieri e scappano via, eppure non sanno niente di me.
Ogni tanto qualcuno mi si siede vicino e mi porge qualche domanda gentile, ma è solo apparenza, io so cosa vogliono da una come me.
Dietro un cespuglio o in macchina non hanno poi molto da offrirmi.
Una volta ne ho seguito uno, volevo solo conoscerlo, aveva un buon profumo, era molto elegante, mi aveva sorriso. Un sorriso è importante. Mi sono avvicinato tanto da sentire i suoi capelli sul mio volto, eravamo in mezzo alla strada. Lui si è girato di scatto e con voce ostile mi ha detto: “puttana vai via”. Il suo volto si è trasformato in un ghigno perdendo quello che aveva di angelico e mi ha spinto con violenza. Poi si è allontanato velocemente; io ho provato a spiegarmi, volevo tranquillizzarlo, ma quando una non parla per giorni è difficile fare uscire le parole. Si è voltato e senza dirmi nulla mi ha colpito. Sono finita a terra, tra la gente che urlava, scansandomi come un sacco. Qualcuno mi ha dato della ladra ma io volevo rubare solo la sua normalità, un po’ della sua vita.
Era molto forte, ho sentito il sapore del sangue in bocca, esattamente come quando mi picchiava mio padre. Mi sono rialzata subito, e ho fatto un sorriso a quell’uomo dagli occhi del colore del mare in burrasca. Potrei fare qualsiasi cosa per uno con occhi così, che ha una ventiquattrore in pelle da portarsi a spasso e un po’ di gentilezza in un sorriso. Ma lui ha cominciato a urlare, a urlare, a urlare, e non la smetteva più. Ho preso il serramanico che tengo nella tasca posteriore dei jeans, in quel momento, mi sarebbe bastato un solo colpo per zittire la sua voce. La sua vita in quel momento era mia e nemmeno lo sapeva. Ero io il suo Dio in quel momento. Ma non ho fatto nulla, non ho detto nulla, nemmeno agli agenti che mi hanno fermata, perquisita e portata via. Mi hanno rilasciata, come sempre e come sempre mi hanno fatto le solite raccomandazioni.
Oggi è domenica, ma non ho voglia di bere. Ho affrontato tanti nemici nella vita, oggi ho deciso di affrontare me stessa. Penso a quello che possiedo: Dei vestiti troppo corti, rossetti accesi, calze a rete, quattro camicie, due paia di pantaloni sdruciti, un po’ di slip di vario colore e qualche amico, barboni sdentati a cui regalo sigarette in cambio di un po’ di conversazione.
Penso che non so nemmeno quanti anni ho, ma che sono ancora giovane e il tempo a mia disposizione potrebbe essere troppo.
Non so cosa farmene del tempo. Oggi è uno di quei giorni in cui sento la paura, la fatica di vivere e non mi piace.
E’ tanto che non la provavo, dai tempi di mio padre, quando mi massacrava dicendo che era colpa mia se mia madre era morta di parto. Credo sia da allora che non ho più pianto.
Ho sempre pensato che bisognava avere un motivo valido per farlo. Io non ho nulla. Stasera entrerò in chiesa, aspetterò che ci sia poca gente e mi nasconderò nell’angolo più buio, così quando il parroco spegnerà la luce e chiuderà la porta, ritroverò un po’ della mia pace. Mi sdraierò sul pavimento usando la mia sacca come cuscino e guarderò il soffitto. Come facevo da bambina. Solo che stavolta voglio guardare il volto di Dio, voglio parlare per la prima volta con Lui. Non lo conosco, ma ne ho bisogno. Vorrei chiedergli di farmi addormentare e regalarmi un sogno, dove possa vedere finalmente il volto di mia madre. Mi piacerebbe che lei fosse qui con me questa sera, vorrei tanto farmi accarezzare.
Sez. poesie in lingua piemontese
4°) Maria Luisa Cantone da Cerano (No) con: “La zuccheriera”
4°) Luigi Ceresa da Novara con: “I lumini”
4°) Luciano Milanese da Poirino (To) con: “Albero solitario”
4°) Bruno Alberganti da Borgosesia (Vc) con: “Sigaretta addio”
3°) Enzo Aliberti da Canelli (At) con: “Sfogliare il granturco”
Un incalzante susseguirsi di rime baciate che rievocano con divertita ironia la spensieratezza della civiltà contadina di un tempo
Sfojé la melia, sfòjé l’amor.

Ant la cort ël mugg ëd melia l’era imponent.
Tut antorn j’avzén j’ero lovòsse e pura ij parent.
Ël stèile smòrte, la leuina còn in ciòr quòse svojò,
l’era la sèira giusta për svijé ël cheur ‘d an-namorò.
E Pieren, in giovo ch’u stòva ant na pòvra cassinòta
l’òva fò ëd tut për piassësse tacò a la sò bëla Ginòta.
“Ginòta…seu nent come fé…ma më a veuj parlete,
më a resist peu…sòn tant an-namorò…më a veuj basete…”
“Ma Pieren, a st’ora qué, loch ut sauta për la ment!
Fomma an manera che më pòre ut senta nent…
‘t lo sòj che a më un rancrèiva j’eugg da la tësta
E a të u sarèiva anche bòn ëd fëte la fësta?”
“Ma tesòr. A veuj nent fé sagriné ij tò genitor.
Che colpa a n’eu se ël më cheur u bat come ‘n tambor”.
Anche au scur us capiva che Ginòta la termolòva
quand che Pieren, pijanda in canòn, u la sfioròva.
“Dai! – u insistiva galarù – trovomse doman, al dòp-mesdì,
a trèj bòt, a l’òmbra, drera al ciabòt, an su sorì…”
Ma la mòre, fërma sota ël pruss s’ël bòrd dla stobia,
l’òva seguì për tut u temp ël parloté dla cobia:
“Eh nò! Còra Ginòta. Të doman ëd deuve an-nì còn më
giusta al dòp-disnò, andoma a Canej e ën deuve compagné.
Adèss, pensa a sfojé la melia ch’u j’è ancora ant l’era,
perché, fòrsa ëd ciancé, j sèj stò bomben an drera”.
Ël gionvòt l’òva ripiò a sfojé tut an-mangonò,
ma, mentre la compània la j dòva na neuva cantò,
Ginòta, timidament, la tocòva Pieren còn na man
e, sot vos: “Magòra…drera ‘l ciabòt…fomma dòp doman…”
Pieren, content come in gril, còn n’assiòn in pòch da falabrach,
për la gòj l’è campòsse còn in vòtacù an sël mugg ëd fojach.
Traduzione:

Sfogliare il granturco, sfogliare l’amore.

Nel cortile il mucchio di meliga era imponente.
Tutto intorno i vicini si erano sistemati, e anche i parenti.
Le stelle pallide, la luna con un chiarore quasi svogliato,
era la sera giusta per svegliare il cuore degli innamorati.
E Pierino, un giovane che stava in una povera cascinotta,
aveva fatto di tutto per piazzarsi accanto alla sua bella Ginotta.
“Ginotta… non so come fare…ma io ti voglio parlare,
non resisto più…sono tanto innamorato, io voglio baciarti…”
“Ma Pierino, a quest’ora, cosa ti salta in mente!
Facciamo in maniera che mio padre non ti senta!
Lo sai che a me strapperebbe gli occhi dalla testa
e a te sarebbe anche capace di farti la festa?”
“Ma tesoro. Non voglio far angustiare i tuoi genitori,
che colpa ho se il mio cuore batte come un tamburo”.
Anche al buio si capiva che Ginotta tremava
quando Pierino, prendendo una pannocchia, la sfiorava.
“Dai!- insisteva ringalluzzito- troviamoci domani nel pomeriggio,
alle tre, all’ombra, dietro al casotto, là sul bricco…”
Ma la madre, ferma sotto il pero sul bordo della stoppia,
aveva seguito per tutto il tempo il parlottare della coppia:
“Eh, no! Cara Ginotta, tu domani devi venire con me,
proprio dopo pranzo, andiamo a Canelli e mi devi accompagnare.
Adesso pensa a sfogliare la meliga che c’è ancora nell’aia,
perché, a forza di cianciare, siete rimasti parecchio indietro”.
Il giovanotto aveva ripreso a sfogliare tutto immalinconito,
ma, mentre la compagnia iniziava una nuova cantata,
Ginotta, timidamente, toccava Pierino con una mano
e, sottovoce: “Magari…dietro al casotto…facciamo dopodomani…”
Pierino, contento come un grillo, ma un poco da pazzerello,
per la gioia si è buttato con una giravolta sul mucchio di fogliame.





2°) Daniele Ponsero da Torino con: “Rosa”
Componimento vibrante, tenero e delicato: dare retta al cuore significa anche raccogliere una rosa rossa trovata a terra.

Reusa

Darmagi,
na reusa an tèra,
color dël tramont!
Sarà cascà
o, l'avran perdula?
Forse lé stàita arfusà!
Darmagi,
l'han nen rabastala...
Cheujomla!
A- i n'anfà gnente se...
Soma pì nen
cò a l'é na reusa...
Ma, podoma pa
veddla sbërgnachà,
l'é na reusa!

Traduzione:
Rosa

Peccato,
una rosa a terra,
color del tramonto!
Sarà caduta
o, l'avranno persa?
Forse è stata rifiutata!
Peccato,
non l'hanno raccolta...
Raccogliamola!
Non importa se...
non sappiamo più
cosa è una rosa...
Ma, non possiamo
vederla calpestata,
è una rosa!





1°) Primo Vittone da Varallo Sesia (Vc) con: “La maschera”
Un concetto profondo sviluppato con tocchi essenziali e con l’apprezzabile impegno della piacevole cadenza di rime non scontate.

La mascra

Un tòch ëd cartun
cun sôra stampà
dôi eudggi, ‘n faciun
un nas pitürà.

La buca, ij dent,
un para ‘d barbis
i ghignu cuntent
për feti ‘n suris.

La scund na masnàa
ch’la vôl giughé ‘n pò,
për fé na ghignàa:
l’età la fa ciò !

La scund anca ‘n Òm
ch’a ‘l viv sansa seugn;
l’è ‘n povru povròm
ch’a ‘l sent ël baseugn

da vivi ‘n mument
sla soja dël mund,
luntan ‘d lë stravent
vardand sü dal fund.

La scund tüt ël gram
ch’a ‘l gira ‘n mess nôi,
l’è cume lu stram
dij neust cagadôi.

Pruvuma, Matai,
sta Mascra pugé.
Magari, për sbai…..
qaicôs po’ cambié !

N.B. Grafia normalizzata della lingua piemontese - variante dialetto valsesiano.
Traduzione:
La maschera

Un pezzo di cartone
con sopra stampato
due occhi, un faccione
un naso pitturato.

La bocca, i denti,
un paio di baffi
ridono contenti
per farti un sorriso.

Nasconde un bambino
che vuole giocare un po’,
per fare una risata:
l’età fa questo !

Nasconde anche un Uomo
che vive senza sogni;
è un povero poveruomo
che sente il bisogno

di vivere un momento
sulla soglia del mondo,
lontano dallo stravento
guardando su dal fondo.

Nasconde tutta la cattiveria
che gira in mezzo a noi,
è come lo strame
dei nostri gabinetti.

Proviamo, Ragazzi,
questa Maschera posare.
Magari, per sbaglio….
qualcosa può cambiare.

Sez. narrativa in lingua piemontese

4°) Mazzotti Mina da Cameri (No)
4°) Attilio Rossi da Carmagnola (To)

3) Ël Cheur ëd le Fomne “Gianantonio Bertalmia” di Carmagnola (To)

Motivazione:
Con semplicità racconta un gesto d’amore che sembra quasi nascere dal senso di infinito che infonde la campagna piemontese.

Ël Cheur ëd le Fomne
Nòsta ment a l’é come na soffiëtta e, mincatant, noi i sentoma l’arciam ëd cola soffiëtta, i sentoma lë bzògn dë ’ndé a fé ’n gir, dë ’ndé a sghaté ’n mes a coj arcòrd, an mes a coj tòch ëd vita passà.
La Dotorëssa Barbero a l’era rivà ’n nòst paisòt come médich condòt pijà ’n càrich dal Comun. A l’era sùbit trovasse bin, ël paisòt a l’era bel e la gent bin educà ch’a-j vorìa bin.
A dila cèira a-i era nen pròpi tant da fé ’n nòst paisòt. Mincatant na masnà ch’a së scortiava ij ginoj, minca tant na bruta stòrta ò na sapà ’n sij pé e d’invern quàiche influensa ò quàiche bruta costipassion.
E minca tant a-i era na fomna ch’a duvìa caté e a l’avìa dabzògn ëd na man.
E alora, quand ch’a sarava l’ambolatòri e a l’avìa gnun-e ciamà, la Dotorëssa a ’ndasìa a fesse ’n giròt për le strajòte dël paisòt.
A-j piasìa rivé fin-a al pilion dël belveder dedicà a San Michel e a-j piasìa beiché col afrèsch ch’a rapresentava ’l Sant antramentre che, con na longa lansa, a ’nforcava na bruta bestia, ch’a l’era peui gnente àutr che ’l diav. Ma la bestia a l’era talment bruta che le masnà e le fije, quand ch’a-i calava ’l sol, a passavo pì nen lì ’dnans.
Da là ’nsima la Dotorëssa a godìa dla vista ’d cola campagna maravijosa, andova che ij camp e ij prà a smijavo disegnà e le pòche cassin-e a smijavo dle fervaje ’d pan s’na tovaja vërda. Là ’n fond, le arbrere a smijavo avèj pijà sot tùa ’l Pò ch’a corìa pasi ’n mes a lor.
E peui a-i era lë spetacol pì ’nciarmant, a-i era ël tramont dël sol. Quand che ’l sol a sghijava giù daré dël Monvis a smijava ch’it dovèisse tochelo con le man, a smijava pròpi ch’it dovèisse deje na man për nen ch’a sparièissa ’n mes a cola giolà ’d nìvole ’d feu.
La Dotorëssa as fërmava tute le sèire a vardé col anciarm, fin tant che l’ambrunì a lo quatava.
Ël belveder a l’era àut, pì o meno, come ’l ciochè dla gesia e alora da là ’nsima ’l paisòt a smijava pròpi mach un baron ëd ca motobin lovà travërsà da dë strajòte strèite. A chila a-j piasìa tant passé an mes a cole viëtte, përchè as sentìa pròpi ’nt ël cheur ëd col paisòt.
A-j piasìa sente che, antramentre ch’a passava a fasìa baulé ij can, a-j piasìa fërmesse a parlé con na mare granda setà fòra dla portin-a, ò a beiché ’n pàira ’d gagno ch’a giugavo ai geton. A-i na j’era peui un-a ’d se strajòte ch’a l’era motobin dròla. A l’era na viëtta ch’a passava darè dla gesia e daré dël murajon dël convent ëd le monie e a mesaneuit ëd tute le àutre ca. A l’era motobin strèita e, se i t’ancontrave un ën biciclëtta a l’era ’n gròss problema.
Se peui col-lì ’n bici a l’era ’l garson dël panatè con ël sëston dël pan sël pòrta-bagagi, alora it dovije rassegnete e torné ’ndaré.
Cola strajëtta a l’avìa pa gnun-e targhe, gnun nòm, sens’àutr përchè a-i era pa gnun nùmer cìvich, gnun-e pòrte as duvertavo ’n cola viëtta. A-i era mach ëd le fnestre ch’as mostravo dal prim pian an su. E le fomne quand ch’a fasìo ’l bujì ò lë mnestron, prima ’d butelo ’nt ël frigo, a lo fasìo ven-e frèid slë scòss ëd la fnestra.
E alora mincatant it na pijave ’d pì con ël nas che con ël cassul.
It sentije dij përfum ch’at gatijavo l’aptit. La gent dël paisòt a la ciamava “Stra dla Confratèrnita dij batù nèir” ma gnun, gnanca don Michel, a savìa nen come mai.
E a l’é pròpi ’n cola viëtta lì che na sèira la Dotorëssa Barbero a l’avìa trovà lòn ch’a l’avìa cambiaje la vita.
A l’era na sèira d’oton, na sèira pien-a ’d nebia frèida e scura. A l’era ’ncamin ch’a s’arambava vers ca për sin-a, quand ch’a l’avìa sentù ’n vers dròlo, na vosin-a ch’a l’era trames a na miaulada e al pioré ’d na masnà. A l’era beicasse ’n gir, a l’avìa sercà ’d dëscheurve d’anté ch’a mnisìa cola vosin-a e a l’avìa sentù ch’a rivava dal cassionèt dlë mnis pontajà taca a la muraja.
A l’era ausinasse prudenta, a l’avìa paura ch’a-i sautèissa fòra na bestia da ’n moment a l’àutr, e pian pianin, adasiòt e con tanta precaussion, a l’avìa duvertà ’l cuèrcc.
Ël sangh a l’avìa daje ’n gir!
Se ’n col moment-lì a l’avèisso daje na cotlà a sarìa surtije gnanca na gossa ’d sangh. E, se ’n col moment-lì a l’avèisso daje për dabon na cotlà, a l’avrìa avù pì car.
Andrinta a col cassionèt, an mes a në strì dë mnis e a ògni sòrt dë scheur, a-i era ’n cit, patanù e nèir, nen pì longh ëd doe branche.
Coma ch’a l’avìa pijalo ’n brass chiel a l’avìa chità ’d miaulé.
A l’avìa ciupì j’euj e a l’avìa sgambità na frisa, squasi a vorèjla ringrassié ma ’dcò a vorèj-je dì: “A-i era ora ch’it rivèisse”.
Chila a l’avìa ’nlupatalo ’nt la giaca e a l’avìa portass-lo a ca.
A l’avìa faje scaudé ’n po’ ’d làit antramentre ch’a-j dasìa na lavà, ma chiel a l’era nen mach spòrch a l’era pròpi nèir, a l’era ’n moreto.
A smijava pròpi na bara dë sgalissia.
Peui, quand che sò òm a l’avìa ciamaje còs ch’a vorèissa fene ’d col afé nèir, chila, strenzend col fanciòt an brass e con j’euj pien ëd lerme, a l’avìa dije ch’a vorìa tenilo. E quand che sò òm a l’avìa dije ch’a duvìa serne tra chiel e col còso nèir, chila a l’avìa faje segn con la testa, përchè l’emossion a-j blocava le paròle ’n gola, ch’a sernìa la masnà. Alora sò òm a l’avìa pijala a càuss e a pugn e a l’era ’ndass-ne sbatend la pòrta.
La Dotorëssa Barbero a l’avìa fàit tute le pràtiche, a l’avìa adotalo e a l’avìa ciamalo Nicolas.
Peui a l’avìa falo chërse arvërsand ansima a chiel tut col amor ch’a l’avrìa vorsù deje a cola masnà ch’a l’avìa nen podù avej con sò òm, ò fòrse fin-a ’d pì, pensand che cost gnero-sì a l’avèissa pròpi mandajlo Nosgnor. A lo portava sempre con chila, ëdcò ’nt ël l’abolatòri e ’nt le vìsite ai malavi.
E a lo portava ’dcò con chila a vardé ij tramont dël sol daré al Monvis.
D’antlora im arcòrd ch’i j’era chërsù ’nsema a Nicolas.
Chiel a l’era integrasse pròpi bin con nojàutri gagno dël paisòt, combin ch’i m’arcòrd che, minca tant, quand ch’a rivava da scòla a-j ciamèissa a soa mare come mai chiel a l’era nèir antramentre che tuti ij sò compagn a j’ero bianch. E alora chila a-j contava sempre la stòria dla sicògna ch’a pòrta ij cit passand da për la fnestra.
Ma, quand ch’a l’avìa portà chiel, a l’avìa trovà la fnestra sarà e a l’era passà dal fornel e chiel a l’era sporcasse tut ëd caluso.
Chiel as n‘andasìa content ma peui, chërsend, a s’la fasìa conté për fesse doe rijade.
Minca tant a-j ciamava ’dcò ’andova ch’a l’avèissa trovalo e a chila a-j mancava la tèra da sota ai pé. A podìa nen sicurament dije ch’i l’avìa trovalo ’nt un cassionèt dlë mnis. Alora a-j disìa che na sèira, quand ch’a l’era surtìa da l’ambolatòri, a l’avìa trovalo s’na cadrega dla sala d’aspet.
Im arcòrd ël dì che Nicolas a l’avìa pijà la làurea.
Chiel a l’avìa vorsù studié da dotor e a l’era diventà médich pròpi come soa mare.
E pròpi col dì-lì, antramentre che tut ël pais a-j fasìa festa e a-j fasìa ij compliment, chiel a l’avìa pijà da na part soa mare e a l’avìa ciamaje ’l permess për andè ant ij “Médich sensa frontiere”, përchè a vorìa ’ndè an África a giuté cola pòvra gent, specialment cole pòvre masnà ch’a l’avìo nen avù la fortun-a ch’a l’avìa avù chiel.
Soa mare a l’avìa ’mbrassalo s-ciass, squasi da gaveje ’l respir, peui a l’avìa dije che nen mach a-j dasìa ’l permess, ma che adess ch’a l’avìa trovalo a l’avrìa pì nen sicurament perdulo.
E a l’era ’ndàita an África con chiel!
Dòpo tanti agn, Nicolas a l’era mnume a trové.
A l’avìa dime che soa mare a l’era mancà. Mi i l’avìa ’mbrassalo comòss e chiel a l’avìa ciamame ch’i lo compagnèissa sël brich davzin a la capela ’d San Michel. E, antramentre che comòss a beicava ’l sol ch’a tramontava daré dël Monvis, a l’avìa spatarà al vent le sënner ëd soa mare.
Costa a l’é la cita stòria ’d na grand dòna. Anche se costa fomna a l’é mai ’ndàita ’n television e a l’ha mai avù l’onor ëd le cronache dij giornaj, për mi a l’é stàita n’eroin-a. A l’é na fomna ch’a l’ha sacrificà tuta soa esistensa, a l’ha sacrificà tuta soa vita, për la vita ’d na masnà. Ma tute le fomne a sacrificherìo soa vita për na masnà, anche se cola masnà a l’é nen sò fieul, anche se a l’é mai stàita mama, përchè cost a l’é ’l coragi dle fomne, cost a l’é ’l coragi ’d fé dël bin, cost a l’é ’l cheur ëd le fomne!
Traduzione:
Il Cuore delle Donne
Di solito, le visite che la Dottoressa Argentero faceva ai suoi pazienti sparsi per la campagna di quel pezzo di Piemonte, finivano presto.
Il lavoro, in quel paesino in riva al Po, non era molto.
Ogni tanto un bambino che si scorticava un ginocchio, o un contadino che prendeva una brutta storta o si dava la zappa sui piedi e, in inverno, qualche influenza. E ogni tanto, ma sempre più di rado, un bambino da far venire al mondo.
Allora lei, quando tornava dalle visite, si fermava spesso sulla piccola altura, dove c’era la cappella dedicata a S. Michele.
Le piaceva ammirare l’affresco che rappresentava il Santo mentre, armato di una lunga lancia, infilzava l’orribile bestia che teneva sotto i piedi. L’orribile bestia altro non era che il Diavolo, ma era talmente brutta da far paura, e i bambini e le ragazze, di sera, non passavano vicino alla cappella. Le piaceva guardare estasiata quella distesa di campi e di prati che sembravano dipinti, dove le cascine, sparpagliate, sembravano briciole di pane su una tovaglia verde. Amava vedere il fiume correre placido in mezzo ai pioppi che sembravano proteggerlo. Ma ciò che più la incantava e la commuoveva era lo spettacolo del sole che tramontava dietro al Monviso. Quando vedeva quel disco luminoso scivolare pian piano dietro le montagne, le veniva voglia di accarezzarlo prima che le labbra rosse e sensuali delle nuvole si schiudessero e lo inghiottissero.
La piccola altura, che tutti chiamavano Belvedere, era in verità, alta come la punta del campanile, ma ciò bastava perché, di lassù, si potesse vedere tutto il paesino. Era proprio solo un mucchio di cascine attraversato da stradine in terra battuta.
Alla Dottoressa Argentero piaceva passare in mezzo a quelle stradine, perché la facevano sentire nel cuore del paese, la facevano sentire nel cuore della gente che lo abitava. Le piaceva sentire i cani abbaiare al suo passaggio, le piaceva vedere e salutare la vecchietta, seduta sui gradini di legno, davanti alla porta di casa.
Le piaceva sentirsi salutare dai bambini che giocavano con i gettoni e con le biglie. Una di queste stradine poi, era molto strana.
Partiva dall’abside della Chiesa e, costeggiando il muro del convento delle monache, passava dietro a tutte le case. Era una stradina molto stretta e, se per caso incontravi il panettiere in bicicletta con la cesta del pane sul portabagagli, dovevi tornare indietro.
Nessuna porta si apriva su quella stradina. Solo delle piccole finestre, a cominciare dal primo piano, sembravano sbirciare curiose.
Le donne, quando cucinavano il bollito o il minestrone, prima di metterlo nel frigorifero lo facevano raffreddare sul davanzale di quelle finestre. Così, passando per quella viuzza, ogni tanto sentivi un buon profumo che ti svegliava l’appetito.
C’era sempre una numerosa famiglia di gatti in quella stradina. Stavano delle ore seduti sulle gambe posteriori a guardare quelle pentole sperando che ne cadesse qualcuna. Poi se ne andavano a testa china, delusi e sconsolati. Non aveva un nome quella stradina.
La gente del paese la chiamava “Via dei Battuti Neri” ma nemmeno Don Angelo, il parroco, sapeva spiegare l’origine di quel nome.
Ed è proprio passando in quella stradina che la Dottoressa Argentero trovò qualcosa che le cambiò la vita.
Quella sera, quando la Dottoressa Argentero stava rincasando, era già buio. Era una sera d’autunno piena di nebbia, fredda e scura.
Quello che sentì, passando in quella stradina poco illuminata, era qualcosa tra il miagolio di un gatto e il pianto di un bambino.
Si guardò intorno ma la luce del lampione era un po’ lontana e non riusciva a scorgere nulla. Seguì allora quel lamento piagnucoloso e sentì che proveniva dall’interno di un cassonetto dell’immondizia. Alzò con molta cautela il coperchio, pronta a lasciarlo cadere se avesse visto apparire qualche animale, e guardò all’interno. In mezzo ad ogni tipo di sporcizia e porcherie varie, c’era lui.
C’era un bambino nudo e nero, lungo non più di un paio di spanne.
Quando lo prese in braccio il bambino smise di piangere.
Sgambettò un paio di volte felice come a voler ringraziare o, forse, a voler dire “era ora che arrivaste”.
La Dottoressa Argentero lo avvolse nella sua giacca e lo portò a casa sua. Quando entrò in casa si accorse che non era solo sporco, ma era proprio nero di carnagione, nero come un pezzo di liquirizia.
Lei e suo marito non avevano avuto figli. Allora lei si fece prestare un biberon dalla sua vicina di casa, lo allattò e poi lo lavò e lo coprì con tanto amore.
Qualche giorno dopo suo marito le chiese cosa volesse farne di quel “coso nero” e, quando lei gli disse che voleva tenerlo con se, lui le urlò, arrabbiato come una bestia, che doveva scegliere tra lui e il “coso nero”. La Dottoressa Argentero non rispose, ma lo guardò fisso negli occhi e strinse più forte il bambino al petto.
Allora il marito la buttò fuori di casa in modo violento prendendola addirittura a calci e pugni.
Rimasta sola, la Dottoressa Argentero andò ad abitare sopra allo studio medico, in un minuscolo alloggio dove una donna del paese, che viveva da sola, l’ospitò in una stanza. Poi fece tutte le pratiche necessarie e adottò il bambino che chiamò Nicolas. In mezzo alla diffidenza e alla riluttanza della gente di quel paesino di campagna, continuò a fare il suo lavoro e, con grandi sacrifici ma con grande coraggio, allevò Nicolas. Lo allevò con tanto amore, un amore profondo e intenso, perché Nicolas era il bambino che aveva sempre sognato e che suo marito non le aveva dato. E Nicolas non era solo un bambino, era un angelo, un angelo sceso dal cielo appeso ad un raggio di luna. Lo portava sempre con se, in ambulatorio e nelle visite a casa dei pazienti. E lo portava anche con se a vedere il tramonto dietro al Monviso.
Nicolas si integrò molto bene con i ragazzi del paesino, anche se ogni tanto, arrivando a casa da scuola, chiedeva alla mamma come mai lui fosse nero mentre tutti i suoi compagni erano bianchi.
Allora lei le raccontava che la cicogna quando porta i bambini passa dalla finestra, ma quando aveva portato lui, aveva trovato la finestra chiusa. Allora era passata dal camino e lui si era sporcato con la fuliggine. Lui allora se ne andava contento poi, quando fu più alto, si fece raccontare più volte quella storia per farsi quattro risate.
Ma quando le chiedeva dove l’avesse trovato, non poteva certo dirgli la verità. Allora gli raccontò sempre, che l’aveva trovato su una sedia della sala d’aspetto, una sera mentre usciva dall’ambulatorio.
Nicolas si laureò in medicina e, mentre tutto il paesino faceva festa e si complimentava chiamandolo Dottore, lui chiese alla mamma se gli dava il permesso di andare in Africa con i “Medici senza Frontiere” per portare aiuto a quella gente e, soprattutto, a quei bambini che non avevano avuto la sua fortuna. La Dottoressa Argentero gli disse che, non solo gli dava il permesso, ma che sarebbe venuta anche lei in Africa, perché anche lei voleva aiutare quella povera gente e perché aveva giurato a se stessa che non lo avrebbe lasciato mai.
E così ogni sera, dopo una giornata passata a curare quella povera gente, la Dottoressa Argentero si sedeva davanti ad una di quelle baracche che, per chiamarle ospedali, occorre tanta fantasia.
Si sedeva davanti ad uno splendido tramonto africano, rosso come il sangue, il sangue che quella povera gente versa tutti i giorni.
Un tramonto rosso come il fuoco, quel fuoco che continua bruciare quella povera terra martoriata dalla guerra, quel fuoco che brucia le speranze, la fiducia e i sogni di quella povera gente disperata.
E davanti a quel tramonto le ritornava in mente un paesino e una stradina stretta dove, dentro ad un cassonetto dell’immondizia, aveva trovato un angioletto, un angioletto nero che le aveva cambiato la vita. Dopo tanti anni, Nicolas un giorno venne a trovarmi.
Mi disse che sua madre era mancata. Lo abbracciai commosso e lui mi chiese di accompagnarlo sull’altura vicino alla cappella di
S. Michele. E, mentre commosso guardava il sole tramontare dietro al Monviso, sparse al vento le ceneri di sua madre.
Questa è la piccola storia di una grande donna. Anche se questa donna non è apparsa in TV e non ha avuto l’onore delle cronache, per me è stata una eroina. È una donna che ha sacrificato tutta la sua esistenza, tutta se stessa, per la vita di un bambino.
Ma ogni donna sacrificherebbe la sua vita per un bambino, anche se quel bambino non è figlio suo, anche se non è mai stata mamma, perché questo è il coraggio delle donne, questo è il coraggio del bene, questo è il cuore delle donne.
2) “On di dë guèra, na lètra dal Front” “Luciano Molina” di Novara

Motivazione:
Senza mai scivolare nei facili luoghi comuni, trasmette il dolore della guerra e l’angoscia di chi attende un ritorno.

On di dë guèra, na lètra dal Front
Setass sota ’l pòrtigh a vardà ’l sól ch’al colora dë ross ij montagni, oramai, l’eva na ròba dë tuti ij seri.
Podeva fà ’n cald dël bòja o tramento frègg ma, cola costansa, la credeva ch’agh avrìa portà fortuna al sò òman s’a l’avissa fai tuti ij seri.
Dë spèss la lassava che ij ricòrd i la quarciàvan ’mè na quèrta calda ch’la pasiava. ... Nassù an quai di ’d distansa vun d’l’àltar i éran stai batesà ’nt ël stèss di, “Maddalena” le, “Antonio” lu. Sùbit i évan gnù, për tut ël paes, la Nina e ’l Nino. Sémpar insèma.
Ël sò pà al voreva ch’la fissa istruì për podé fala sposà cont on quai visin ch’al stava ben o ch’l’eva nòbil. Ma as sà, al cheur tigh comandi mia. Për tuti ’nt ël paes l’eva ciar ’mè ’l sól ch’ël Nino e la Nina is sarìan sposà, madomà ël pàdar dë le al voreva mia.
“Ël Nino l’è mia l’òman ch’al va ben për ti!” al siguitava a dì “Al podarà mai dat ël tenor dë vita ca ti sè bituà vegh! Comprat ij vistì pussè bèj o portat a balà int ij fèsti dij scior. L’è ’n tarluch, on gnurantlòt!” Le a la lassava sfogà, peu agh sorideva e agh dava ’n basin su la facia. Lu a smeava ch’a së sgonfiava ’mè ’n balôn busgà. Al saveva ch’a l’avrìa mia spontà ma anca lu l’eva ’n crapôn.
Ij di i gnìvan mes e peu ani, ij fieuj i cressévan. Anca ’l sentiment al cresseva ’nsèma a lor du. Ij gieugh da fiolin i gh’évan pu. Adèss i évan domà carèssi e basin, fin a diventà na ròba sola a scoprì ij piasé dl’amor. Tuti ij scusi i évan boni për andà a nascóndass int ij stali.
Igh dàvan mia da trà ai discors gram ch’i fasévan ij vegg, su la guèra contra ij Tognin. Ël Nino l’eva tròp gióvin. L’eva nassù int ël ’99.
Ma ij speransi i évan destinà a rovinass tacà ’l mur dla realtà.
L’eva inissià a girà la vos che cuj ch’i gh’avévan disdòt ani i gnìvan ciamà a fà ’l servissi militar int ël Regio Esèrcit Itaglian.
Ël Nino e la Nina i dovévan fà ’n quaicos për ristà ’nsèma.
La solussiôn l’eva mia complicà, i dovévan sposass. Com l’è ch’la podeva fà le a convincc ël sò pàdar? L’idea gh’ha gnù a vidé la sorèla dël Nino. L’eva incinta dë ses mes. Gh’avrìa dì na busìa al sò pà, va ben, ma l’eva për la rasôn pussè importanta dë tuti.
Anca se ël Nino l’eva mia d’acòrdi, l’è ’ndai l’istèss a digh ch’la spetava ’n fiolin. Ghë smea dë sentì ancora ël sò vosà. Tut ël paes a l’ha sentù. On quaivun l’è gnù fòra strimì, i credévan ch’i évan ij Tognin ch’i jë tacàvan. Peu l’è tornà la pas. In fond l’eva normal ch’ël Nino e la Nina i mitìssan sù cà. Domà ël pà dë le l’eva ostinà a voré l’incontrari. Adèss al podeva fà pu gnent. Ël matrimòni ’l doveva vess celebrà e dë prèssa! In meno d’on mes, la Nina l’eva davanti dël Prevòst a giurà fedeltà e amor etèrno al sò Nino. La bala, ch’agh heva fai gnì rialtà ël sògn dë sposass, l’è diventà sùbit na verità. La spetava on fieu për dabôn. Purtròp anca ij paguri i hin peu gnù rialtà. Al Nino agh ha rivà la cartolina. La matina dla partensa l’è stai la pussè bruta dla sò vita. La voreva mia piangg, ma quand lu l’è metù fòra la tèsta dal finestrin për saludala, le l’è s-ciatà a piangg e l’è dì: “Veda dë mia fàt massà d’ij Tognin se nò ’t copi!” Peu l’è capì ch’l’eva dì na stupidada e a s’heva miss a piangg e rid insèma. Ël Nino l’è fai on gran soris e agh ha fai na promèssa: “I tornarò int on bof, la guèra la podarà mia durà in etèrno!” Ël subià dël treno l’è quarcià j’ùltim salud intant ch’ij ròdi, dasi, i hin comincià a girà. Adèss la panscia l’eva gnù ’n pansciôn.
Na ròba sola a la faseva contenta int ona manera particolar. Vess ëstai bona dë fagh imparà a legg e scriv intant ch’i évan mia ciapà a fà dij ròbi pussè urgenti. Così dò o trè vòlti ’l mes ’pena la rivava na sò lètra le, sùbit, agh rispondeva. Ij sò primi lètri i parlàvan dë orgòli, onor për la Patria e i cuntàvan dij di passà a ’mparà a sparà. Peu, pian pianin, i hin gnù sémpar pussè sotorni intant ch’al discriveva j’oror dla guèra, dë coma ’l videva morì j’àltar òman. L’eva mia important da che part i stàvan, a miteva malinconìa vidé ch’i perdévan ël ben pussè pressios … la vita. Le agh rispondeva con lètri sémpar alegri. Agh cuntava dë coma l’andava ben la sò gravidansa. Dë coma, in paes, tuti i la tratàvan ben. Dë coma anca ël sò pàdar a speciava ch’al tornassa për mandà ’vanti la cassina. Dij vòlti na làgrima la burlava sul feuj, spantigand l’inciòstar, alora la pijava n’àltar feuj e la cominciava dë neuv. L’eva diventà la sò manera për misurà ’l temp. I gh’évan pu ij di e ij smani ma soltant j’interval tra na lètra e l’altra.
On soldà ch’al rivava për la stra a l’ha disvigià d’ij sò ricòrd.
Ël cheur l’è fai on burlatôn e l’è perdù ’n colp.
Al podeva vess ël sò Nino ch’al tornava? La guèra l’eva finì? Parchè a l’aveva mia ’visà? Àltar mila domandi i ’mpinìvan la sò ment intant ch’as nacorgeva ch’l’eva mia lu. Scatand su l’atenti, col soldà agh ha ciamà confèrma dl’indiriss. La Nina, cont on grop an gola, la podeva mia parlà e l’è stai bona madomà dë fà segn dë si cont la tèsta intant che j’eucc s’impinìvan ëd làgrimi. Ël soldà ’l tigniva int ij man na busta ma le la voreva mia pijala. Cont ona man su la front, int ël salud militar, lu l’è tornà indré. Le la vardava cola busta grisa cont ij tìmbar dl’Esèrcit, lassà là su’ scòss ëd la finèstra, la osservava cola grafìa ch’la cognossiva mia con la speransa d’on eror d’indiriss. NÒ! La podeva mia vess indirissà a le! Tremand ’mè na fòja l’è tornà in cà për setass su la cadrega visin al tàvol dla cusina. Ël feugh dël camin al faseva balà j’ombri suj mur intant ch’al ris-ciarava e scaldava la cà, ma le la sintiva madomà on gran frègg int ij òss e dij storgiôn int la panscia. As sintiva sola e ’mpaurì, gh’aveva mia ël coragg dë duvèrt cola lètra.
Cont ij man ch’i tremàvan l’è strascià la busta e l’è tirà fòra col feuj.
A l’inissi la riusciva mia a legg. Alora l’è viscà ël topin ch’al serviva për andà për rani. Ij paròli a smeava ch’is mis-ciàvan insèma e le jë capiva mia, vuna sola a s’ha ’mpiantà int la sciarvèla … “DISPERSO”.
Mia mòrt o massà: l’eva domà sperdù. Al podeva anca vess viv? Ansi sicur ch’l’eva viv! A l’avrìa spicià … anca për tuta la vita.
Tuti du i l’avrìan spicià.
Traduzione:
Un giorno di guerra, una lettera dal Fronte
Sedersi sulla veranda a guardare il tramonto che colora di rosso le montagne, ormai, era diventata un’abitudine serale.
Poteva essere un’estate torrida o un inverno rigido ma, quell’abitudine, credeva che avrebbe portato fortuna al suo uomo se lo avesse fatto tutte le sere. Spesso si lasciava avvolgere dai ricordi come in una calda coperta rasserenante.…Nati a pochi giorni di distanza uno dall’altra erano stati battezzati nello stesso giorno, “Maddalena” lei e “Antonio” lui. Subito erano diventati, per tutto il paese, la Nina e il Nino.
Stavano sempre insieme. Suo padre la voleva istruita per poterla, magari, accasare con qualche vicino ricco o nobile.
Ma si sa, al cuor non si comanda. Per tutti in paese era chiaro e lampante che il Nino e la Nina si sarebbero sposati, solo suo padre non voleva saperne. “Il Nino non è l’uomo giusto per te!” diceva in continuazione: “Non potrà mai darti il tenore di vita a cui sei abituata! Comprarti i vestiti più eleganti o accompagnarti ai balli e alle feste dei signori. È rozzo, poco istruito!” Lei lo lasciava sfogare, poi gli sorrideva e lo baciava sulla guancia. Lui sembrava sgonfiarsi come un pallone bucato. Sapeva che non l’avrebbe mai spuntata ma anche lui era testardo. I giorni si fusero in mesi e poi anni, i ragazzi crebbero. Anche il loro amore crebbe con loro. I giochi, di bambini, si trasformarono in carezze e baci fino a fondersi in un unico corpo scoprendo i piaceri dell’amore. Ogni pretesto era buono per appartarsi nelle stalle. Non davano quasi peso ai discorsi riguardo alla guerra contro gli Austriaci. Il Nino era troppo giovane. Era nato nel ’99. Ma i loro sogni erano destinati a infrangersi contro una cruda realtà. Cominciò a girare la voce che i giovani diciottenni venivano dichiarati abili a compiere il servizio militare nel Regio Esercito Italiano. Dovevano fare qualcosa per restare uniti. La soluzione non era difficile, dovevano sposarsi. Ma come poteva convincere suo padre? L’idea le venne guardando la sorella di Nino. Era incinta di sei mesi. Avrebbe detto al padre una bugia, vë bene, ma era a fin di bene. Mise al corrente Nino delle sue intenzioni e, nonostante le sue accalorate proteste, andò dal padre a confessare di essere incinta. Le sembra di sentirle ancora adesso le sue urla. Si sentirono in tutto il paese. Alcuni uscirono fuori spaventati, credevano di essere attaccati dagli Austriaci. Poi tornò la pace. In fondo era naturale che il Nino e la Nina mettessero su famiglia. Solo il papà di lei si ostinava a volere il contrario. Adesso non poteva proprio fare più nulla. Il matrimonio si doveva celebrare al più presto. In meno di un mese la Nina era di fronte al Parroco a giurare fedeltà e amore eterno al suo Nino. La bugia, che le aveva consentito di coronare il suo sogno di sposarsi, divenne presto una verità. Aspettava un figlio davvero.
Purtroppo le paure e le ansie si trasformarono, anche loro, in realtà. Al Nino arrivò la lettera di chiamata alle armi. La mattina della partenza fu la più triste della sua giovane vita. Non voleva piangere, ma quando lui si affacciò dal finestrino per salutarla scoppiò a piangere e disse: “Non ti azzardare a farti uccidere da quegli stupidi stranieri! Altrimenti ti ammazzo!” Poi si rese conto della stupidata che aveva detto e si mise a ridere e a piangere insieme. Nino le sorrise e le giurò: “Tornerò presto, la guerra non potrà durare in eterno.” Poi il fischio del treno sovrastò gli ultimi saluti mentre le ruote, piano, cominciarono a muoversi. Adesso la pancia era diventata prominente. Una cosa la soddisfaceva in particolar modo. Essere riuscita ad insegnargli a leggere e scrivere in quei pochi momenti in cui non erano indaffarati in altre faccende più o meno piacevoli. Così, due o tre volte al mese, riceveva una sua lettera e lei, immediatamente, rispondeva. Agli inizi le sue lettere esprimevano orgoglio, patriottismo e raccontavano del passare dei giorni all’apprendimento dell’uso delle armi. Poi, poco per volta, divennero più cupe mentre descriveva gli orrori della guerra, di come vedeva morire altri esseri umani. Non era importante a quale Nazione appartenessero, era triste vederli perdere il bene più prezioso … la vita. Lei gli rispondeva con lettere sempre allegre. Raccontava di come procedeva bene la sua gravidanza. Di come, in paese, tutti la trattassero bene. Di come, anche suo padre aspettava che tornasse per mandare avanti la cascina. A volte una lacrima le cadeva sul foglio, sbavando l’inchiostro, allora ne prendeva un altro e ricominciava. Era diventata la sua maniera di misurare il tempo. Non esistevano i giorni o le settimane ma solo il periodo tra una lettera e l’altra.…Si riscosse dai suoi ricordi vedendo arrivare un soldato lungo la strada. Per un attimo il suo cuore perse il battito e si fermò. Poteva essere il suo Nino che ritornava? La guerra era finita? Perché non l’aveva avvisata prima? Altre mille domande affollarono la sua testa mentre si accorgeva che non era lui. Si fermò davanti a lei sull’attenti e le chiese la conferma dell’indirizzo. Lei aveva la gola chiusa dal terrore e si limitò ad annuire con la testa mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Il soldato le porse una busta ma lei si rifiutava di prenderla. Poi si portò la mano alla fronte nel saluto militare e si congedò. Lei guardava quella busta grigia con i timbri dell’esercito, osservava la calligrafia sconosciuta dell’indirizzo sperando in un errore. NO! Non poteva essere indirizzata a lei. Tremando come una foglia entrò in casa per sedersi sulla sedia vicino al tavolo della cucina. Il fuoco del camino proiettava ombre tremolanti sulle pareti rischiarando e scaldando l’ambiente, ma lei sentiva solo freddo dentro le ossa, la paura le attanagliava le viscere. Si sentiva sola e impaurita, non aveva il coraggio di aprirla. Con le mani tremanti lacerò la busta ed estrasse il foglio di carta. In principio non riusciva a leggere. Allora accese il lume al carburo che serviva per prendere le rane. Le parole si mescolavano fra loro senza riuscire a dare nessun significato, una sola parola le entrò nel cervello e li si stabilì … DISPERSO.
Non morto o ucciso: era disperso. Quindi poteva essere vivo? Anzi certo che era vivo! Lo avrebbe aspettato … anche per tutta la vita. Tutti e due lo avrebbero aspettato.
1) “Ij du fineràl” “Luigi Ceresa” di Novara

Motivazione:
Nel dipingere personaggi e situazioni utilizza un’efficace rigore descrittivo e un’ironia gustosa e ben calibrata.

Ij du fineral
I hin ij prim di d’agost: on cald ch’al sofega am pia ël gardiôn, am sara sù ’l fià e ij penser. I sòrti da cà për rinfrescam sota ij pianti dij giardin. L’asfalt da lontan a smeja dislinguass in tanti sguass d’aqua; i respiri aria lìquida.
I rivi sota ij castègni mari, al gh’è in gir gnanca n’ànima. Sbornià dë malinconìa, portand na valis pina dë solitùdin, im fèrmi për stà sol insèma a mi.
Im vardi intorno e i capissi che ij giardin i sméjan on fopôn: madomà monument për ij mòrt, stàtoi dë àngiol dë bronz ch’i tégnan dij làpidi cont ij nòm dë chi l’è crepà in guèra, int on massàcar, int on incident; bust dë polìtich, dë poeta passà a n’altra vita da cent’ani e passa. I pòdi mia fan a meno dë pensà ij cità dël nòrd Euròpa dova int ij giardin, int ij piassi i sôn vist alegri stàtoi dë bès-ci, dë òman in situassiôn ch’i fan rid, dë fiolèti in dij posissiôn ch’i fan tirà la gola… Dova nun nò; tirà via la stàtoa ’d na mondina sbassà giò a piantà ël ris, e ch’at fà gnì la darnèra madomà a vedla, për ël rèst l’è tuta na celebrassiôn dij patiment, on ricordat sémpar la mòrt.
I senti ël campanôn dël Dòm ch’al trona: bòt lent, profond… bòt dë mòrt. Am vegna in ment ch’l’è tirà ij trèdas na parsona rinomà, on polìtich cognossù.
Corios i vò a dagh n’ugiada; la Mèssa l’è finì; i hin drera a sortì d’la gesa. Na quantità dë coroni dë fior i hin pogià ai colòni; ij fior i sméjan catà da pòch anca se incheu al fà ’n cald da mia cred; andàndagh renta im nincòrgi ch’i hin dë plàstica. Bèj si, ma fint. Dë sicur, i pensi, l’è pussè rispetos così putòst che compraj la matina dal fiorista e peu védaj passì dòpo mèsa giornà. Fôrsi i hin pensà ch’al sèrva mia s-cincà na vita për ricordan n’altra giamò smorsà e i hin portà sti fior mai nassù për on quaidun ch’al viva pu. Agh è n’infinità dë parsoni ch’i bàtan ij man quand la cassa da mòrt la vegna fòra portà da ses òman con la muda negra. I vardi la facia dla gent: agh è mia tristèssa, mia on sentiment dë dispiasé, mia na làgrima. I capissi che ij bataman për ël mòrt i hin fai madomà parchè agh l’è pu, parchè al pòda pu intromètass int ij sò mascògn. L’è pròpi vera: “Mors tua, vita mea”! Tuti i hin tapà ben ’mè a na parada; am piasa pensà che sota cuj vistì dë marca i pòrtan ij mudandi sporchi. Ël fineral a s’anviara për ël fopôn. Màchini dë rapresentansa e corieri i spècian sta gent vistì dla fèsta ch’la rida e la ciciara dë tut: “Ma cont ël cald ch’al gh’è in sti di-chì i podévan mia fà ël fineral dë sera?! Ma al podeva mia crepà d’autun?!”, “Ti indova ti vè in vacansa?”, “Ma pensa che mi i sevi al màr e i sôn dovù cor cà! Për fortuna ch’i m’han portà con l’elisocors dla protessiôn civil!” e avanti in sta manera. Madomà na parsona a s’ha domandà ad alta vos: “Chissà s’l’è andai in Paradis o a l’Infèrno?”.
E n’àltar ghignanda l’è dì: “Mi i speri ch’al sia andai giò, parchè in Paradis ël temp l’è pussè bôn, ma a l’Infèrno am sà ch’al gh’ha pussè conoscensi…!”. A më strengia ’l cheur sémpar pussè fòrt. I tiri sù on bèl fià e i vò via cont ël stòmigh imborsà. Che fineral! Che pena!!
L’està l’è dré ch’la finissa, a spass për la cità i s-ciari ’n manifèst da mòrt: l’è mancà ’n mè vegg malà. I l’hevi operà tanti ani fà e tanti operassiôn fà; si parchè ògni du ani ’mè na màchina i dovevi fagh la revisiôn e mètagh a pòst on quaicos.
As sentiva tanto obligà e al gh’heva anca on bèl atacament për mi. Na quai vòlta am telefonava për fà na ciciarada. L’eva on precisin, on moschin. Agh piaseva giugà ij bòci (a m’heva regalà na medaja d’òr vinciù a na gara a raffa), ma pussè che d’àltar l’eva on ranat cont ij barbis. Tuti j’ani a la fin dl’autun am ciamava a cà soa e ’m dava on pò dë rani parchè al saveva ch’im piasévan da mat.
L’eva ’mè na cerimònia. A më spiciava in cusina: sò mama, pussè dë novant’ani, setà al tàval con carta e làpis, e lu al tirava fòra dal congelador tanti scartoscin con scrivù sù col ch’agh eva denta. Con na bèla vos al legeva: “Vintidò rani grandi; novantacinch ranin; vintòt rani dë media grandèssa” e via in sta manera.
La mama, cont ij barìcoli su la ponta dël nas e ël trémit int ij man, la marcava tut su ’n feuj, peu la tirava sù ’l cunt e contenta ’mè na pasqua la diseva ël risultà: “Neuvcentquarantacinch rani!” Lu al meteva rani e fojèt int on sachèt e am la dava tut sodisfai disend: “It ciami pardôn Dotor se st’ann agh n’è tanti pìcoli!”
E mi igh rispondevi ancora pussè content: “Ricòrdat che anca on ranin al fà ’l sò brudin!” Adèss int ij pra, int ij risèri dë rani agh è gnanca pu l’ombrìa: agh è na fin për tut e l’è mia dì ch’la sia sémpar la mòrt! Cont on soris am piasa pensà ch’al sia andai a giugà ij bòci suj pra sensa fin dël cel. I cori al sò fineral. Sul sagrà agh è madomà ël càr për portal via. Su la ponta dij pé i vò denta in gesa e int la mè ànima. Im vardi antorno; ij banch i hin vòj: madomà sèt parsoni i scóltan in prima fila ij paròli dël pret. Cont on fòco i vischi na candela e im fèrmi in fond ëd la gesa: i veuri mia rovinà gnanca cont on pìcol romor l’intimità dla Mèssa.
Intant che ’l pret al parla, ël fradé, ch’l’è là davanti ch’al prega, on bèl moment as vòlta, a më s-ciara, as vòlta ancora, peu as leva sù e al vegna a saludam cont ij làgrimi a j’eucc. A ghë smeja da mat al mòrt, dèss ch’i la vedi i évan pròpi ’mè ’n pom tajà in mès, e sta ròba-chì am dà ancora pussè pena. Am brascia sù, al siguita ringrassiam ch’i sôn gnù anca mi, quasi quasi a smeja ch’al sia lu a fàm ij condogliansi! Peu al torna al sò pòst. Quand la fonsiôn l’è finì i van tuti fòra d’la gesa in silensi, con tanto rispèt: caldi làgrimi i màrcan ij sò faci. La nivodina agh ha in man on massetin dë margariti e reusi catà int on giardin. A smeja che ij fior i së sfòrsan dë tegn sù ël testin për dagh on degn salud. Sensa romor ij pòch parent is mètan in fila drera la cassa da mòrt për andà al fopôn. Im senti quaièt, la sensassiôn dl’etèrno intorna a la malinconìa a ghë stà ben. Cont ël magôn igh vò drera anca mi. Che Pena! Che Fineral!!
Traduzione:
I due funerali
Sono i primi di agosto: un caldo soffocante mi prende alla gola , mi chiude il respiro ed i pensieri.
Esco da casa per cercare un poco di refrigerio sotto gli alberi del parco. L’asfalto in lontananza sembra sciogliersi in infinite pozze d’acqua; respiro aria liquida.
Arrivo sotto gli ippocastani, non c’è in giro neppure un’anima. Ubriaco di malinconia, portando una valigia colma di solitudine, mi fermo per restare solo con me stesso.
Mi guardo intorno e mi rendo conto che i giardini paiono un cimitero: solo monumenti ai caduti, statue di angeli di bronzo che sorreggono lapidi con incisi lunghi elenchi di morti in guerra, in una strage, in un incidente; busti di politici defunti, di poeti scomparsi da più di cento anni. Non posso non pensare alle città del nord Europa dove nei giardini, nelle piazze ho visto divertenti statue rappresentanti animali, uomini in situazioni allegre, ragazze in posizioni seducenti... Da noi no; tolta la statua che raffigura una mondina china a trapiantare il riso, e che ti fa venire il mal di schiena solo al guardarla, il resto è solo un canto alla sofferenza, un ricordarti sempre la morte. Sento le campane del Duomo rimbombare: rintocchi lenti, profondi… rintocchi di morte.
Mi ricordo che è mancata una persona importante, un politico noto.
Curioso vado a vedere; la Messa è già finita; stanno uscendo dalla chiesa. Una infinità di corone di fiori sono appoggiate ad ogni colonna; i fiori sembrano freschi anche se oggi fa un caldo incredibile; avvicinandomi mi accorgo che sono di plastica. Belli si, ma finti. Certo, penso, è più rispettoso così piuttosto che comprarli la mattina dal fiorista per poi vederli appassiti dopo mezza giornata.
Forse hanno pensato che non serve interrompere una vita per ricordarne una già spenta ed hanno portato questi fiori mai nati per qualcuno che non vive più.
Ci sono centinaia di persone che applaudono a lungo il feretro quando esce trasportato da sei uomini vestiti di nero.
Guardo le facce dei presenti: non c’è tristezza, non un senso di dispiacere, non una lacrima. Capisco che gli applausi per il morto sono fatti solo perché non c’è più, perché non può più intromettersi nei loro intrighi. È proprio vero: “Mors tua, vita mea!”
Tutti sono vestiti molto bene come ad una sfilata; mi piace pensare che forse sotto quegli abiti di marca portano le mutande sporche.
Il funerale si avvia verso il cimitero. Macchine di rappresentanza e corriere aspettano gente vestita a festa, ridente che chiacchiera di tutto: “Ma col caldo che c’è in questi giorni non potevano fare il funerale alla sera?! Ma non poteva morire in autunno?!”, “Dove vai in vacanza?”, “Ma pensa che ero al mare ed ho tornare a casa! Per fortuna mi hanno portato con l’elisoccorso della protezione civile!” e via discorrendo. Uno solo si chiede ad alta voce: “Chissà, è andato in Paradiso o all’Inferno?”. Un altro sghignazzando gli ha risposto: “Io spero che sia andato giù perché in Paradiso il clima è migliore, ma all’Inferno trova più conoscenze!”
Una sensazione di angoscia mi stringe il cuore sempre più. Faccio un respiro profondo e me ne vado disgustato. Che funerale! Che pena!!
L’estate sta finendo. Passeggiando in città lo sguardo è attirato da un manifesto funebre: è morto un mio vecchio paziente. L’avevo operato molti anni fa e molte operazioni fa; sì perché ogni due anni come ad una macchina dovevo fare la revisione e sistemargli qualche cosa. Mi era molto riconoscente ed anche sinceramente affezionato. Ogni tanto mi telefonava per scambiare due chiacchiere. Era un tipo precisino, un pignolino. Gli piaceva giocare a bocce (mi aveva regalato un medaglia d’oro vinta in un torneo di raffa), ma soprattutto era un formidabile pescatore di rane.
Tutti gli anni alla fine dell’autunno mi chiamava a casa sua per regalarmi un po’ di rane sapendo che io ne andavo matto.
Era un rito. Mi accoglieva in cucina: la mamma, ultranovantenne, seduta al tavolo con carta e matita, e lui estraeva dal congelatore tanti pacchettini con sopra scritto il contenuto. A voce alta leggeva: “Ventidue rane grosse; novantacinque rane piccole; ventotto rane medie” e così via. La mamma con gli occhiali sulla punta del naso e la mano tremante, annotava tutto sul foglio, poi faceva la somma e trionfante diceva il risultato: “945 rane!”
Lui metteva le rane ed il foglio in un sacchetto e me lo consegnava tutto soddisfatto dicendo: “Scusami Dottore se quest’anno ce ne sono tante piccole!” Ed io gli rispondevo ancora più felice: “Ricordati anche un ranino fa il suo brodino!” Ora nei prati, nelle risaie di rane non se ne vedono quasi più: c’è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte! Con un sorriso mi piace pensare che sia andato a giocare a bocce sui prati sconfinati del cielo. Corro al suo funerale. Sul sagrato c’è solo il carro funebre.
In punta di piedi entro in chiesa e nella mia anima.
Mi guardo intorno; i banchi sono vuoti: solo sette persone stanno ascoltando in prima fila le parole del parroco.
Con un fiammifero accendo una candela e mi fermo in fondo alla chiesa: non voglio disturbare neppure con un piccolo rumore l’intimità della funzione.
Mentre il prete parla, il fratello, che è là davanti che prega, ad un tratto si gira, mi vede; si gira e si rigira più volte, poi si alza e mi viene a salutare con le lacrime agli occhi. Fisicamente assomiglia molto al defunto, ora che lo osservo erano proprio come le due metà di una mela, e ciò mi commuove ancora di più.
Mi abbraccia, mi ringrazia ripetutamente di essere venuto lì, quasi quasi sembra che sia lui a farmi le condoglianze! Poi torna al suo posto. Quando la funzione finisce escono tutti dalla chiesa in silenzio, con gran rispetto: calde, limpide gocce scivolano sui loro visi. La nipotina ha in mano un mazzetto di margherite e roselline colte in un giardino. Sembra che i fiori si sforzino di tenere il capino sollevato per dargli un degno saluto. Senza rumore i pochi parenti si incolonnano dietro al feretro per andare al camposanto. Mi sento sereno, la sensazione dell’eterno intorno alla melanconia ci sta bene. Con un nodo alla gola li seguo anch’io. Che Pena! Che Funerale!!
Sez. Libri
4°) “Guerrino e il lupo” di Stefano Amato da Frascineto (Cz)
4°) “Interlude” di Lea Valti da Roma
4°) “Leggera come lei” di Valentina Macchiarulo da Milano
4°) “Quel che resta è solo polvere” di Giuseppe Oddo da Palermo
4°) “La notte di S. Lorenzo” di Vincenzo Antonio Pistorio da Roma
4°) “I racconti dell’Abazia” di Mauro Caneparo da Roma
4°) “Vita e il racconto dei morti” di Alessandra Cinardi da Roma
3°) “Paesi” di Carla Cuminetti da Asti
Motivazioni:
Storia della lunga e gratificante carriera di un Segretario Comunale vista attraverso gli occhi curiosi e fedeli testimoni della figlia artista.
Un bello spaccato di vita locale.

2°) “Fossa Clodia” di Renzo Cremona da Chioggia (Ve)
Motivazioni:
Prose liriche e brani teatrali, in lingua e in dialetto, che riescono a far percepire le atmosferiche malinconiche e le brumose solitudini degli inverni lagunari”.
1°) “L’ombra del destino” di Nicola Piovesan da Vicenza
Motivazioni:
Un giallo dalla trama intricatissima, con buon ritmo narrativo, molte “location” descritte con precisione e verosimiglianza e dialoghi serrati ed essenziali.
segnalazione di merito per la sez. Libri
Lara Swan da Rep. S. Marino con: “La principessa dei poveri”
Paolo Saino da Milano con: “Gli ultimi patrioti”
Daniele Ossola da Varese con: “Storie di tanti”
Caterina Uricchio da Milano con: “Storielle”
Simone Mazzei da Pisa con: “Il granchio”
M. Antonietta Ellebori da Roma con: “Lo scrigno”
Mauro Caneparo da Novara con: “ I racconti dell’abazia”
Emanuele Corocher da Verona con: “Godiamo follemente ogni attimo”
Salvatore Lisi da Caltanissetta con: “La via del cuore”
Giovanna Renga da Benevento con: “La luce dell’amore”

Sez. Giovani:
4°) Laura Alciator (8 anni) da Roma con: “Il magico fiore della foresta”
4°) Camilla Vailati (12 anni) da Crema (Cr) con: “Bacio di dama”
4°) Lorenzo Di Salvio (11 anni) da con: “Risveglio nella libertà”
4°) Vittoria Federici (12 anni) da con: “Il bosco incantato”
4°) Andrea Schiavoni da Genova con: “Orizzonti”
4°) Caterina Martignon (16 anni) da Pianigi (Ve) con: “E’ finita”
4°) Michele Calandriello da Lecce con: “La foglia”
4°) Aurora Vannucci (12 anni) con il libro: “Vorrei la VI^ elementare”

3°) Teresa Vercelli (13 anni) da Roma con: “Infanzia perduta”
Motivazione: Versi essenziali, lapidari per dipingere la tragedia della guerra attraverso lo smarrimento dei bambini, privati del presente e anche del futuro.
L’infanzia perduta

Il vento tesse la sua tela tra l’infanzia decadente
e s’assottiglia nel velo della guerra.
La goccia d’acqua cade silenziosa,
come il fremito d’un bimbo affamato nella notte.
Il cielo s’inasprisce nel fragore d’un tuono,
sotto di esso si fronteggiano uomini confusi
dal candore d’una stella, come fuoco.

Lo sguardo perso dei ragazzi alla finestra,
che cercano i padri alla luce d’un proiettile,
che scorgono le targhette sul petto dei soldati, come cani,
e chinano il capo. Non sono in grado di leggere.
Non leggono le lettere sulle uniformi dei genitori,
ma la loro espressione: paura, abbandono alla notte,
smarrimento alla guerra.

Analfabeti, come la città addormentata,
che non sa decifrare le costellazioni della notte;
Affamati, come lo può essere un cuore d’amore;
Assopiti, come chi aspetta il ritorno della pace
per tornare a essere un bambino.

2°) Melissa Storchi (13 anni) da Bibbiano (R.E.) con: “Quella bambola”
Motivazione: Con sorprendente facilità espressiva e immediatezza, riesce a trasmettere l’angoscia, l’indignazione e la condanna per il folle gesto di violenza.
Quella “bambola”…

Lasciala!
Tu che vuoi vedere
le lacrime
di quella che un tempo
era “Bambola” delle grazie danzatrice.

Il suo pallido viso
di porcellana
si è frantumato
nel cadere
dentro ‘l vortice
della tua anima.

Lasciala!
Tu che non crederai mai
di essere stato quella
“bestia”
nelle notti più sinistre
della sua vita.

Ma gli occhi…
gli occhi di quella “Bambola”
non li dimenticherò,
come il mare le sue onde….
Quegli occhi che timidamente
osavano brillare
nonostante il dolore lancinante
ferisse il suo cuore.




1°) Erika Musumeci (14 anni) da: Palagonìa (Ct) con il racconto:
“La guerra di Leena”
Motivazione:
Buona capacità descrittiva, con una narrazione che scorre disinvolta tra la spensierata quotidianità di un’adolescente e il difficile cammino che dovrà affrontare.
La guerra di Leena
Leena Adonis era una bambina siriana, nata nella citta di Dar’a, strana, diversa dalle altre bambine, abbastanza chiusa, introversa e con grandi difficoltà nel comunicare con gli altri, l’unica persona con cui riusciva a parlare senza problemi ed essere liberamente se stessa era Saad, il suo migliore amico. Loro si conoscevano fin dalla nascita, infatti le loro madri vicine di casa non che migliori amiche avevano partorito lo stesso giorno, forse un caso, un segno del destino, il perché non era importante ma fatto sta che fin da quel giorno i due avevano avuto una grande affinità. Man mano che gli anni passavano e i neonati diventavano più grandi la loro amicizia si rafforzava, mentre tutte le altre bambine giocavano con bambole di pezza lei e Saad correvano scalzi per i prati con bastoncini di legno come spade fingendo di essere dei cavalieri del medioevo, e quando poi erano troppo stanchi per continuare, si sdraiavano sull’erba a osservare il cielo. Oltre a Saad gli unici affetti di Leena erano i componenti della sua famiglia, il nonno Abbas, abitava in città e raramente veniva a trovare i nipoti e il figlio, la madre, Fatima, donna abbastanza severa e per niente brava a mostrare apertamente sentimenti come l’affetto, il padre Abdul, che al contrario della donna che aveva sposato, era sempre affettuoso con i figli e infine i due fratelli, il maggiore, Talal, ragazzo con un innato senso dell’ironia, trovava sempre il modo per far ridere qualcuno, anche nei momenti meno opportuni anche se a volte era cattivo nei confronti della sorella e in fine Samir, tanto dolce quanto testardo.
Febbraio 2011
“ Il cavaliere si preparò allo scontro, sapeva cha sarebbe stato impossibile vincere contro un cavaliere molto più esperto di lui ma decise che doveva lo stesso tentare, ne valeva del suo onore. Il cavallo cominciò a correre, lo scudo stretto nella mano sinistra e la lancia nella mano destra, Sancerre sembrava una furia anche da sotto l’elmo, i due cavalieri si scontrarono, Ian sentì un formicolio attraversargli la schiena e prima di potersene accorgere…” “ Leena chiudi quello stupido libro e vieni ad aiutarmi con la colazione” urlò sua madre “Arrivo mamma” rispose Leena, chiuse il libro di malavoglia e si diresse in cucina. “ Quante volte ti ho detto che prima di leggere devi svolgere i tuoi compiti giornalieri “ disse ora con più calma Fatima che si aggirava per la cucina poco ammobiliata preparando la colazione “ Lo so mamma, scusa” poi prese l’immondizia e corse fuori nel grande prato incolto che si collegava a una piccola collinetta da cui si vedeva la città, la poggiò nell’angolo con gli altri sacchetti e poi anche se l’idea di correre sull’erba la invogliava dovette rientrare. La colazione era scarsa, essendo sunniti non potevano permettersi molto ma a Leena andava bene. Il denaro all’interno della casa era il problema minore, la sua famiglia aveva una mente troppo ristretta e spesso lei si sentiva soffocata dall’arretratezza soprattutto della madre. “Mamma, sai che Leena legge anche la notte, dovreste vietarle di aprire anche un solo libro secondo me” disse Talal. La madre guardò Leena con lo sguardo severo e aggiunse “ perdi solo tempo leggendo, non so perché te lo permetto ancora. Tuo padre dovrebbe smetterla di comprateli, sono solo uno spreco di soldi” “ Ogni volta che la vedo sorridere aprendo uno dei libri che le compro mi ripaga del denaro che spendo quindi continuerò a comprarle tutti i libri che desidera e tu cara non te ne devi preoccupare” rispose Abdul, poi senza aspettare che qualcuno le desse il permesso la ragazzina si alzò, tremendamente arrabbiata guardando il fratello per aver fatto la spia. Afferrò il libro dal comodino della camera letto, e poi corse fuori. Non poteva più trattenersi, sentiva il bisogno di prendere quel libro e correre via, arrivata sulla collina prese un respiro profondo, l’aria di febbraio a quell’ora era ancora molto fredda, il vento le sfiorava le guance morbide scompigliandole i capelli neri, aprì le braccia, chiuse gli occhi e per un momento fu come volare. Avrebbe desiderato essere un gabbiano e scappare molto lontano, in un posto in cui le persone l’avrebbero accettata, ma sapeva che era una cosa impossibile, si era rassegnata all’idea di restare per sempre in un posto che ospitava solo gente dalla mente chiusa, in trappola come un topo. Anche per questo la sua più grande passione tuffarsi nella lettura, le piacevano i libri così tanto perché avevano il potere di liberarla quando si sentiva soffocare e la facevano sentire meno sola. Si immaginava accompagnare i cavalieri di cui leggeva e imparare a usare la spada, volare sul dorso di un drago, sapeva che ciò era impossibile ma la faceva stare bene. Si sedette a gambe incrociate sulle radici del tasso centenario e vi poggiò la schiena, sfiorò l’erba bagnata rialzò il velo per coprire i capelli e poi cominciò a leggere da dove si era fermata. Dopo non molto Leena si senti presa alle spalle, trasalì, si voltò confusa, ma si rassicurò in fretta quando vide Saad ridere per essere riuscito ad impaurirla, si era fatta prendere così tanto dal libro che non aveva sentito i passi dell’amico “ Sei uno stupido, potevi anche chiamarmi, mi hai fatto perdere il segno!” disse la ragazzina con un tono a metà tra il rimprovero e il divertimento “ Beh non sarebbe stato così divertente” disse l’altro ancora ridendo poi dopo aver smesso continuò “ Allora andiamo alla tana?” “ Volentieri “ rispose lei. La tana era il loro nascondiglio segreto. Si spostarono di poco verso i laterali dalla collina, si avvicinarono ad un albero dal grande fusto, andarono nella sua parte posteriore e entrarono in un’ incavatura stretta e bassa, vi passava una sola persona alla volta, Leena ci passava ancora con poca difficoltà mentre l’amico che diventava sempre più alto, a stento riuscì nell’impresa. All interno della cavità l’albero era molto più grande, vi erano attaccati disegni di navi e aerei, cavalieri e mappamondi, a terra tanti libri, tutti quelli che Leena e a volte anche Saad leggevano, in un angolo ammucchiati vi erano tantissimi fogli bianchi messi uno sopra l’altro, un blocco degli appunti e una penna. “ Come procede con la stesura del tuo libro?” “ Credi che se avessi idee sufficienti per scriverne uno non l’avrei già fatto?” “Si, Beh non ci pensare, quando sarà il momento le idee arriveranno” “ Spero che tu abbia ragione “ rispose Leena dubbiosa e rattristata, desiderava scrivere un libro con tutta se stessa, era la sua seconda passione oltre alla lettura ma le idee non arrivavano e se ne aveva non riusciva a coltivarle ritenendole troppo sciocche “ Tu non ti arrendere e ce la farai, ci immagino già adulti, sdraiati su una spiaggia assolata, una scrittrice e un dottore che si prendono una vacanza per staccare un po’ dalla vita frenetica della grande citta di Boston “. Un sorriso spontaneo nacque sulle labbra di Saad a quell’ immagine di vita perfetta che avevano immaginato insieme “ Si ma parliamo di cose più realistiche “ disse Leena per porre fine a quel silenzio “ Ohh dai, mi stavo immaginando a fare un tuffo da una scogliera” ridacchiò il ragazzo “ Si beh basta tuffi mortali, pensavo al nostro compleanno , che facciamo quest’anno” rispose l’amica che aveva con quella domanda attirato l’attenzione di Saad “sai che non ci avevo ancora pensato, fra due mesi compiamo 14 anni” “un mese, oggi è il 27 febbraio e dato che siamo praticamente a marzo manca solo un mese” chiarì Leena, non le era mai importato molto del suo compleanno ma le piaceva passarlo da sola con Saad, e i giorni prima del 18 aprile erano divertentissimi, fare progetti insieme, cose per lo più impossibili o infattibili per motivi economici, organizzare la festa a cui loro erano gli unici invitati, più che il giorno stesso preferiva il mese che lo precedeva. Si fecero trasportare così tanto dalla conversazione che non si accorsero che il tempo era passato velocemente e fuori era già buio, uscirono di corsa dall’albero e corsero a più non posso verso casa come facevano ogni giorno “ci vediamo domani alkatib” disse Saad “a domani tabib” rispose Leena e poi rientrò a casa.
Il mese di marzo non era cominciato bene. “in paese organizzano una rivolta cittadina” disse il padre di Leena a colazione pochi giorni dopo “è per via degli sciiti” aveva proseguito” io ho intenzione di partecipare, non se ne può più del loro governo, certo loro hanno forze militari alleate ma noi sunniti siamo più numerosi” aveva risposto Talal poi anche Fatima che in braccio teneva il piccolo Samir si era inserita nella discussione “si, credo che dovremo partecipare e farci sentire, basta essere sottomessi, loro vivono nell’agiatezza e noi, beh guardati in giro Abdul, non abbiamo niente e poi cosa ci costa” “si, avete ragione, ma ancora niente è certo” la discussione si protrasse a lungo, Leena ascoltava ma senza proferire parola con la famiglia, preferiva aspettare di vedere Saad per parlarne con lui.
I giorni volavano, Leena quasi non si accorse del tempo che passavano impegnata com’era a seguire la routine quotidiana.
“domani mattina andremo in piazza a protestare contro il governo” aveva detto il capo famiglia “il 15 marzo sarà un giorno importante per noi sunniti” aveva risposto la madre “perché sarà un giorno importante mamma? Cosa succede domani?” chiese il piccolo fratellino “domani il governo saprà chi siamo, Leena, Saad domani viene con noi dato che Hessa sta male e non si unirà a noi in protesta” “d’accordo mamma” aveva immediatamente risposto la ragazza felicissima ma allo stesso tempo dispiaciuta per la madre del suo migliore amico che stava male, sarebbe successivamente andata a trovarla.
La mattina arrivò, la famiglia Adonis era agguerrita e pronta a combattere per i propri diritti, l’unico che non capì bene cosa stesse succedendo fu Samir che credeva di stare solo andando a fare una passeggiata in piazza e quindi era felice. Toc toc, Leena sapeva già chi era e si diresse alla porta, aprì e vide il suo migliore amico sorriderle, “pronta?” chiese “certo, entra a fare colazione” entrò e insieme si diressero in cucina. Dopo una buona anche se scarsa colazione tutti insieme andarono in piazza e si unirono al resto della popolazione in protesta. Le persone urlavano contro il governo, il sindaco della città cercava di mettere ordine e le guardie impedivano alle persone di avvicinarsi più di tanto ma il popolo era agguerrito, Leena aveva paura di perdersi in mezzo a tutta quella confusione, Saad le prese la mano e gliela strinse forte per rassicurarla, ad un tratto al di sopra delle voci ci fu uno sparo, poi un altro e un altro, poi urla di dolore, il sindaco aveva dato l’ordine di imbracciare le armi e sparare, tutta la folla prima cosi sicura di se ora aveva solo paura, tutti cominciarono a correre in direzioni diverse, Leena era impietrita, si girava in torno e l’unica persona che riconosceva era Saad che le teneva ancora la mano incitandola a scappare, la famiglia Adonis si era separata e i due amici non riuscivano più a individuare gli altri componenti. Corsero via guardandosi intorno mentre il rumore degli spari continuava a rimbombare nell’aria e poi Saad riconobbe Talal seduto a terra cercando di calmare Samir e Fatima sull’orlo delle lacrime, poi vide Abdul a terra in una pozza di sangue, poco dopo anche Leena se ne accorse, si bloccò, guardò il padre da lontano senza capire, tutti i rumori intorno a lei svanirono, sentì una fitta al cuore, un dolore intenso, le lacrime iniziarono a scendere spontanee, senza controllo, era totalmente paralizzata, quando finalmente riuscì a muoversi corse verso la famiglia, un proiettile aveva colpito l’addome dell’uomo, Leena si sedette accanto a lui piangendo, mise le mani sulla ferita quasi volesse assicurarsi fosse reale e allo stesso tempo bloccare il sangue, “ andrà tutto bene papà” singhiozzava “starai bene” ripeteva più a se stessa che a lui
“promettimi che non abbandonerai mai i tuoi sogni” aveva risposto il padre, poi aveva posato la mano sulla sua guancia, si era voltato verso la moglie e col solo gesto delle labbra senza ormai più forze
“ti ho sempre voluto bene” poi la sua mano cadde a terra, gli occhi vitrei, guardavano il cielo senza poterlo vedere. La moglie piangeva con tutto il contegno che riuscì a trovare, la figlia quasi urlava il suo nome come fosse l’unica cosa di cui avesse bisogno, il figlio maggiore teneva il minore per impedirgli di vedere, la piazza era ormai quasi sgombra, i soldati raccoglievano i corpi per portarli via ma Leena non voleva lasciarlo andare, Saad dovette trascinarla via pur di farle lasciare il corpo e farlo portare via di là, aveva le mani sporche di sangue e il viso totalmente rigato dalle lacrime, lasciò che la sua migliore amica si poggiasse sul suo petto per consolarla mentre si dirigevano a casa, il sangue macchiò i vestiti di Saad ma non gli importava, quella rivolta era costata alla famiglia Adonis più di quanto avrebbero potuto immaginare...
Quella sera a casa il clima era insopportabile “dov’è papà?” chiedeva Samir “tornerà presto vero?” proseguiva lui ignaro “perché piangi mammina?” chiedeva senza sapersi rispondere. Il silenzio era pesante, Leena fissava la sedia dove solitamente sedeva il padre, più pensava a lui, a tutto quello che aveva sempre fatto per lei e più piangeva, silenziosamente, per non essere sentita, quasi nascondendosi, per vergogna forse o per paura di mostrarsi debole, alla fine si alzò e corse fuori, sulla collina seguita da Saad che era rimasto con la famiglia a consolarla per tutto il giorno, si sdraiarono sull’erba guardando il cielo stellato, nessuno dei due osava parlare, si addormentarono sotto il cielo di marzo.
Il giorno seguente fu ancora peggio. La salma fu restituita all’alba, l’anziano Abbas, ricevuta la notizia della morte del figlio era corso a casa della nuora, si propose per occuparsi del lavaggio, parte fondamentale del rito dato che nella tradizione si nasce puliti e si deve tornare alla terra puliti. Questo passaggio fu breve e l’anziano quasi pianse, “è mio figlio, non posso sopportarlo, so che dovremo essere felici perché la vita ultraterrena è migliore di quella terrena come dice il Korano ma non credo di poter accettare che sia morto prima di me” disse singhiozzando; Il secondo passo fu portare il corpo nella moschea del paese dove fu cosparso di unguenti e olii profumati e poi avvolto in un telo bianco, questa parte di rito fu visibile solo agli uomini. Le donne, comprese la madre e la figlia, erano sedute davanti alla moschea a pregare in ginocchio per l’anima dell’amato defunto. Alla fine gli uomini uscirono sollevando il corpo coperto, erano troppo poveri per potersi permettere una bara e cosi procedettero verso il luogo della sepoltura, era un terreno santificato vicino ad un grande lago ai piedi di un albero, in quel posto regnava la pace e l’uomo non desiderava altro che riposare eternamente lì e così fu fatto. La moglie riuscì a ricomporsi, alzò il velo che in genere portava come Shayla fin sopra il naso per coprire il volto altrimenti visibilmente sconvolto mentre la figlia crollò totalmente, voleva correre verso la buca fu, tirare fuori il corpo del padre e stringerlo al petto, senti le ginocchia cedere, crollò a terra sfinita quasi senza più lacrime da versare, il respiro affannato, gli occhi gonfi e rossi. Il fratello maggiore si avvicino a lei, la raccolse delicatamente da terra e la accompagnò a casa seguito da Samir e Saad che però si diresse a casa sua per lasciare la famiglia da sola a elaborare il lutto.
Leena non uscì di casa per giorni, passava il suo tempo a piangere a letto e non aveva più voglia nemmeno di leggere. I libri, regali del padre, le pagine ingiallite, l’odore le ricordavano i suoi sorrisi, i suoi occhi lucenti e generosi, disposti anche al sacrificio pur di renderla felice. Le uniche persone che vedeva erano la sua famiglia e Saad che tutti i giorni le faceva visita e le raccontava di quello che faceva o di quanto gli mancasse passare del tempo fuori casa, ma lei non si smuoveva, non aveva alcuna voglia di uscire. Il tempo passava e, quando Leena trovò la forza di uscire di casa erano ormai passate due settimane o più dalla morte del padre. Una volta fuori si accorse che l’aria era cambiata, non era difficile notarlo, il cielo di marzo era ancora spesso nuvoloso come se volesse sempre piovere, anche se a volte qualche debole raggio di sole attraversava la barriera delle nuvole per mostrarsi con forza e portare il suo calore. Durava poco ma questo contribuiva solo a renderlo più speciale. Si diresse quasi di corsa alla tana e, quando vi entrò le sembrava diverso, le era mancato quel posto, si sedette a terra con le spalle alla corteccia dell’ albero, sfiorò la catasta di libri e ne prese uno in mano, lo aprì e ne odorò le pagine, e cominciò a leggere. Il libro parlava di guerra, il dramma che essa rappresentava, lei non l’aveva mai capita a pieno, poteva solo immaginare quanto dolore essa potesse portare. “Questo dannato buco diventa sempre più stretto” disse Saad che era appena comparso dalla fessura dell’albero “Sei tu che diventi sempre più alto” rispose Leena “Hai ragione, finalmente sei uscita di casa, non ci speravo più, ti va di andare un po’ in città”? chiese l’amico ma poi vedendo l’espressione corrugata dell’amica aggiunse “Okay, niente, lasciamo perdere, preferisco restare qui dentro, ci divertiremo di più” Leena apprezzò molto il gesto dell’ amico e lo ringraziò calorosamente con lo sguardo per non averla costretta a tornare in quel posto che era per lei fonte di sofferenza, più avanti forse sarebbe riuscita a rivedere la piazza di Dar’a ma non adesso, non così presto.
Leena tornò a casa, entrò silenziosamente senza farsi sentire e udì i suoi familiari parlare “Mamma la situazione peggiora, stanno tagliando i viveri a tutti noi sunniti, presto rimarremo senza più denaro né cibo, come possiamo sopravvivere?” aveva detto Talal sottovoce “Non lo so ancora, ci arrangeremo finché potremo, poi non lo so “rispose Fatima bisbigliando. Alla fine Leena si decise a entrare in stanza deducendo che la discussione era finita e non c’era più niente da ascoltare “Ciao mamma, io vado a letto” aveva detto
“Non mangi, stavo per preparare la cena” aveva risposto la donna
“No grazie, non ho fame” poi si diresse a letto.
Marzo lasciò spazio ad aprile, la vita era sempre precaria.
“buongiorno quattordicenne” Leena si era svegliata sentendosi urlare addosso quest’affermazione, era il giorno del suo compleanno
“auguri anche a te Saad” aveva risposto la ragazza assonnata e con finta allegria, avrebbe preferito dormire ma una volta sveglia non ci sarebbe più riuscita. “ti ho comprato una cosa” le rivelò il ragazzo “Non dovevi” disse lei “Si dovevo, ecco, questa è per te “tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una collana con un particolare ciondolo, una piuma “questa è simbolica perché anticamente si usavano le piume per scrivere e dietro ci sono incise le nostre iniziali, so che non è bellissimo ma…” non lo fece neanche finire, lo abbracciò dicendo
“è bellissimo, non potevo desiderare di meglio” . Il compleanno fu
“festeggiato” in modo molto semplice, Hessa e Amal andarono a casa di Fatima per fare gli auguri a Leena e quando i due ragazzi riuscirono a liberarsi della famiglia per scappare nel loro rifugio i genitori continuarono a parlare e i ragazzi erano finalmente liberi di passare il loro compleanno da soli, come avevano sempre fatto.
Anche a Maggio come Aprile niente di importante era capitato anche se l’aria del cambiamento cominciava a sentirsi sempre più. Finalmente a giugno gli abitanti di Dar’a scoprirono che la loro rivolta era servita a qualcosa. “Mamma, notizie dalla citta!” aveva urlato Talal “a Latakia vi è stata una rivolta cittadina, come la nostra”. Nei mesi successivi sempre più rivolte cittadine vi furono, Homs si ribellò in Agosto e Aleppo a Settembre, finché la rivolta non raggiunse a Novembre anche Damasco, la capitale siriana, questa inizialmente apparve come una bella notizia, le persone non sapevano ancora che quest’ultima rivolta avrebbe portato all’inizio di una vera e propria guerra.
Quest’ultimo mese aveva portato con sè oltre al freddo rigido alle piogge frequenti un valanga di notizie. Vi erano ormai state troppe rivolte e il governo siriano decise di estirpare le idee di rivolta da dove erano partite, gli abitanti della piccola cittadina di Dar’a furono vittime di sparatorie, tutti i loro possedimenti importanti come denaro e oro furono loro sottratti dagli sciiti, le condizioni di vita arrivarono ad essere peggiori di quanto già non fossero. I sunniti si ritrovarono senza cibo, alcuni senza casa come anche il nonno di Leena che era stato costretto ad abbandonare la sua casa ormai distrutta per trasferirsi a casa della famiglia Adonis, picchiati dalle guardie dello stato se provavano a dire una sola parola contro il governo. Ben presto queste misure drastiche si espansero su tutto il territorio. I sunniti cercavano di difendersi ma soli non potevano far niente. Cercarono aiuto nei loro alleati di vecchia data, i Francesi e in nuove alleanze, come la Turchia, gli Stati Uniti D’America, l’Arabia Saudita e il Qatar, allo stesso modo gli sciiti ricevettero aiuto militare da Iran, Russia, Egitto, Corea del Nord, Iraq e Cuba.
L’anno era ormai finito e Gennaio non era stato clemente. “Come ti senti oggi Samir?” aveva chiesto la madre al bambino dal volto smagrito “Benino” aveva risposto il piccolo tossicchiando visibilmente infreddolito, Fatima toccò la sua fronte, la febbre non voleva proprio scendere e non potendosi permettere le medicine adatte, non poté curarlo, aveva venduto tutto ciò che poteva per comprarle insieme al cibo ma ormai il denaro era finito, le medicine erano servite a ben poco e non c’era più niente da vendere. “Vedrai che presto starai meglio, mangia questo” aveva detto la madre mettendo in bocca a Samir un cucchiaio di zuppa fatta con la poca verdura che si erano potuti permettere, anche se il cibo era così poco che bastava a sfamare solo il bambino e in minima parte i due figli che si accontentavano di croste di pane e scarti di cibo che normalmente sarebbero stati buttati. “Mamma, nonno voi cosa mangiate?” domandò Leena “Noi stiamo bene così” aveva risposto Fatima per entrambi, preferiva sfamare i suoi figli aveva dedotto Leena “Volete un po’ di crosta?” aveva domandato, questa volta fu il nonno a rispondere, dissenti con la testa senza più forza di parlare per colpa della malattia che lo aveva colpito, i medici avevano detto che si trattava di tifo e che si stava diffondendo rapidamente a causa della scarsa igiene. Leena non aveva osato ribadire anche perché la fame era molta e ogni volta che apriva bocca sentiva che avrebbe potuto vomitare.
Finito lo scarso pranzo Leena uscì di casa e anche se l’aria era fredda e il vento le pungeva il viso rimase a fissare il cielo, strinse la coperta sulle spalle e aspettò di vedere il suo migliore amico con cui si era data appuntamento, sentì dei passi alle sue spalle, si voltò e lo vide camminare sfinito verso di lei, la guerra e la fame avevano cambiato anche lui, ora era molto più magro di prima, con meno forza e meno voglia di correre ma con l’immancabile sorriso rassicurante sulle labbra e tanto senso dell’umorismo anche in quella brutta situazione “Come va Alkatib ?” “Bene Tabib” aveva risposto lei, questi erano i due soprannomi che a volte usavano per chiamarsi, stavano a significare scrittrice e medico, i mestieri che sognavano di fare da grandi. Si incamminarono verso la tana “Tuo fratello e tuo nonno?” “Male” aveva risposto Leena tossendo e avvolgendo il velo ancora di più intorno alla gola, ultimamente non stava molto bene ma preferiva non dirlo a nessuno per evitare che si preoccupassero inutilmente. Entrati nell’albero Leena si sentì subito meglio, quel posto era l’unico rimasto lo stesso, certo ora mancavano i fogli di carta, la penna e tutti i suoi libri che era stata costretta a vendere per curare i suoi familiari, ne aveva tenuto solo uno, lo prese in mano e ricordò un momento… “ le lacrime solcavano il suo viso, i libri erano ciò che lei aveva di più caro, gli ultimi ricordi di suo padre, venderli sarebbe stato come perderlo totalmente ma doveva farlo o suo nonno e suo fratello non sarebbero mai potuti guarire, li prese tutti dalla tana e li portò a casa, sua madre li guardò uno ad uno, li afferrò per portarli al mercato e venderli insieme alle altre poche cose, Leena raccolse dal mucchio “Orgoglio e pregiudizio”, era il suo libro preferito in assoluto, Elizabeth, la protagonista era una donna così forte e Leena sognava di essere proprio come lei, sognava di trovare il suo Darcy in un mondo di Wickham, di trovare il vero amore, quello disinteressato, quello che a volte più fare paura ma poi, quando lo hai trovato è l’unica cosa di cui hai bisogno, e forse lo aveva anche trovato ma la paura di rovinare il meraviglioso rapporto creato negli anni era più forte del sentimento stesso; lo osservo per l’ultima volta, ne annusò le pagine, chiuse gli occhi e rivide suo padre che glielo regalava, li riaprì e lo porse alla madre ma lei allontanò la mano della figlia, il suo volto indurito dalla guerra si ammorbidì, sorrise leggermente e disse “Tienilo”poi si allontanò dalla figlia ancora spiazzata da quel gesto “ Leena era molto riconoscente alla madre che le aveva permesso di tenerlo, lo appoggiò a terra e vi si sedette accanto. I due si guardarono a lungo poi Saad chiese “Secondo te finirà presto?” Non lo so aveva sinceramente risposto Leena “Può andare peggio di così?” aveva domandato poi lui “Non c’è mai fine al peggio” fu la sua risposta poi Leena si accasciò a terra senza forze.
“Leena ti va di venire con me e la famiglia di Saad in città per vedere se riusciamo a trovare qualcosa a basso prezzo per curare i malati?” aveva domandato Fatima “No mamma, ti prego, non mi va “aveva risposto la ragazzina “Allora va con i tuoi fratelli a pregare sulla tomba di tuo padre “aveva controbattuto la madre “D’accordo” aveva risposto lei senza esitare poi si alzò e si vestì. Quando furono pronti tutta la famiglia meno il nonno che era rimasto in casa a dormire uscirono e aveva incontrarono la famiglia Belabed “ Allora oggi mi abbandoni ?” aveva chiesto Saad “Si, oggi ti annoierai senza di me, mi dispiace ma la preghiera mi chiama” “Certo certo, tutte scuse, dillo che ti annoia scendere in città” “Forse hai ragione, ci vediamo dopo “i due amici si salutarono nello stesso modo di sempre, con lo stesso sguardo di sempre e anche se non se lo erano mai detto esplicitamente si volevano un gran bene, anche più di quanto gli facesse piacere ammettere; poi presero due direzioni diverse, i tre fratelli si diressero sul terreno santificato dove il padre riposava , il fratellino ammalato si sdraiò a terra, gli altri due si inginocchiarono sulla tomba rivolti verso La Mecca e iniziarono a pregare. Alcune ore dopo il sole era alto nel cielo e capirono che era ora di tornare a casa per il pranzo, Talal raccolse Samir che si era addormentato e lo portò in braccio, mentre erano sulla strada del ritorno, quando la loro casa si intravedeva, videro un lampo di luce accecante e udirono un rumore assordante, poi tanto fumo nero coprì il cielo, tutto accadde rapidamente, i tre fratelli corsero verso la casa, che era crollata come un castello di carta, poco prima di arrivare alle macerie che costituivano a loro abitazione e in cui si trovava il loro nonno, videro un altro lampo di luce poi di nuovo quello stesso rumore e tanto fumo nero ma questa volta proveniva dalla città, la stessa città in cui si trovavano Hessa, Amal, Fatima e Saad. Leena rimase paralizzata, cominciò a correre in direzione della citta urlando il nome del suo migliore amico, di sua madre e delle persone care che probabilmente non esistevano più, Talal mise giù il fratellino, corse verso di lei e la fermò “è troppo pericoloso, dobbiamo ripararci” disse quasi urlando alla sorella che cercava con tutte le sue forze di liberarsi “ Ti prego lasciami andare, lasciami andare da loro “urlò piangendo disperatamente “NO” aveva risposto seccamente Talal
“Non possiamo, è pericoloso, io devo proteggervi”
“Ti prego” aveva detto Leena abbassando la voce fino ad un sussurro straziante “No” era rimasto fermo sulla sua opinione Talal che riusciva a stento a mantenere la calma, “Rifugiamoci in un posto sicuro” aveva detto senza sapere dove andare “Seguimi” gli aveva risposto in fine Leena ormai arresasi alla volontà del fratello.
Li portò alla tana e dopo essere entrati anche se Talal ebbe alcune difficolta si sedettero a terra ad aspettare per un tempo che sembrava infinito, solo dopo alcune ore il maggiore disse rompendo il silenzio tombale “Possiamo andare adesso”. I tre uscirono dal rifugio per dirigersi verso la città.
Arrivati trovarono caos e disperazione, tutto era distrutto, le persone erano quasi tutte morte, i pochi superstiti erano sdraiati ai lati delle strade distrutte totalmente, mutilati o feriti gravemente, molti in fin di vita, alcuni medici erano appena arrivati dalla città vicina per aiutare i pochi di Dar’a che non ce la facevano da soli. I tre fratelli si misero alla ricerca dei loro cari nella speranza di trovarli, anche se feriti bastava fossero vivi, poi dopo alcune lunghe ricerche un urlo straziante fece capire ai due fratelli di Leena che ciò che più temevano si era realizzato, la ragazza corse verso il bordo della strada in cui erano stati ammucchiati i cadaveri, il corpo di Saad era lì, esanime, gli occhi ancora aperti e spaventati, Leena sentì il cuore sgretolarsi, il dolore si era impossessato di lei, gli chiuse gli occhi, stringeva il corpo del ragazzo come se questo potesse riportarlo in vita, Talal si avvicinò a lei stando bene attento a tenere Samir ad occhi chiusi per impedirgli di vedere quell’orrore, le cinse le spalle e cercò di allontanarla ma lei non voleva lasciar andare il suo migliore amico, poi, poco dopo un altro corpo fu aggiunto al mucchio, il corpo di Fatima giaceva lì, anche lei era morta, un’altra volta Leena sentì quel dolore al petto ormai familiare e non riuscì a trattenere un altro urlo di dolore, questa volta anche il viso di Talal fu solcato dalle lacrime, lui le asciugò subito e decise che non poteva più permettere che sua sorella vedesse un tale orrore, riconobbe alle guardie i due corpi poi prese la sorella e la trascinò via con la forza, arrivati a casa videro che pure lì delle guardie si stavano occupando delle macerie, il corpo del nonno non era ancora stato trovato ma Talal e Leena sapevano che Abbas non sarebbe potuto sopravvivere ad un bombardamento, si sedettero a terra senza sapere cosa fare, in fine quando il corpo fu ritrovato e riconosciuto i giovani furono portati nello studio di un medico in parte ancora intatto per poter riposare e assistere il giorno dopo al rito funebre di tutti i caduti poi insieme agli altri superstiti sarebbero stati fatti evacuare dal paese e portati in America, paese loro amico e pronto ad ospitarli.
I tre orfani non riuscivano a dormire, guardavano il tetto dello studio, Leena ancora piangeva, non credeva di poter provare un dolore tanto forte come quello che sentiva in quel momento.
Il funerale fu straziante, durante la notte avevano trovato altri corpi tra cui quelli dei genitori di Saad. Ad ogni corpo fu eseguito il rito passo passo e dopo che tutti i corpi furono pronti vennero portati in un terreno santificato ma Fatima, Saad, Hessa, Amal e Abbas vennero portati vicino ad Abdul e sepolti lì, vedere quelle tombe messe una vicino all’altra fu troppo doloroso, Leena desiderava solo che fosse un incubo, un brutto incubo da cui presto si sarebbe svegliata ma quel momento non arrivava mai e più lo desirava meno le sembrava possibile.
Rimasero a fissare le sei tombe per ore poi Talal disse “La nostra nave sta per partire Leena dobbiamo muoverci” Leena fece un respiro profondo, annusò ancora una volta l’aria di Dar’a, si guardò intorno cercando di cogliere tutte le sfumature, osservando quel luogo come chi sa che non tornerà per molto tempo se non per sempre, baciò le tombe una ad una e dopo aver asciugato le ultime lacrime e si incamminò dietro ai fratelli.
Dopo numerosi controlli salirono sulla nave che li avrebbe portati in America. Il viaggio fu lungo e difficoltoso, i passeggeri non erano abituati a tante ore di navigazione e molti vomitavano giù dalla nave, i ragazzi dovettero passare quaranta giorni per mare, negli alloggi vi erano solo le cose essenziale: un letto un comodino e poco altro.
A Samir furono date le medicine necessarie e in poco tempo guarì dalla febbre. Talal, Leena e Samir dormivano nello stesso letto passavano il loro tempo chiusi nella cuccetta e quando uscivano osservavano il mare che non avevano mai visto e il cielo che pur essendo uguale era così diverso da quello che avevano ammirato nel loro paese.
Le piogge erano sempre meno frequenti man mano che il tempo passava e che si allontanavano dalla Siria. Ogni tanto il mare si agitava, non succedeva spesso ma quando accadeva era orrendo, la nave veniva sbattuta violentemente a destra e sinistra, il vento soffiava forse, sempre di più e Samir come gli altri bambini e anche molti adulti che soffrivano di mal di mare vomitava, la notte non si dormiva e a volte vi erano anche dei morti, non si desiderava altro che la fine di quelle correnti così violente. Dopo quei lunghi quaranta giorni la nave approdò al porto di Boston.
Leena si guardò intorno, il sogno suo e di Saad si era in parte realizzato, era a Boston, uscì fuori da sotto il velo il ciondolo a forma di piuma e lo strinse tra le mani.
I tre orfani furono controllati dalle guardie poco dopo essere scesi, i minorenni sarebbero stati portati in una casa famiglia o in un orfanotrofio ma siccome Talal era ormai maggiorenne si sarebbe preso cura lui dei suoi fratelli. Furono portati in una struttura addetta ad accogliere i rifugiati. La casa era accogliente, uno ad uno fecero le docce e poi si sdraiarono sotto le coperte per poter finalmente passare una vera notte di sonno.
L’accoglienza in America non fu delle migliori.
Ambientarsi in un luogo così lontano e con una coltura così diversa non era proprio facile e le persone di boston non aiutavano affatto. Ogni tal volta che Leena usciva di casa tutti la guardavano male puntandole il dito come se portando quel velo commettesse un reato. La infastidiva sentir parlare le persone di lei, sentirle ridere e prenderla in giro per il modo di comportarsi, mangiare o parlare. Lo stato donava dei contributi per permettere ai ragazzi di studiare e così Leena, Talal e Samir si iscrissero in una scuola serale per imparare la lingua Americana, anch’essa così diversa dalla propria.
Dopo un intero anno passato a studiare era riuscita finalmente a comprendere e parlare l’americano e si era iscritta a scuola insieme ai fratelli ma ben presto Leena scoprì che la scuola poteva essere un posto orrendo se non si viene accettati.
“ io mi chiamo Leena Adonis e vengo da Dar’a un paese della Siria” così si era presentata il primo giorno di scuola ed era stata da brutte occhiatacce e bisbigli di cui era riuscita ad afferrare solo alcune frasi come “ arabi schifosi” o “ non voglio in classe una come lei”.
Si sedette al suo banco isolato e vi rimase fino al suono della campanella, poi corse in bagno a piangere. Si sedette sulla tavoletta chiusa tentando di sopprimere i singhiozzi, di essere forte come Elizabeth, la sua eroina dei libri ma non ci era riuscita, perché era così difficile essere accettata, apprezzata per quello che si è invece che per la propria nazionalità ma forse non lo sarebbe stata mai, forse vi era un muro troppo alto da abbattere tra lei e le altre persone, forse alla fine sarebbe rimasta sola del tutto.
I giorni passavano, mese dopo mese Leena si chiudeva sempre più in se stessa parlando a stento con i suoi fratelli e nessun altro, a scuola studiava e aveva ottimi risultati ma quel posto rappresentava per lei l’inferno, giornalmente era vittima dei compagni che la caricavano di insulti a volte troppo pesanti da sopportare. Passava le ricreazioni in bagno, sena mangiare ma con il suo unico amico, il libro che era riuscita a salvare e portare con se, leggendolo e rileggendolo ogni giorno, quello era l’unico momento della giornata in cui riusciva a respirare un po’ e sentirsi amata e accettata, quando sognava di trasferirsi a Boston non credeva che sarebbe stato così difficile.
“ mi hai abbandonato qui Leena, è colpa tua se sono morto, è colpa tua” Leena si svegliò di soprassalto, il cuore palpitava velocemente, le mani le tremavano, piangeva a dirotto, la voce di Saad le rimbombava nelle mente, ripoggio la testa nel cuscino e respirò profondamente, non sarebbe più riuscita a dormire, lo sapeva bene, le capitava quasi ogni notte e ormai era abituata.
Quando sentì la sveglia suonare la ragazza si alzò dal letto, quel giorno era peggiore degli altri, era l’anniversario di morte di Saad e di sua madre e suo nonno e tutti i morti di quell’orrenda strage che non era ancora riuscita a dimenticare. Si diresse a scuola a piedi.
La prima e la seconda ora c’era chimica, non era ancora riuscita a capire la sua utilità, a cosa le sarebbe servito nella vita conoscere la differenza tra ioni e cationi o che cos’è un idracido, secondo lei dovrebbero insegnare nelle scuole cose utili per la vita di tutti i giorni, magari da grande saprà cos’è un legame a idrogeno ma non conoscerà tutti i diritti umani, ne abbiamo 32, si dovrebbero sapere a memoria. Tal volta quando c’era chimica pensava al dialogo di un libro “ odio la chimica” aveva detto Lydia “ la chimica è come te” aveva risposto Daniel “e come sono io?” “complessa e meravigliosa” poi però le tornava in mente che durante quell’ora avrebbe dovuto ripetere a memoria formule e legami e altre cose sempre più complesse e tornava di malumore. Al suono della ricreazione si diresse in bagno per la strada si senti urlare alle spalle “ schifosa araba torna a casa tua!”. Si chiuse dentro, prese il libro e cominciò a leggere ma non riuscì a terminare il terzo capitolo che scoppiò a piangere, tutto in quel momento le ricordava il suo migliore amico e il dolore che provava unito al peso degli insulti e delle prese in giro era troppo da sopportare, chiuse il libro e ne ammirò la copertina con la vista sempre più appannata e i singhiozzi che contro la sua volontà si facevano sempre più forti, ricordò quando per la prima volta lei e Saad avevano scoperto la tana e tutte le volte in cui insieme giocavano e poi quando avevano inventato il loro nomignoli, ma ad un certo punto i suoi pensieri furono interrotti, qualcuno bussava alla porta, Leena tento di ricomporsi e inghiottito il groppo che aveva in gola rispose “occupato” la voce sconosciuta rispose a sua volta “stai bene, mi è sembrato di sentirti piangere” qualcuno per la prima volta le aveva rivolto la parola per chiederle qualcosa di carino, evidentemente non aveva capito di star parlando con l’araba “ si, non ti preoccupare, tutto bene, è solo un brutto momento” “capisco, beh se hai bisogno di aiuto o semplicemente di parlare io ci sono, sai sono nuova qui a scuola e non conosco nessuno, vorrei avere un po’ di compagnia e se va anche a te potremmo parlare “ Leena esitò, mille pensieri le passarono per la mente poi sentì di nuovo la voce ignota “se ti va mi trovi in mensa” asciugò le lacrime e uscì da quel bagno “emm aspetta” la ragazza si voltò visibilmente felice, porse la sua mano a Leena e si presentò
“piacere, Dafne” “Leena” “allora Leena da dove vieni, scommetto che non sei nata a Boston” chiese Dafne che così facendo diede inizio a una lunga conversazione, era la prima volta che Leena parlava con qualcuno che con fossero i suoi fratelli, al suono della campanella che segnava la fine della ricreazione Leena e Dafne si salutarono “ tu come torni a casa?” chiese Dafne “a piedi” rispose Leena “anche io, andiamo insieme, ti va?” “certo, ci vediamo all’uscita”, finalmente, dopo tantissimo tempo Leena si rese conto di star sorridendo.
Aprile 2017
“Drin drin” Leena si svegliò sentendo la sveglia suonare, alzò la testa dal cuscino e di malavoglia si alzò per prepararsi. Finito di sistemarsi scese la scalinata bianca e cominciò a preparare la colazione “Talal, Samir “ la colazione è pronta” gridò la ragazza, i due fratelli scesero di corsa le scale per mangiare tutti insieme “Allora sorellona oggi vai a scuola o devi firmare altre copie del tuo nuovo libro, no perché vorrei sapere se mi tocca andare di nuovo a piedi a scuola” disse Samir ironico “No, l’università di lettere mi attente, le firme possono aspettare “disse Leena con voce soddisfatta. Era riuscita a coronare il suo sogno, negli anni che avevano succeduto il loro sbarco, mentre andavano a scuola Talal lavorava per poter mettere soldi da parte, l’anno precedente aveva terminato gli studi e cominciato a lavorare come psicologo in una scuola di Boston, così con i soldi messi da parte avevano potuto comprare una casetta tutta per loro, semplice ma bella, Samir era ancora piccolo, aveva tredici anni ma era molto intelligente e apprendeva velocemente, per quanto riguarda Leena dopo il diploma ottenuto con il massimo dei voti si era iscritta all’università di lettere, contemporaneamente aveva scritto il suo primo libro pubblicato pochi mesi prima. Esso parlava della guerra che lei aveva vissuto, dell’orrore che aveva potuto vedere e della crudeltà che l’uomo poteva avere, il ricordo di quello che aveva vissuto in Siria la svegliava ancora la notte, nonostante tutto Leena era riuscita anche ad avere una vita sociale e sentimentale, aveva svariate amiche ora oltre a Dafne che negli anni era diventata come una sorella per lei e che all inizio della sua nuova vita a Boston l’aveva aiutata a superare la paura di non essere accettata e a denunciare alla preside della scuola il comportamento degli alunni, e Dylan il suo fidanzato da un anno che amava molto. Pensava spesso a Saad, non aveva mai levato il ciondolo che lui le aveva regalato e sapeva che lui era felice di ciò che lei era diventata. Leena non era mai più potuta tornare a casa ma cercava spesso di parlare attraverso il suo blog del dramma della guerra che dopo sei lunghi anni non aveva avuto ancora fine e che aveva portato solo disperazione e morte.
Leena portava ancora sulle spalle il peso delle esperienze fatte da ragazzina e avrebbe fatto di tutto pur di poter contribuire in qualche modo alla fine di questa guerra.
La sua vita ora andava bene
A questo punto della premiazione abbiamo avuto il gande onore di ospitare il Sindaco di Letino (Ce) accompagnato da una damina che indossava un costume locale invitato dal concorrente (Gino Iorio) vincitore della medaglia del Senato









PREMI SPECIALI
Sorba Renata di Asti: medaglia della provincia di Asti per le sue opere.
***
Premio Sarah Bergoglio offerta dalla famiglia Bergoglio per ricordare la loro piccola Sarah, all’autore più giovane Pietro Pifferi di 10 anni da Ferrara
***
Per i 150 anni dalla fondazione de: “La Stampa”
“La stampa di Torino” offre una targa a Pippo Monteleone da S. Margherita di Belice (Ag) la consegna il giornalista Dott. Armando Brignolo
***
Il Direttore de: “La Stampa” di Asti Dott. Lavinia offre una targa “la stampa di Asti” alla poesia dal titolo: “V. Alfieri” di M. Carmela Mugnano da Roma Premia il giornalista Dott. Armando Brignolo
***
Medaglia di bronzo, premio di rappresentanza offerta dal Presidente del Senato On. Pietro Grasso viene donata al Signor Benito Patitucci da Cosenza per l’opera: “Tremule scintille”
Consegna il vice Prefetto aggiunto di Asti Dott. Renzo Remotti
***
Una seconda medaglia di bronzo, premio di rappresentanza offerta dal Presidente del Senato On. Pietro Grasso viene donata al Dott. Gino Iorio
Da Calvi Risorta (Ce) per l’opera: “LETINO”
Consegna il vice Prefetto aggiunto di Asti Dott. Renzo Remotti

Medaglia offerta del Sig. Prefetto di Asti Dott. Paolo Formicola premio di rappresentanza viene donata al Cav. Giovanni Cianchetti da Torino
Consegna il vice Prefetto Aggiunto di Asti Dott. Renzo Remotti

***
Premio Vaticano offerto da S.S. Papa Francesco a Salvatore Avellino da Foligno (Perugia) per il libro dal titolo:
“Il dono Divino: della Misericordia”



 

 

Torna indietro